L’orrore della storia, il dolore della memoria

Simona Vinci, La prima verità

“La prima verità” – Simona Vinci (Einaudi Stile libero, 2016)
L’opera scorre impetuosa su piani e livelli differenti e, talora, la potenza del fluire della parola condensa in improvvisi, violenti e delicatissimi grumi di narrazione che recuperano e fanno emergere occorrenze e stilemi quasi contrapposti: fiction storica (romanzo su base storica con movenze quasi di spy-story), ghost story, narrazione lirica, poesia, reportage/inchiesta, letteratura di denuncia, autoanalisi e rimemorazione introspettiva.

Il tutto “legato” da un collante particolare, quasi un’insopprimibile urgenza che erompe dal vissuto profondo dell’autrice richiamato, nella tortuosa e tumultuosa ricerca di una impossibile “prima verità”, dalla voce narrante del personaggio di Angela, nella prima dolente e lirica sezione ambientata nelle pietraie marittime della terribile Leros; poi ancora dalla narrazione personale sulla sottile linea di discrimine tra memoria e malattia, dall’autobiografia dell’autrice stessa nel percorso à rebours sulle vie del dolore e della follia materna. E ancora, un reportage di piglio socio-storico sulla detenzione istituzionale nella realtà manicomiale di Budrio, Emilia, con i suoi “mattucchini” pre-basagliani colti con occhi da bimba nel momento un po’ folle, un po’ magico, dell’interazione con l’ambiente e delle relazioni con gli altri, i “normali”, che quell’ambiente pòpolano e con cui, giocoforza, intessono relazioni umane “ai margini”.
E infine le pennellate forti, a spatola graffiata sulla tela, ricca di concrezioni materiche –escrescenze della parola dolente- a testimonianza di un viaggio con Carlo Lucarelli nel manicomio di Freetown, Sierra Leone, dopo la conclusione della sanguinaria esperienza della guerra civile; ove, rovesciando i termini di quanto recentemente ha scritto Angelo Ferracuti a tutt’altro proposito, emerge con assoluta evidenza che il diffondersi della malattia mentale è indissolubilmente legato alla durezza dell’oppressione sociale e politica e il rapporto tra sangue, fame e follia genera il terrore che al sangue e all’abiezione riconduce.

Termina, questo testo ricco e sorprendente, con le linee dell’autoanalisi privata di Simona Vinci e la definizione dei tratti della propria malattia, rivissuta e superata nello spazio terapeutico della parola.

Leros: la storia, l’orrore. L’isola di Leros fa parte dell’arcipelago del Dodecanneso, nel mar Egeo orientale, e annunzia a vista la costa turca. Scrigno rupestre di memorie dell’imperialismo italiano dall’inizio del secolo breve, l’isola vanta una non apologetica descrizione di Lawrence, fratello del famoso naturalista ed etologo Gerald Durrell. Forse per questa ritrosia a mostrare bellezze idilliache, il fascismo mise gli occhi sull’isola per farne una base navale militare, che fu poi teatro di furibonde battaglie nel corso della seconda guerra mondiale (la più famosa delle quali venne ricreata sugli schermi nel kolossal american style “I cannoni di Navarone” del 1961, tratto da un romanzo di Alistair Mc Lean e interpretato da David Niven, Anthony Quinn, Gregory Peck e Irene Papas, peraltro girato principalmente a Rodi). Le installazioni militari italiane, ormai fatiscenti, vennero riconvertite nel 1958 dal governo greco per creare un enorme moloch concentrazionario, l’ospedale unico –la soluzione finale!- per tutti i malati di mente della Grecia. Dal 1958 al 1981, anno della sua chiusura per volontà dell’Unione Europea (la Grecia entrò nell’UE nel 1983, e una delle precondizioni dell’accettazione era anche la progressiva dismissione del manicomio lager), nel manicomio entrarono oltre quattromila “ospiti”, e molti di loro vi restarono fino alla fine dei loro giorni. Fra questi, nel periodo della dittatura dei colonnelli, anche molti prigionieri politici, separati dai “matti” da una semplice rete metallica, ma sottoposti alla medesima brutalità nel trattamento. All’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, un servizio giornalistico inglese e uno fotografico italiano fecero esplodere un enorme scandalo internazionale e l’Europa fece approdare sulle coste di Leros una delegazione di studio, ispirata da studiosi di osservanza basagliana, che avrebbe dovuto preparare la deistituzionalizzazione della struttura carceraria manicomiale.
Fin qui la storia; qui inizia la costruzione narrativa di Simona Vinci attraverso la creazione del personaggio di Angela Donati, laureanda triestina poco più che ventenne, la cui voce narrante –come sempre, proiezione parziale o rielaborazione fantasmatica dell’io autoriale- ci guida in un universo fantasmagorico e terrificante, brulicante di corpi-materia e svuotato di essenze spirituali, in cui si muovono esseri disarticolati, lacerati, brandelli di umanità remota i cui incroci esistenziali, faticosamente e casualmente ricostruiti dalla giovane in un archivio segreto, portano a sciabolare un raggio di luce (subito offuscata, come sempre evanescente) sulla personalità, sulla storia e sui contorni materiali del dolore di vivere del monaco folle Basil, dell’uomo dagli occhi azzurri che scrive lacerti di poesie, di Temistocles B. 841 alias Nikolaus, il ragazzo con il sasso in bocca, della povera Teresa Kazantakis, e di altri spiriti contorti, “custodi invisibili e impazienti” di “ queste tenebre di pietra/ di questo silenzio che urla”… Su tutti, legato da un’inventio narrativa a una figura contemporanea, la studentessa Akylina detta Lina, amica-amante della protagonista Angela, il cui padre sarebbe stato ilpoeta comunista Stefanos, che con i giovani folli Nikolaus e Teresa incrocia un dolente destino. Stefanos Mavridis, nell’invenzione letteraria padre di Akylina, bimba che non conobbe perché sequestrato dalla polizia politica dopo il colpo di stato, e che ora ritroviamo studentessa a Roma e partecipante alla delegazione di studio sul lager isolano, altri non è che la trasposizione letteraria del grande poeta greco Ghiannis Ritsos, cui la Vinci dedica un’appassionata rimemorazione e la citazione in esergo:

Scrivo un verso,
scrivo il mondo; esisto, esiste il mondo.
[…]
Questa purezza/ è di nuovo la prima verità, il mio ultimo desiderio
Ghiannis Ritsos, Lascito.

Una struttura complessa. La struttura di quello che l’autrice stessa chiama, in ribadita visione unitaria, romanzo, è una partitura disuguale e, in prima lettura, dissonante, di un’opera che giustappone movimenti diversi e frammenti asincroni. Vi trovano spazio tre brevi prologhi, contraddistinti dall’ aggettivazione ordinale, ognuno dei quali è anteprima di scena di successivi, ma non cronologicamente consecutivi, contesti. Segue quindi la narrazione romanzata, il cuore della storia, che potrebbe tranquillamente avere un respiro autonomo in vita testuale propria e conchiusa. È suddiviso in tre parti: “L’archivio delle anime”, con lo sbarco della delegazione europea sull’isola e la vicenda della ricerca di Angela di ombre, vaghe raffigurazioni di luci opalescenti della storia che fu, riannodata da una trama archivistica piena soprattutto di vuoti e di assenze. La vicenda si svolge nell’arco di quattro mesi estivo- autunnali del 1992. Dalle informazioni dedotte dal locus sotterraneo si forma per gemmazione creativa il materiale della parte seconda, Su nel posto segreto, che ripercorre in una timeline assolutamente pluridirezionale e non lineare – ma nemmeno ciclica, ricorsivi eventi legati a figure di pazzi emerse dai “vuoti della carta”, e ricucite dall’autrice con creazione autonoma su un fondo di assoluta verosimiglianza. Le vicende ridanno una dimensione, una figura –una dignità aurorale- ai simulacri umani dei pazzi, ripercorrendone le tappe dei rispettivi calvari in salti narrativi che partono, si sviluppano, ritornano, s’incrociano e sovrappongono in periodi tra il 1965 e il 1968, nella piena tenebra del tempo umano e sociale della disperata Grecia.

La terza parte, Sono ancora tutti lì, chiude le pesanti sbarre del lager e restituisce l’immagine di ciò che resta del perimetro manicomiale nel 2009, agli occhi di Angela, che ritorna a Leros spinta dal tarlo dell’anima e dai chiodi della memoria. Sono ancora tutti lì, sopra e sotto la terra, nelle baracche e sotto le onde, nelle nuove “case – famiglia terapeutiche” e nei contorcimenti dei ricordi angosciosi, a urlare e “imparare di nuovo, la sera dietro un filo spinato, la vita che accade”. Angela sa che non tornerà mai più, capisce ora che per uscire dalla propria depressione dovrà snidarla e incontrarla altrove.

E qui si potrebbe chiudere il romanzo dell’isola…Ma l’isola non esiste al di fuori degli spazi infiniti dell’io. Occorre altro, per nutrire i tarli che verminano nella materia della memoria e configgono microscopiche ancore nel microcosmo dell’anima. Così l’isola dannata scompare, e il dolore rivive nella quarta parte, Non ti scordar di me. Che potremmo chiamare, in tre sotto-capitoli, Storia di Budrio e del suo manicomio, storia di mia madre, storia della mia follia. Con il passaggio finale della estenuazione sofferente della visita in Sierra Leone. In chiusura, una – per me interessantissima “notizia storica”: Notizia su Leros. Il colpevole segreto d’Europa. Ancora l’isola, per chiudere con una potenziale riapertura. Oggi non sbarcano più catene di relitti umani destinati al manicomio di Leros. Da due anni a questa parte, sono i profughi siriani a raggiungere, vivi e sofferenti o morti enfiati dai flutti, le sassose cale di Leros.

Ultimo capoverso, pag. 397:

Il 13 novembre 2015, nella notte del terrore di Parigi in cui perdono la vita 130 persone, tre attentatori si fanno esplodere nella zona dello Stade de France. Sull’asfalto, poche ore dopo, accanto a un torso umano carbonizzato viene ritrovato un passaporto: appartiene a Ahmad Almohammad, nato nella città di Idlib, in Siria, il 10 settembre 1990 e transitato dal centro raccolta profughi di Leros il 3 ottobre 2015. Un altro fantasma. Un’altra storia.

Infine.
E infine, una domanda: tout se tient?

Il sovrapporsi di cronologie, di storie, di personaggi tutti di poetica spietata sofferenza e bellezza, il riannodarsi di vicende lontane che progressivamente si avvicinano dopo essersi sperdute nei meandri sottili e profondi della storia, potrebbe a prima vista ingannare, spaesare un lettore impaziente. Distonie, discrasie, dissonanze, aritmie fabulatorie. Loro, Lei, Io; di nuovo loro, altri loro e con loro Io.

Quale tessuto connettivale ci tiene legati al racconto? Ognuno può esercitare il proprio scandaglio critico, ermeneutico. Personalmente, e senz’alcuna pretesa di icastica appropriazione di genere, ritengo quest’ultimo lavoro della Vinci il suo più importante e riuscito, “uscito” potentemente dalle viscere di una sfocata e claudicante visione interiore, che attraverso un percorso difficoltoso risale i crocevia di storie individuali nella pluralità della malattia e lega a sé visioni lontane, urla dalle mura di manicomi della storia universale. Li lega al proprio grido interiore, al disvelamento del proprio individuo dolore e alla necessità di risalire la china di una propria cura personale e familiare, sociale e storica, in una parola: politica, per riconoscere i fantasmi reali che ci inchiodano ai nostri stridenti vissuti. Aprirsi all’immanenza del dato, affrontare l’emergenza del segreto profondo, del fantasma che ci vive accanto e dentro, e restituire una prima verità, nel rispetto del valore assoluto di ogni singola vita per quanto dispersa, battuta e vinta che sia dalla crudeltà della storia. Apprezziamo il forte messaggio di Simona Vinci e ne consigliamo, partecipi, una meditata lettura.

Paolo Caspani per la Piccola Libreria di Levico Terme
luglio 2016