Il terrorismo asimmetrico e la regola del secondario-principale

«Cosa sta succedendo? A cosa stiamo assistendo,
in parte affascinati e in parti abbattuti?
Al prolungarsi, in un modo o in un altro, di un mondo stanco?
A una benefica crisi di questo mondo, in preda alla propria vittoriosa espansione?
Alla sua fine? All’avvento di un altro mondo?
Cos’è insomma che ci sta accadendo, alle soglie di questo secolo?
A cosa non riusciamo a dare un nome preciso in nessuna delle lingue sconosciute?»

Alain Badiou, Il risveglio della storia [2011], p.7

 

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Cosa sta succedendo? Sul tragico bisogno di senso.

«Cosa sta succedendo?» si chiede Badiou nel 2011 nel bel mezzo della crisi finanziaria forse più feroce dopo quella del 1929. Cosa sta succedendo?, ci chiediamo noi tutti dopo l’ennesima, incomprensibile, strage di matrice terroristica che insanguina le strade delle nostre città. Cosa sta succedendo è la domanda che più di altre evidenzia il sintomo della nostra contemporaneità, vale a dire l’assenza di senso, l’impossibilità di comprendere ciò che accade attraverso il riferimento a una comoda e consolidata operazione di trascrizione simbolica. Ma è Lacan a ricordarci che nulla fa girare la macchina del senso come «la sua risorsa quotidiana: che niente nasconde meglio di ciò che svela, ovvero della verità»[1]. In altre parole, mentre produciamo discorsi su discorsi, divorati dall’ansia di comprendere ciò che accade – la verità –, stiamo alimentando la girandola entro cui si perde il senso. Sempre Lacan, per evocare questa disposizione ontologica al fallimento della significazione, ha utilizzato il termine freudiano di «Das Ding», semplicemente la Cosa, o come dice lui in diversi passaggi «l’Acosa», ad evidenziare che in questo moto perpetuo diretto alla formalizzazione impossibile è implicato il desiderio, quello mosso dall’«objet petit a» [da cui la sottolineatura attraverso la maiuscola della A]. Ma cosa significa quanto appena detto? Significa che ogni qual volta il soggetto prende parola per articolare il proprio senso, la propria singolare e definitiva verità, in realtà sta partecipando ad un paradossale rito collettivo che nasconde svelando proprio quella verità che vuole portare alla luce. A ciò bisogna aggiungere che, sempre secondo Lacan, il soggetto – e quindi anche la collettività – mentre cerca di rispondere alla domanda «Cosa sta succedendo?» lo fa sulla base di una istanza difensiva che prende la forma della singolare nevrosi scelta per sopportare l’assenza della Cosa. Come si ricollega questo discorso al piano dei tragici avvenimenti che stiamo vivendo? Attraverso una semplice considerazione: le diverse spiegazioni, attraverso cui cerchiamo di comprendere la realtà insensata in cui siamo immersi, falliscono proprio perché hanno la pretesa di saturare l’impossibile formalizzazione degli eventi. Riportare alla sua cornice simbolica l’evento di una strage di innocenti durante un concerto, o comprendere perché un uomo decida di mettersi alla guida di un autoarticolato per falcidiare famiglie in festa è semplicemente impossibile. Impossibile, per l’appunto, nel senso lacaniano di una spiegazione definitiva in grado saturare la verità di ciò che è successo. Cosa ne dobbiamo dedurre? Forse l’atteggiamento scettico e nichilista di chi ha in fin dei conti scoperto, con qualche millennio di ritardo, che può soltanto sapere ciò che non sa? E in questo caso servirebbe sprecare tempo e parole per ribadirlo? No di certo. Più interessante, invece, ci sembra sottolineare ciò che Lacan dice sul sentimento di angoscia diffusa che anima questo bisogno ossessivo di senso. Il bisogno di spiegare, di comprendere, di stabilire la verità di ciò che è successo, è la strategia attraverso cui cerchiamo di disinnescare l’angoscia senza-senso che ci abita. Angoscia che indica proprio, secondo Lacan, l’impossibile saturazione della trama simbolica in cui siamo immersi. Non c’è via d’uscita da questa impasse.

Dunque, quello che è successo alla redazione di  Charlie Hebdo, al Bataclan di Parigi o per le strade di Nizza, non è l’effetto di uno «scontro di civiltà», o il riflesso di una rinnovata lotta di classe globale, o l’onda lunga della polverizzazione delle dittature militari in Medio Oriente, o ancora il riverbero della mai sopita dialettica conflittuale tra sciiti e sunniti, o una serie di atti di guerra attraverso cui una specie di SPECTRE, che ha fatto dell’Islam radicale la propria bandiera, dichiara di voler sovvertire il nostro modo di vivere. È tutto questo e molto altro ancora. E difficilmente qualche spiegazione potrà, raccogliendo tutti i frammenti, raggiungere il grado di verità di ciò «che sta succedendo». È in tal senso paradigmatico quanto accaduto a Nizza, dove, a differenza di  Parigi nel novembre del 2015 e di Bruxelles, il quadro è più confuso e stabilire le coordinate dell’attacco ancora più complicato, quasi impossibile. Ci troviamo di fronte ad uno squilibrato?  Ad un emissario dell’Is, come lascerebbe immaginare la rivendicazione pubblicata su A’maq [2], l’organo di propaganda del “Califfato”? Siamo davanti ad un criminale comune che vuole sfogare la propria frustrazione contro lo Stato che lo perseguita o ci troviamo di fronte ad un cosiddetto lupo solitario? Probabilmente tutto questo, e molto altro ancora. Ed è proprio questa impossibilità a rintracciare il senso dell’avvenimento a rendere ancora più indefinita la minaccia che ci perseguita. Potremmo essere colpiti ovunque, in qualunque momento, a qualsiasi latitudine, perché la minaccia non ha volto, è pervasiva ed evanescente, potrebbe nascondersi dietro il volto del vicino o del venditore di frutta conosciuto da anni. Il pericolo è ovunque proprio perché non è in nessun posto. Almeno non ha coordinate identificabili in grado di renderlo, in qualche modo, prevedibile e, quindi, disattivabile nel suo portato di inquietudine.

Lacan ha allora qualcosa da dire quando sostiene che il compito della psicoanalisi è quello di far accettare al soggetto che il sintomo, quindi la causa, non ha senso, è un osso indigeribile con cui si deve imparare a fare i conti. Non c’è una (sola) causa dietro la tragedia di Nizza, così come non sapremo mai se i fratelli Kouachi sono il prodotto di una perdurante lotta di classe che ha prodotto i ghetti delle banlieue o dei soldati di Allah convinti di portare avanti la propria personale forma di jihadismo. Osservazione banale? Non troppo se consideriamo quante letture siano convinte di poter restituire il senso smarrito di queste vicende attraverso la sottolineatura di un aspetto piuttosto che un altro. Questo perché, anche se a parole siamo tutti convinti della complessità delle dialettiche in atto, della interconnessione e della disseminazione delle cause, alla fine parliamo, scriviamo e postiamo, come se l’elemento perturbante da individuare e da portare alla luce fosse sempre, soltanto, uno. Sullo sfondo resta invece il fatto che l’evento-Bataclan o quello Nizza sono effetti di superficie di micro-sommovimenti orizzontali di cui è impossibile rintracciare il senso, cioè La causa. Si tratta di fare fino in fondo i conti con questa scomoda considerazione.

Il terrorismo senza-limiti

libro guera senza limiti Quanto fin qui descritto è la costellazione in-sensata entro cui si situa il terrorismo gassoso che insanguina le nostre strade e le nostre città. Catalizzatore di angosce profonde è, a tutti gli effetti, una piega oscena di quella «guerra senza limiti»[3] teorizzata negli anni Novanta del secolo scorso dai due ufficiali dell’esercito cinese Qiao Liang e Wang Xiangsui. Il loro studio, che ha contribuito a produrre una grammatica in grado di ristrutturare la simbolica sui conflitti della tarda Contemporaneità, sospesi tra terrorismo e globalizzazione, nasce con l’intento di scrutare quello che i due ufficiali definiscono «il polso del dio della guerra oggi»[4]. Letta adesso l’opera appare datata, segnata in particolare dal clima di confronto a distanza tra Cina e USA (diversi i riferimenti agli Stati Uniti nel testo) successivo all’implosione dell’Unione Sovietica, ma è importante per la teorizzazione di una svolta interna alla storia della guerra.

«Abbiamo scoperto come, dall’epoca in cui le guerre si concepivano in termini di gloria e supremazia, sino ad oggi, quando ormai la fase culminante della storia della guerra e di quanto essa ha potuto creare si è conclusa, la guerra stessa, cui in origine spettava un ruolo fondamentale sullo scenario mondiale, è stata declassata in un colpo solo a una parte da attore di serie B.

Una guerra che ha cambiato il mondo alla fine ha cambiato la guerra stessa. È una considerazione veramente bizzarra e singolare, e tuttavia tale da indurre a profonde riflessioni»[5].

Come è cambiata la guerra lo abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, ed è palese proprio se osserviamo l’uso che di questa svolta è stato fatto dal terrorismo. Questo ultimo ha come principale fine quello di sovvertire l’opinione pubblica del Paese sotto attacco, attraverso una mobilitazione di quell’angoscia strutturale che, come abbiamo visto, contraddistingue in quanto tale l’esperienza umana. Cosa c’è di più inquietante e al contempo totale di questo modo di fare la guerra? Mobilitare la reazione del paese attaccato attraverso la propagazione del morbo dell’inquietudine è a tutti gli effetti non-convenzionale e asimmetrico. Tutto ciò spinge chi vive questo stato di minaccia perdurante ad un lento logoramento psico-fisico, insostenibile nel medio-lungo periodo. Quale miglior risultato per dei terroristi che non possono seriamente pensare di invadere una nazione Europea? Diffondere il terrore, indurre delle modifiche nelle decisioni ordinarie della gente (come quella di assistere o meno ad un concerto o ad una partita di calcio), non è una declinazione all’altezza dei tempi di ciò che i due ufficiali cinesi hanno prefigurato con il sintagma «guerra senza limiti»? «Ovviamente – sostengono nel loro libro -, se procedessimo tenendo presente la definizione tradizionale di guerra, non vi sarebbe più modo di dare la risposta a questi interrogativi»[6]. Dobbiamo, invece, «inevitabilmente dare un nuovo nome per questa nuova forma di guerra […]. In poche parole: una guerra senza limiti»[7].

Si pone un interrogativo: ma come i terroristi riescono a spingere persone nate e cresciute in Europa, spesso non troppo religiose, almeno per buona parte dell’esistenza, alla radicalizzazione e, spesso, al martirio? Sfruttando quello stesso bisogno di senso che spinge gli Occidentali feriti a chiedersi ossessivamente «Cosa sta succedendo?». In altre parole, ciò che chiamiamo «sedicente califfato» è sicuramente un progetto politico con attori e registi che stanno combattendo una serie di conflitti in Siria, Iraq, Maghreb, ma è anche e soprattutto una costellazione di senso, cioè l’offerta di una retorica-immaginaria in grado di saturare quella domanda di senso che è ciò che più unisce terroristi e vittime. L’Is, grazie ad una attenta opera di marketing mediatico, è riuscito a stabilire un collante simbolico dalla straordinaria forza evocativa che, a sua volta, è diventato un potente centro di gravità permanente del radicalismo globalizzato. Una sorta di islamizzazione del radicalismo che, come ha sostenuto Oliver Roy, è una delle cifre più innovative del rapporto contemporaneo con il religioso:  «Si assiste, infatti, più a una riformulazione del religioso che al ritorno a pratiche ancestrali la cui osservanza si sarebbe rilassata durante la parentesi della secolarizzazione. Si tratta di tendenze che  procedono parallelamente ad una volontà di ottenere una maggiore visibilità nello spazio pubblico»[8]. Il religioso al servizio di chi nel martirio ha trovato il modo per esprimere un risentimento, una frustrazione.

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Che fare?

Ai tanti potenziali militanti, anche quelli che non hanno particolari attitudini spirituali, il “marchio Is” offre una cornice di senso, potente ed evocativa, in grado di saturare quella domanda che ontologicamente affligge gli uomini. Il problema del terrorismo contemporaneo è dunque una questione di metafisica? Ci troviamo di fronte a un tragico e brutale effetto del nichilismo? Sì, anche, per questo non si può pensare seriamente di risolvere il problema attraverso qualche ora di missione in più per droni armati, o attraverso proroghe di stati d’emergenza, o destinando più fondi e libertà d’azione alle diverse intelligence. La posta in gioco è radicalmente iper-moderna e per questo simili soluzioni, da sole, mancano il bersaglio. Si tratta di avere a che fare con una moltitudine disseminata di individui alla disperata ricerca di senso, per le motivazioni più diverse, a cui la retorica islamista messa in piedi dai registi dell’Is, ma preparata da un trentennio di attività radicale, offre un potente catalizzatore simbolico-immaginario. In questo tipo di conflitto, che ci avvolge e coinvolge senza limiti, «tutti i mezzi sarebbero sempre pronti, le informazioni sarebbero onnipresenti e il campo di battaglia ovunque»[9]. Come fronteggiare questa apparente condizione di conflitto permanente? O modificando totalmente le nostre abitudini, accettando politiche di controllo asfissianti e vivendo quindi un ben misero surrogato di esistenza, o accettando di maneggiare la realtà come tale, senza offrire ai terroristi l’unica loro possibile vittoria: l’abbandono della nostra forma d’esistenza. Per far ciò bisogna imparare a pensarla questa inedita realtà di conflittualità latente, per adattare le nostre esistenze ed evitare proprio lo stravolgimento del nostro consueto modo di vivere.

Allora, alla domanda etica fondamentale – che fare? – bisogna rispondere che, innanzitutto, si tratta di fare fino in fondo i conti con il fatto che non c’è una soluzione in grado di risolvere il problema nel breve periodo. La paura diffusa non prevede soluzioni a basso costo, e non ci sono rituali collettivi in grado di tacitarla. Bisogna imparare a maneggiarla questa paura, magari per scoprire che il suo risvolto osceno risponde al nome di angoscia, ed è ontologicamente ineliminabile. Posto questo, il passo necessario sul piano logico è quindi quello di fare un passo indietro. Di non accettare le regole del gioco che altri vogliono stipulare, stabilendo termini e concatenamenti di una partita per cui non nutriamo interesse. Se per i terroristi è necessario alimentare una spirale di azioni e reazioni, la contro-condotta da adottare è quella di non partecipare al tavolo da gioco. Che significa innanzitutto non offrire margini perché si congelino posizioni che prevedono un confronto con le popolazioni musulmane. Questa etica della sottrazione è fondamentale per erodere credibilità alla narrazione e alla stipula immaginaria attraverso cui l’Is catalizza porzioni di dissenso e frustrazioni globali sempre più ampie. La forza evocativa e poetica della professione di fede, e la promessa di senso che questa garantisce, anche attraverso la contrapposizione immaginaria con il nemico, possono essere erose soltanto evitando di indossare panni funzionali al gioco altrui, quindi principalmente quelli del nemico. Per evitare di perdere, in questa partita, si deve non scendere in campo, diversamente i terroristi, o comunque chi trae il massimo beneficio dalle loro azioni, hanno già vinto. Possiamo iscrivere questa etica della sottrazione entro la più ampia «regola del secondario-principale», teorizzata da Qiao Liang, Wang Xiangsui per «capire le regole che portano a conquistare la vittoria»[10]. In cosa consiste, molto in sintesi, questa strategia? Nell’evitare di essere subordinati alle regole logiche di chi stabilisce le coordinate dell’azione: «descriviamo questo ruolo come “modificazione dell’elemento principale da parte di quello secondario”»[11]. Nel caso che a noi interessa significa contenere la diffusione di paranoie collettive con conseguenti, automatiche, reazioni dettate dall’emotività. Sono proprio queste a rappresentare la posta in gioco delle trappole disseminate dai terroristi. Come detto, il loro scopo principale è indurre la traslazione del conflitto su un piano da «scontro di civiltà», che prevede la mobilitazione totale e la polarizzazione della società. E’ ciò che non deve accadere. Come sostengono i due ufficiali cinesi, in «Guerra senza limiti»: la regola «del secondario-principale si oppone a tutte le forme di posizionamento parallelo, di equilibrio, di simmetria»[12].

Inoltre, se l’islamismo radicale è allettante perché in grado di fornire una chiara cornice di senso a tutti quei potenziali stragisti smarriti e in cerca di un principio di identificazione, bisogna avere il coraggio di tornare ad occuparsi di retorica e di narrazioni, di poetiche e di storie. Si tratta, in altre parole, di restituire forza evocativa all’unico principio in grado di garantire una cornice simbolica di convivenza tra le diverse ideologie: la laicità. Laicità che, nella sua radice storica, significa esclusione dell’ideologia religiosa dalla dimensione pubblica a favore della dimensione privata. Ma ciò non vuol dire forse puntare ad una rinnovata saturazione del senso in nome di un’idea forte? Sì, ma soltanto perché questa idea afferma la liceità della paradossale disseminazione dei diversi sensi e la loro compossibilità (a ciascuno il proprio). La laicità è, in altre parole, il principio regolatore che garantisce il funzionamento di una società basata su valori diversi, quale è la nostra dopo la secolarizzazione. E proprio per salvaguardare questo principio, e la realtà cui dà forma, bisogna evitare quelle polarizzazioni che rappresentano il vero obiettivo degli attacchi dei terroristi. Insomma, la sfida è prima di tutto quella «di sfuggire agli attacchi frontali e di smorzare l’impeto del nemico»[13], non cadendo nella facile tentazione di contrattaccare: «allontanarsi intenzionalmente dal combattimento frontale»[14] e fare un passo indietro, per poterne fare due in avanti.

——

[1] Cfr. J.Lacan, Lo stordito in Altri scritti, ed.it. a cura di A.Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p.448

[2] Cfr. VICE News, Lo Stato Islamico avrebbe rivendicato la strage di Nizza

[3] Cfr. Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, ed.it.a cura di F.Mini, LEG, Gorizia 2004.

[4] Ivi, p.47.

[5] Ivi, pp.37-38.

[6] Ivi, p.47.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. Oliver Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura, trad.it. di M:Guareschi, Feltrinelli, Milano 2009, p.22

[9] Cfr. Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione…cit., p.47.

[10] Ivi, p.155.

[11] Ivi, p.139.

[12] Ivi, p.145.

[13] Ivi, p.142.

[14] Ibidem.

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