Un’archeologia discorsiva delle «classes dangereuses».

La mala setta

«Letteratura e realtà si mescolavano dunque, già allora, in modi imprevedibili»
F. Benigno, La mala setta: alle origini di mafia e camorra, p. VIII.

Come è stato già notato, La mala setta di Francesco Benigno, «a dispetto del sottotitolo, […] non è una ricerca sulla genesi della malavita organizzata nel Mezzogiorno» [1]. In questo senso, come indicato da Giovanni Levi, «Il titolo inganna un po’ il lettore» [2], ma – aggiungiamo noi – soltanto quello abituato a intendere la scrittura della storia nei termini di una ricostruzione ontoteologica, con nessi causali chiari e distinti e, proprio per questo, artefatti. La mala setta è invece uno studio che fa fino in fondo i conti con la natura problematica dell’operazione storiografica e, più in generale, di tutti i processi ermeneutici che si pongono come obiettivo quello di restituire il senso degli avvenimenti passati. Per questo possiamo dire che il volume di Benigno è un tentativo acuto, intelligente e problematico, di prendere davvero consapevolezza di quella svolta epistemologica che è il linguistic turn. Nella fattispecie ciò si traduce in una prospettiva metodologica che rifiuta di indagare le origini della criminalità organizzata – mafia e camorra – alla luce delle ipostatizzazioni novecentesche, soprattutto quelle che hanno definito l’oggetto discorsivo a seguito della stagione del pentitismo. Questa critica alle ricostruzioni retrospettive, che cioè muovono dai bisogni e dalle sollecitazioni dell’oggi, implica l’abbandono della storia della cosa – mafia o camorra che sia -, per concentrarsi invece sul clima politico e governamentale entro cui prende forma la rappresentazione del fenomeno criminale indagato: «il crimine risulta in pratica indistinguibile dalla sua rappresentazione, sorta di fantastico schermo su cui si proiettano le ansie sociali e le inquietudini culturali di una società» (p. VIII).

La scelta adottata da Benigno è quella di indagare il segmento spazio temporale in cui prende forma il fenomeno discorsivo, cioè la rappresentazione della criminalità come questione politica da identificare, da costruire e problematizzare anche sul piano simbolico. Questo periodo è quello che in Italia è coinciso con il governo della “Destra storica”. Da qui una serrata analisi di fonti diverse, che rendono conto dello spazio d’emergenza discorsivo entro cui una serie di segni, di elementi sparsi, vengono articolati in un piano di lettura sempre più coerente, e “costruito”, coincidente con la storia della criminalità organizzata mafiosa. Nel fare ciò il punto di osservazione utilizzato è quello delle «classes dangereuses», vale a dire quei segmenti della società che, in particolare nell’Ottocento, vengono attenzionati in quanto pericolo potenziale per l’ordine costituito. Infatti, secondo l’Autore, «non è tanto il rischio portato all’ordine proprietario borghese […] e neppure la più generale ansia collettiva per la sfida alla proprietà rappresentata dall’ascesa della classe operaia» (p. XII) a rappresentare la fonte di preoccupazione, quanto la preoccupazione per ciò che viene definito «come la paura dell’insorgenza plebea» (p. XIII). Questo è «un sentimento antico che affonda le sue radici nelle rivolte contadine e nei tumulti urbani dei diseredati, ma che ora è rinnovato dal ruolo prominente assunto dalla folla popolare in armi durante la Rivoluzione Francese» (p. XIII). Alla luce di ciò si comprende la scelta di iniziare il filo della narrazione da Parma, nel 1859, quando viene arrestato Luigi Anviti, «noto come “il Boia dei Borboni» (p. 3) e, a seguito di manovre non troppo limpide, viene consegnato alla folla che lo lincia. Da qui Benigno muove per rappresentare un’Italia ancora dal destino incerto, in cui si muovono attori diversi, emanazioni di entità con interessi spesso divergenti (la Francia, il Regno di Sardegna, il Papa, l’Austria, etc.) e governanti con un problema: la gestione dell’ordine pubblico, «il primo dei bisogni» (p. 4). L’ansia di rivoluzione che pervade la Penisola genera paura e, al contempo, plasma tutto un immaginario politico, come quello delle sette segrete, la cui fisionomia spesso si sovrappone all’universo criminale. D’altra parte, come ricorda l’Autore, «per fare la rivoluzione ci vuole gente abituata al maneggio delle armi, uomini arditi e spregiudicati, abituati ad attraversare il confine della legalità» (p. XIII).

In questa zona di confine, tra il politico e il criminale, il rivoluzionario, l’intellettuale e il mafioso, si confondono, condividendo spesso pratiche e linguaggi. Per la politica rappresentano tutte declinazioni di una figura, il “soggetto pericoloso”, che in modi e forme diverse attenta all’ordine costituito. Proprio per questo è necessario infiltrarsi, spiare e perturbare questo mondo, in alcuni casi anche servirsene, mostrando, nella concretezza dell’agire, la porosità del confine tra crimine e repressione. «Spie, indicateurs, agenti provocatori» (p. XIV) sono le figure chiamate a permeare l’universo segreto delle sette e a conoscerlo, magari ad inquinarlo. In questa confusione, per chi deve gestire l’ordine pubblico e difendere la neonata Nazione, non c’è differenza tra i mazziniani, i garibaldini e gli anarchici, sono tutti membri delle “classi pericolose” con cui bisogna imporsi, ma anche negoziare, reprimere ma anche convivere. È la lezione che i governanti italiani traggono dalle forze di sicurezza francese che, «almeno dai tempi di Fouché e Savary» (p. XIV), hanno acquisito la lezione e l’hanno messa in pratica dimostrando l’«aurea regola di assoldare criminali per combattere altri criminali» (p. XIV). Benigno mostra la permeabilità dei confini anche attraverso le rappresentazioni che la letteratura dell’epoca ha fornito cercando di squarciare un mondo marginale in cui gli attori circolano da una posizione all’altra con naturalezza, evidenziando quanto le rappresentazioni e le categorie, soprattutto quelle sociali, siano precarie e sempre esposte al mutamento. È, forse, la grande lezione contenuta nella Commedia umana di Balzac o nel caleidoscopico mondo dei sobborghi parigini descritti ne I misteri di Parigi di Eugene Sue. In queste opere guardie e ladri si confondono e sovente si sovrappongono, proprio come accade con la celebre figura di Vautrin, che da spietato criminale si evolve in agente di polizia. In ciò si delinea quello che è lo sfondo della ricostruzione di Benigno: le classi pericolose, gli attori che le impersonano, «costituiscono una minaccia ma anche un’opportunità: si può attentare a un sistema politico o salvarlo, utilizzando le medesime “classi pericolose”» (p. XV).

Negli otto capitoli del libro si delinea dunque non la data nascita delle maggiori organizzazioni criminali d’Italia, quanto l’universo discorsivo che ne costituisce il fondale. E in ciò si palesa una lezione metodologica coraggiosa, tropo spesso dimenticata dagli storici, che fa i conti con il valore performativo degli universi discorsivi delle diverse epoche. Proprio quelli che maggiormente risultano essere sacrificati dalle ricostruzioni che muovono dai bisogni dell’oggi. Una lettura attenta – come quella del libro – dei diversi discorsi poliziesco, giudiziario, politico e letterario, mostra non soltanto quanto l’interdipendenza tra gli attori che si contendono la scena politica sia radicata, ma anche quanto sia complicato utilizzare un registro discorsivo moraleggiante per ricostruire la fisionomia delle spie, degli infiltrati, dei mafiosi e, più in generale, dei diversi attori in campo. Con una battuta si potrebbe dire che è tutta una immensa zona grigia, fatta di trattative, delazioni, provocazioni e manovre. Se ciò mette in discussione gli abituali dispositivi con cui si ricostruiscono fisionomie e identità, dall’altra parte rappresenta un passo ulteriore verso quello che Benigno definisce «uno storicismo integrale» (p. XVIII) che rinuncia a utilizzare il futuro per illuminare il passato. Se, dunque, il sottotitolo mente lo fa solo secondo una prospettiva tradizionale che pensa a mafia e camorra nei termini di essenze immutabili presenti con la loro fisionomia già alla fine del XIX secolo. Diversamente, se ci si immerge «nella confusione dei discorsi d’epoca […] avendo come unico criterio la contestualizzazione e non la selezione di ciò che appare nel passato più plausibile rispetto a ciò che in futuro accadrà» (p. XVIII), allora quello di Benigno non può che risultare un tentativo riuscito di indagare il passato nei termini di alterità radicale.

Benigno, La mala setta - Copertina
Francesco Benigno
La mala setta.
Alle origini di mafia e camorra, 1859-1878

Torino, Einaudi 2015
Pagine 403

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[1] Cfr. A. De Francesco, Le plebi pericolose prima di pupi e cantastorie in “L’Indice dei Libri del mese”, Dicembre 2015.

[2] Cfr. G.Levi, Francesco Benigno, La mala setta in “DoppioZero”, 5 Settembre 2016, http://www.doppiozero.com/materiali/francesco-benigno-la-mala-setta