Voltarsi: archeologia e presagio

Voltarsi - Gruppo del Laocoonte - particolare

[dedicato a “Una certa inquietudine naturale. Sculture ellenistiche fra senso e significato” (Aguaplano) di Alessandro Celani]

tornai più volte vòlto
Dante

 

Per quanto possiamo essere accurati e archeologici non potremo mai recuperare il tempo passato di un oggetto passato. Il tentativo ostinato di ricostruire un siffatto percorso è sempre votato alla distruzione, al sacrificio di ciò che chiamiamo originale o consideriamo sacro. Spinti da queste due esche giungeremo soltanto al tempo passato senza oggetto che non sia, nella migliore delle ipotesi, un reperto straniato, abbagliato dal suo stesso isolamento fisico causato dal cancellare la trama che lo ha portato fino a noi. Era questa stessa trama fisica, per la gran parte, quel tempo passato dell’oggetto passato che abbiamo distrutto. Anche mentre ci accingiamo a recuperare un reperto passato, anche quando ci facciamo largo inevitabilmente distruggendo fra gli strati che ci separano da esso, dovremmo tenere presente che la trama del tempo, fino all’impalpabile e impercettibile patina continua e tessersi a cumularsi. E così era già avvenuto lungo quel passato che ora noi ripercorriamo.
Dunque, cosa fare? Voltiamoci al passato, ma non completamente e direttamente a cercare di vedere dal nostro presente solo il livello di passato nel quale è il reperto che vogliamo trovare. Voltiamoci gradualmente, soffermandoci anche sugli altri livelli di passato incluso quello che ora è il presente. Forse in questi livelli troveremo altre faglie di distruzione – in parte è inevitabilmente orizzonte di distruzione anche il nostro presente. Ma ciò non dovrà autorizzarci a ri-voltarci e cioè a usare lo stesso metro distruttivo. Il risultato non sarà mai una migliore ri-costruzione, ma nelle migliore delle ipotesi forse un più accurata ri-distruzione. E ciò anche nell’ipotesi di sanare le falle e dunque ricostruendo ciò che è andato distrutto. Né solo procedere avanti né solo ri-voltarsi contro. La ricerca archeologica dovrebbe essere una ricerca pluridirezionale, nella quale l’inevitabile distruttività della ricerca deve essere assunta come una modalità essa stessa costruttiva – e viceversa, contemporaneamente. La ricerca archeologica deve simultaneamente considerarsi come disciplina dell’inizio di un passato che è giunto a noi riiniziandosi altre volte. Essa è dunque anche quel re-inizio del presente, presenza dell’inizio.
Chi si volta presagisce una presenza indietro mentre guarda avanti. Se nel voltarsi dimentica tale presagio – il percorso stesso del suo sguardo, il mutare medesimo della sua posizione – allora diventa una statua di sale: colei che per possedere il passato si spossessa di sé e anche di ciò che intendeva trovare nel passato. Si vòlta e la vòlta temporale (il c’era una volta senza ancora storia, un giro a vuoto) è tutto ciò che ottiene, mentre perde ciò che il gesto del voltarsi rivela: il vólto. Giungere a dare un vólto all’inizio archeologico di un reperto (e avere noi stessi che ci voltiamo un vólto) è mantenere di quest’ultimo nell’iniziazione che lo ha portato, gestato fino a noi. È soprattutto interrompere la logica re-versiva mimetica dove costruire si ri-volge in distruggere e distruggere si ri-volge in costruire. Interruzione che vuol dire scegliere nella distruzione quale distruzione, nella costruzione quale costruzione. Gli aspetti distruttivo della costruzione e distruttivo della costruzione vanno riformulati dentro una stessa dimensione ambivalente. Vi è distruzione e distruzione, costruzione e costruzione. Analogamente vi è violenza e violenza, come indicano le parole di Benjamin in Critica della violenza pura. Non si può fuggire l’ambivalenza. E il tentativo di reductio ad unum è solo il forzare l’ambivalenza alla simmetria per ottenere con questa l’illusione dell’unità. Il costo maggiore di tale ottenimento è la indifferenziazione tra distruggere e costruire. L’ambivalenza rimane tale: il sacro e il sacrilego, il sacralizzare e il sacrificare rimangono le sue due facce. Ciò che invece muta la reversibilità, pur rimanendo l’ambivalenza, è l’asimmetria. (La «falsa asimmetria tra sadismo e masochismo» di cui parla Green è l’ulteriore tentativo del mimetismo e dunque della simmetria di dissimularsi in ciò che non il mimetismo stesso non è. La «falsa asimmetria tra sadismo e masochismo» è, per esempio, quella che oggi caratterizza da un lato il vittimismo e dall’altro il colpevolismo storici nei tipi: “siamo stati distrutti e ora dobbiamo essere risarciti, abbiamo acquisito diritto a distruggere”. Oppure: “abbiamo distrutto, non possiamo sentirci colpevoli per sempre e assumerci la responsabilità di altre generazioni”. Ma forse la responsabilità non è reciprocità, bensì asimmetria nell’ambivalenza del voltarsi al domandare prima ancora di formulare una risposta.

da Marco Pacioni, “Rovine. Estetica e politica della distruzione”, in corso di pubblicazione