Alessandro Fontana introduce “L’anti-Edipo”

Pier Paolo Pasolini, Edipo Re

(Pubblichiamo l’introduzione di Alessandro Fontana a L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, già apparsa nella prima edizione italiana Einaudi del 1975)

  Leggere un testo infatti non è mai un esercizio erudito alla ricerca dei significati, ancor meno un esercizio altamente testuale in cerca di un significante, ma un uso produttivo della macchina letteraria, un montaggio di macchine desideranti, esercizio schizoide che libera del testo la sua potenza rivoluzionaria.
Antiedipo

L’avvenimento.

Si immagini la storia come una massa globulare, una nebulosa, con oggetti puntuali inegualmente distribuiti e stati d’intensità differenziali: insieme aleatorio e stocastico più che continuum statistico. Il presente allora non sarebbe spesso che la derivata di questi oggetti e di questi stati, sorta di punti-nodo a partire da cui la storia non cessa di ricominciare, per produrre nuove intensità e nuovi oggetti. Il maggio del ’68, per il nostro presente, è uno di questi punti, e sembra ormai d’obbligo riprendere da qui tutti i fili. Qui la storia sembra ancora una volta aver ritrovato un suo referente maggiore, una sorta di deriva del vecchio mondo, l’ancoraggio d’un’ineludibile contemporaneità, la generatrice del nuovo mondo: sulla spola del ‘68 si sdipana confusamente il groviglio delle illusioni perdute, delle fedi tradite, delle rivelazioni accecanti, delle morti e trasfigurazioni più sorprendenti, delle ferite irrimarginabili, attraversate spesso da nuovi cinismi, da più sottili menzogne e da più crudeli derisioni; l’indifferenza stessa ha fatto della sua serenità una maschera (che nasconde spesso la peste, come nel racconto di M. Schwob).

Ma tutto questo ci sembra umano, troppo umano, troppo legato alle tortuose strategie delle capitolazioni, patteggiamenti, conversioni di ciascuno. Commisurare l’avvenimento a queste oscure intimità personali è ancora un modo per territorializzarlo, interpretarlo, familiarizzarlo, domesticarlo: cosa sono queste schiume soggettive rispetto alla vague de fond della storia? Per questo bisognerebbe un giorno, al di là del pietismo commemorativo delle nuove retoriche, analizzare il tipo di avvenimento costituito dal maggio del ’68, come referente nuovo con cui, pare, non si può più non fare i conti; bisognerebbe, in altre parole, determinare il tipo di singolarità ch’esso ha costituito, le intensità cui ha dato luogo, gli effetti di senso, l’eccesso di senso che ha prodotto. Che tipo di avvenimento, insomma, è quello in cui paradossalmente sembrano essersi cristallizzate tutte le rimozioni e tutte le liberazioni, tutti i tradimenti e tutti gli eroismi, tutti i misconoscimenti e tutte le rivelazioni? Che tipo di avvenimento è quello da cui, esplicitamente o meno, prendono origine tutte le genealogie o a cui vengono ricondotte tutte le regressioni? Che avvenimento è infine quello in cui la storia sembra procedere a una rifusione radicale di tutte le certezze e di tutti i dubbi?

Quest’analisi è forse prematura, se non impossibile: il ’68 appartiene alla galassia di cui facciamo ancora parte. Non si potranno quindi che avanzare delle ipotesi. Forse la singolarità di questo avvenimento, nella sua purezza, è stata d’aver costituito il punto d’incrocio simultaneo per un fascio di serie parallele, convergenti o parzialmente intersecantisi: la serie-Lenin, la serie-Stalin, la serie-Mao, la serie-Marx, la serie-Freud, le serie fasciste, le serie anarchiche, ed altre ancora, con le loro discorsività, le loro figure, i loro segni e i loro avvenimenti specifici: una sorta di superficie di registrazione complessa, un’intersezione di serie trasversali, un luogo inesteso d’intensità e di flussi; un insieme di molteplicità sul corpo senza organi della storia; in altre parole, la storia come macchina desiderante.

Probabilmente l’avvenimento deborda la storiografia ufficiale e le sue possibilità conoscitive: la storiografia ufficiale, coi suoi organi istituzionali o privati, non può che linearizzare l’avvenimento, ancorandolo ad un qualsiasi significante esterno (all’arcaismo di un qualsiasi significante dispotico, che ha nell’Edipo il suo rappresentante). Rispetto a questa storiografia l’Antiedipo, ove si procede alla strumentazione e al montaggio della macchina desiderante, rappresenta forse il solo tentativo rigoroso, fino ad oggi, per pensare l’avvenimento del ’68, liberandolo da tutte le alluvioni agiografiche, personalistiche, mitiche, religiose ed ideologiche. In questo montaggio della macchina desiderante come solo tentativo possibile per pensare l’avvenimento va dunque individuata la prima, e forse più importante, chiave di lettura dell’Antiedipo.

Le tre funzioni discorsive. 

L’avvenimento di cui sopra avrà avuto almeno, su ciò che in mancanza di meglio si definisce il sapere, questo effetto decisivo: smascherata la funzione delle scienze dette umane (contrabbandare dietro la finzione dell’«uomo», doppione immaginario dell’io freudiano, la pratica concreta del potere di normalizzazione e di controllo disciplinare), denunciata dagli scienziati stessi la pretesa «autonomia» delle scienze tout court (con le prove fornite dalle guerre imperialistiche dell’ultimo decennio), le formazioni discorsive sembrano ormai articolarsi attorno a tre questioni ultimative: la questione della verità, la questione del potere e la questione del desiderio. Il beneficio teorico del ’68 sembra essere proprio questo: la battaglia discorsiva, in cui, lo si voglia o no, si gioca il destino del nostro sapere, è già iniziata intorno a questi tre obiettivi, una volta sgombrato definitivamente il campo dal brusio confuso dei discorsi parassitari (che non cessano per questo di proliferare, più monotoni e più insistenti che mai). Non che si parli di verità, di potere e di desiderio per la prima volta: il loro affiorare anzi alla superficie del discorso, come oggetto del discorso, è antico come il pensiero occidentale, e non ci vorrebbe molto a trovare una loro prima articolazione nel platonismo greco. Nuova appare, invece, da una parte, la loro esclusiva radicalità, come se i discorsi non potessero più eludere, di qualsiasi cosa parlino, gli effetti di verità, la connivenza col potere, l’iscrizione nel desiderio e, d’altra parte, in un movimento inverso, la loro reciproca appartenenza, come se ciascuna delle tre funzioni, quale che sia il privilegio accordatole, non potesse non implicare simultaneamente, e in modi specifici, le altre due. [1] Nuovo, soprattutto, è il fatto che verità, potere e desiderio, rappresentano meno oggetti e referenti del discorso, che il discorso stesso, nei suoi costituenti immediati, nelle sue modalità enunciative, nelle sue scenografie testuali, nei suoi dispositivi metodologici. Discorso della verità, discorso del potere, discorso del desiderio: ciascuno col suo stile specifico di interrogare, di ritagliare gli oggetti e i campi d’applicazione, di montare la macchina teorica; ciascuno col suo ricorso caratteristico al linguaggio e alla scrittura. In un modo o nell’altro, e pur nelle forme della reticenza, dell’allusività, della presupposizione, del travisamento, dell’occultazione e della metafora, ciò di cui è questione nei discorsi, ciò di cui son fatti i discorsi, sono le tre funzioni, e il loro gioco complesso di appartenenza e di esclusione: l’inevitabile del nostro dire. È questo l’effetto discorsivo del ’68.

Discorso della verità: non più il fantasma positivistico di un reale infine liberato e rivelato, la verità come trasparenza e rigetto dell’errore, il taglio tra conoscenza e misconoscimento, l’accumulo fiducioso delle certezze, l’esattezza, la conferma e la prova (il modello della verità scientifica); non questa o quella verità, ma la verità della verità, [2] la verità come causa, non correlata ad alcun sapere, coi suoi temi della parola piena, del soggetto diviso, del debito simbolico, del significante maître e del maestro di verità, del disvelamento e della finta costitutiva, coi suoi luoghi deputati (l’inconscio e le sue scene: il sogno, il lapsus, il sintomo), con la sua tecnologia del transfert e dello scambio intersoggettivo e col suo imperativo araldico: Wo es war, soll Ich werden; la verità insomma, che in una celebre prosopopea, può finalmente dire: moi la vérité, je parle. Il discorso del potere: non più la vecchia nozione «feudale» del potere come partizione, agglutinazione, esproprio, fissazione (modello del potere statale), ma il potere diffuso capillarmente, con diverse zone d’intensità, in tutto il corpo sociale, coi suoi agenti collettivi e privati d’enunciazione (dal pater familias al medico, al poliziotto, al giudice), con le sue variabili strategie di applicazione sui corpi e sulle persone, con la sua tendenza a spostare sempre più in là i confini del controllabile, del sorvegliabile, del disciplinabile; parlare non è più allora rivelare o nascondere la verità, né tanto meno comunicarla (secondo un vecchio ritornello della scienza), ma veicolare i segni del potere e diffonderne gli effetti; dietro ogni discorso (quale che sia la sua struttura logico-linguistica) la grammatica generale di una tecnologia di potere.

Sarebbe forse indebito, in omaggio al feticismo del nome proprio, ascrivere la proprietà di questi discorsi unicamente a Lacan da una parte, e a Foucault dall’altra: i discorsi non appartengono a nessuno, e i nomi propri non sono che un indice. Quanto alla verità, comunque, Lacan non ha fatto che ripetere ch’essa emerge come parola piena in un certo rapporto con l’altro (chi è nel suo caso: Freud, i suoi pazienti o i suoi uditori devoti, o tutti e tre insieme?), e Foucault ci ha insegnato che c’è più verità nella parola dell’ultimo dei pazzi che in quella del primo degli psichiatri; quanto al potere, se Foucault (il Foucault soprattutto delle lezioni al Collège de France) ne smonta pazientemente i congegni, Lacan non ignora che ce n’è ovunque c’è sapere (e una certa sua richiesta recente di allégeance da parte degli psicanalisti di Vincennes lo conferma crudelmente). Anche la questione del desiderio era già posta: come affrancamento dal concetto organicistico di bisogno in Lacan, come emersione dalle rovine della rappresentazione in Foucault. Ora, a partire di qui, l’Antiedipo ha riposto il desiderio al centro, ci ha riposto nel cuore stesso del desiderio: non più semplice oggetto di discorso, nelle forme familiaristiche dell’Edipo, ma l’enunciazione libidinale di tutte le discorsività, nelle forme produttivistiche della macchina desiderante. Era già il discorso di Schreber, di Artaud, di Wolfson, di cui l’Antiedipo è forse il solo «commento» possibile: seconda chiave di lettura.

Il desiderio: macchina/struttura.

Parola di verità, tecnologia del potere, macchina desiderante: ecco la triplice funzione delle formazioni discorsive. Ma perché macchina? Si vedrà innanzitutto, nel paragrafo intitolato L’inconscio molecolare, come la macchina desiderante non abbia nulla a che fare con le macchine molari organiche, tecniche e sociali: la molarità non è altro che il ripiegamento della macchina sul piano della struttura, macchina che non si forma allora allo stesso modo in cui funziona e che funziona sul modello e sul regime estrinseco dell’organismo, della tecnica, dell’istituzione. Di fronte al molare, dunque, il molecolare; di fronte alla struttura, la macchina: in una parola si potrebbe dire che la struttura è dell’ordine della rappresentazione, e la macchina dell’ordine della produzione. «Una volta disciolta l’unità strutturale della macchina, una volta deposta l’unità personale e specifica del vivente, un legame diretto appare tra la macchina e il desiderio, la macchina passa nel cuore del desiderio, la macchina è desiderante e il desiderio macchinato».

L’essenziale è dunque un certo rapporto tra la macchina e la struttura, tra il molecolare e il molare, tra la produzione e la rappresentazione: due tecnologie, e due regimi, d’iscrizione differenziale del desiderio. Iscrivere il desiderio nella struttura significa infatti sostantificarlo, legarlo all’organismo come pulsione sempre mancante del suo oggetto, correlarlo al soggetto in un certo rapporto intersoggettivo di domanda rispetto all’altro (l’altro attraverso il cui desiderio il soggetto si costituisce), mettere in movimento la meccanica infernale della castrazione e l’istanza simbolica della Legge (l’interdizione dell’incesto): non è altro che questo l’operazione edipica, [3] nelle forme differenzianti del simbolico e in quelle identificatorie dell’immaginario. [4]

Ma sussisteva una difficoltà: una struttura non può costituirsi se non a condizione di disporre di una «casella vuota», che le permette di funzionare e di far circolare i suoi elementi: il posto del morto nel bridge, il posto del re nelle Meninas di Velázquez, lo zero della serie numerica di Frege e di Peano: in questo posto vuoto Lacan aveva installato il suo oggetto a minuscola, sospendendolo tuttavia al Fallo o gran Significante, che distribuisce la mancanza nella struttura (avere il pene o mancarne, maschile e femminile, omosessuale o eterosessuale ecc.) e che le consente appunto di funzionare in quanto struttura; [5] la casella vuota costituiva comunque il luogo di maggiore instabilità della struttura, quello che nella teoria matematica della morfogenesi R. Thom definisce il punto di catastrofe. Ora l’operazione teorica dell’Antiedipo è consistita appunto in questo: occupare la casella vuota, non per installarvi un altro oggetto presente/ assente, l’oggetto a minuscola e il gran Significante, sul piano del simbolico, ma la macchina desiderante, il desiderio nel cuore del reale stesso (quel «reale impossibile» di cui appunto la struttura non può costitutivamente render conto). [6] Bastava vedere che la casella vuota è il posto della produzione e del reale: il desiderio allora che funziona come produzione del reale non ha più nulla a che fare con la struttura, ma è una macchina in cui montaggio e funzione coincidono, una macchina molecolare, la microfisica del desiderio.

D’un tratto si misura la distanza tra questo desiderio, per la prima volta ricentrato nella sua positività sperimentale e macchinica, e le vecchie teorie sul desiderio che hanno attraversato la cultura occidentale, da Platone a Freud: non più dunque il desiderio nelle forme privative antiche (il desiderio come acquisizione), né in quelle cosmico-libidinali lucreziane (la Voluptas come forza generatrice dell’universo), [7] né in quelle penitenziali del mondo cristiano (il desiderio è ciò di cui si può parlare, sotto le specie del corpo peccaminoso e colpevole, nei modi regolamentati della confessione), né in quelle scenico-teatrali (il desiderio è il «ritorno del rimosso» nello spazio ambiguo e controllato della scena), [8] né in quelle filosofiche della teoria delle passioni (il desiderio come appetito), né infine in quelle medico-penali, a partire dal XVIII secolo (nelle varie codificazioni anatomo-patologiche, neurologiche, biologiche, coi loro correlati giuridici). In un modo o nell’altro, in tutte queste forme, appare sempre un’iscrizione organica, una correlazione al soggetto, l’assegnazione di un oggetto mancante in una variante somatica (teoria dell’istinto), economica (teoria del bisogno), sintomatico-rappresentativa (teoria delle pulsioni). La macchina desiderante non è nulla di tutto questo: il desiderio non è iscritto in alcun organismo, non è correlato ad alcun soggetto (il soggetto è prodotto dalla macchina come «pezzo adiacente»), non manca di nulla, non significa nulla, ma produce e funziona.

Ci si può chiedere a questo punto quale sia stato il beneficio «politico» dei ripiegamenti rappresentativi del desiderio: la risposta è immediata, se si accetta una delle tesi centrali dell’Antiedipo, secondo cui il desiderio è sempre rivoluzionario, macchina sempre pronta a distruggere le rassicuranti molarità predisposte dal potere. L’operazione monotona del potere per «controllare» il desiderio è sempre stata quindi di iniettarvi la mancanza, la penuria, la rarità, operazione indispensabile per aver presa sui corpi (il corpo organico, il corpo economico, il corpo libidinale): dal momento che manchi di qualcosa, non potrai fondare le tue richieste che su questa mancanza, e qui ti terremo: infaticabile ed inesauribile piège della dipendenza predisposta.

Così per secoli, attraverso le pratiche sceniche, la regola confessionale, la codificazione medica, il potere ha avuto (facile) presa sul corpo desiderante; sulla mancanza iniettata, e tramite tutta una strategia complessa, negativa (repressione) e positiva (allargamento costante dei confini del controllabile e del sorvegliabile), e tutta una strumentazione parallela di teorie filosofiche e di pratiche mediche, penali, criminalistiche, il potere ha trovato le sue condizioni di funzionamento e il suo campo d’applicazione.

Contro tutto questo l’Antiedipo: non una nuova teoria dunque, ma lo smontaggio paziente dell’arsenale edipico di queste applicazioni (coi suoi paralogismi e i suoi effetti), e l’indicazione dello spazio reale e del funzionamento macchinico del desiderio finalmente liberato dalle sue catene (ivi comprese quelle lacaniane, se ci si consente il gioco di parole): terza chiave di lettura, se non prima indicazione di uso.

Come parlarne.

«Promuovere un’altra logica, una logica del desiderio reale, che stabilisca il primato della storia sulla struttura; un’altra analisi, svincolata dal simbolismo e dall’interpretazione; e un altro militantismo, in grado di darsi i mezzi per liberarsi da solo dai fantasmi dell’ordine dominante»: [9] ecco il programma. Che cosa ne resta oggi, a tre anni dall’uscita del libro? E come parlarne?

Si affacciano qui due difficoltà, una estrinseca e contingente, l’altra intrinseca e costitutiva. Prima diffilcoltà: libro «singolare», libro-flusso, libro-schizo (schize), che attraversa, con il passo leggero e insolente dell’empietà, i più diversi territori, che rivendica un’incompetenza necessaria, che non paga i regolari diritti di dogana, l’Antiedipo non ha potuto che subire ben presto la sorte degli schizo: del processo si è fatto uno scopo, del viaggio un territorio, un territorio di più, un altro assioma per i flussi liberati e decodificati. Bisognava da una parte ad ogni costo ridurne la «singolarità», e renderla accettabile per i vari conformismi locali, attraverso l’inevitabile parola del giudice (chi ti ha dato il diritto di parlare?), del tecnico (perché parli di ciò che non sai?), del riparatore (alla peggio, ti faremo funzionare a modo nostro), dell’imboscato (in ogni modo tutto questo non esiste). Anche l’entusiasmo, dall’altra, non ci è sembrato scevro di una certa irritazione (ormai, non si potrà più pensare che a partire da qui). Così questo libro, che aveva all’inizio messo il fuoco alla pianura, è stato ben presto preso nella meccanica dei suoi effetti di rottura e di disturbo: da una parte una sorta di surriscaldamento che ha inceppato l’ingranaggio, dall’altra l’alacre lavoro di cucitura. E, insomma, cessato il primo allarme, non ci si è detti che in fondo l’Antiedipo è un libro illeggibile (dunque inutile o comunque inoffensivo)? Allora la voce notturna poteva levarsi per dire: «dormite tranquilla, brava gente, non è successo nulla, continuate pure a dormire e a liberare i vostri desideri nei sogni: questo non fa paura a nessuno; vi hanno raccontato, ancora una volta, delle storie». Storie, hanno detto infatti gli psicanalisti, questo desiderio nella produzione, questo reale senza dualismi, questo mondo senza significante, senza castrazione, senza oggetto, senza legge, senza mancanza, senza fallo: sappiamo che desiderio è questo di cui ci parlate, è il desiderio perverso; e poi, l’Antiedipo non è altro che l’ante-Edipo, il Freud del 1895 (quello non «scientifico», come il Marx del ’44): quindi, parola rassicurante, «la macchina desiderante funziona, siatene certi, per l’Edipo». [10] Che farem senza l’Edipo?

Quanto agli antropologi, non ci risulta che il primato accordato dall’Antiedipo alla genealogia del debito sulla struttura dello scambio abbia mutato la rotta degli studi sui sistemi di parentela primitivi. Dove va a finire, poi, la teoria delle formazioni sociali, con la sequenza canonica dei suoi stadi, se il dispotismo asiatico diventa una sorta di trascendente kantiano che sovrasta tutte le società, lo Stato dispotico che fa irruzione nel villaggio primitivo, L’Urstaat che trascina con sé l’orda delle «bionde bestie da preda, la razza dei conquistatori e dei padroni», la razza dei fondatori di Stato, la macchina dispotica coestensiva ad ogni formazione sociale? Peggio ancora: come potrà questo inconscio molecolare svolgere il vecchio ruolo della persona, dell’io e della coscienza? E che diventano le classi, se, nel capitalismo, tutta la differenza passa tra mezzi di finanziamento e mezzi di pagamento? Storie, tutto questo: l’Antiedipo non è che la nuova ideologia del capitalismo prolifico, abbondante, non più il vecchio capitalismo della penuria, ma il capitalismo «energumeno» — per dirla alla Lyotard — dell’economia libidinale diffusa in tutti i pori della macchina produttiva. Quanto agli psichiatri, infine, per chiudere questo monotono concerto di rumori, le loro obiezioni sono state quelle, ovvie, dei «funzionari del consenso», per dirla alla Basaglia: voi non avete mai visto uno schizofrenico, il rudere autistico (il che a rigore è falso almeno per Guattari, che ha dietro di sé una lunga pratica di psichiatria istituzionale); il vostro delirio è gratuito, il vostro desiderio troppo inumano, la vostra critica della famiglia troppo radicale perché le nostre terapie possano funzionare. Che faremo senza lo schizo?

Tra tutti questi rumori, una parola autentica, quella di uno studente, Pierre Rose, per dire: «È escluso che il lavoro critico che si avvia con l’Antiedipo diventi un’operazione universitaria, attività lucrativa dei dervisci dell’Essere e del Tempo. Esso riprende il suo effetto, conquistato contro gli strumenti del Potere, nel reale; esso aiuterà in tutti gli assalti contro la polizia, la giustizia, l’esercito, il potere di Stato in fabbrica e fuori»: [11] era la parola giusta, quella che indicava, al di là dei rumori, il solo uso legittimo dell’Antiedipo, ed anche la risposta alla prima difficoltà: questo libro è uno strumento di lotta, non un pretesto di « traduzione» o un elegante artificio teorico: voleva essere soprattutto questo, all’origine, e in questo modo deve essere «preso»: il suo luogo di applicazione è la pratica di lotta contro tutte le tecnologie del potere (repressivo, punitivo, disciplinare, regolamentare), la sua proposta quella di un nuovo militantismo. [12]

Tutto questo significa dunque che ogni discorso sull’Antiedipo è destinato a passare à côté, a fallire il bersaglio? S’annuncia qui la seconda difficoltà, costitutiva, minacciosa, ineliminabile, cui non potremo, in queste rapide «spiegazioni per l’uso», che alludere insoddisfacentemente. In realtà, se questo libro è veramente un oggetto, o un luogo, molecolare, fatto di flussi, tagli, intensità, in cui il senso come avvenimento, singolarità, paradosso, simulacro, molteplicità e trasversalità, non appare più tanto come effetto di discorso, ma come il discorso stesso, il discorso desiderante nella sua positività macchinica; se dunque questo libro sembra colmare la distanza tra il discorso e il suo referente, con i tipi di intelligibilità connessi, iscrivendo direttamente la scrittura sulla superficie inestesa del corpo senza organi (corto circuito che delimita lo «scandalo» teorico dell’Antiedipo), se tutto questo è vero, come si potrà parlarne? Farne un referente nuovo non significa, infatti, correre il rischio di perderlo irrimediabilmente, molarizzando, triangolando, edipizzando da una prospettiva qualunque una scrittura che si installa d’acchito nella molecolarità, nell’inconscio produttivo e nel reale? Come evitare l’insidia, insomma, della rappresentazione? Difficoltà temibile: la macchina desiderante non è un referente come un altro, il corpo senza organi non è uno spazio esteso, l’intensità non appartiene a nessun ordine di intelligibilità, e il reale sembrava, sino ad oggi, «impossibile»: un limite, un resto, un déchet della struttura e del simbolico e nient’altro. Si veda come Lacan si dibatte in questa difficoltà: per parlare del desiderio dall’interno della struttura, e senza passare per l’Edipo, deve produrre il concetto altamente problematico di a minuscola, e di qui introdurre la topologia da una parte, e ricorrere agli «effetti di stile» dall’altra (l’a minuscola è comunque una grammatica che produce enunciati di un’assoluta rigorosità, in questo senso): ma al posto del desiderio c’è la casella vuota, il reale sempre impossibile, condizione indispensabile perché la topologia possa funzionare. Ora qui la distanza è colmata: l’Antiedipo non parla del desiderio a partire dalla casella vuota, ma installa il desiderio nella casella vuota: [13] non si tratta solo di «delirare» la struttura, di portarla ad un funzionamento folle, di far circolare il Jolly vertiginosamente, ma di fare della casella il posto del detonatore che fa esplodere la struttura: dopo di che non resta più alcuna casella, alcun gioco, ma solo del reale, della produzione e del desiderio: la macchina desiderante che produce il reale, pura positività, pura immanenza (anche se rimane un obiettivo « tattico» esterno, la critica della psicanalisi edipica e un’iscrizione topologica paradossale, il corpo senza organi): una grammatica desiderante [14] macchinica che produce una scrittura-flusso che è un flusso di desiderio, ed enunciati incomprensibili e irriconoscibili per una grammatica «immaginaria» (che riduce, traduce, commenta, interpreta) e allucinatori e deliranti per una grammatica «simbolica»: non è una teoria come un’altra, né tanto meno una nuova teoria del delirio.

È probabile dunque che l’Antiedipo inauguri un nuovo uso della scrittura (non correlata alla voce come supplemento ed esteriorità, come appare alla grammatica testuale di Derrida) e una nuova pratica della lettura, lettura desiderante, lettura «parziale», senza referente ed esteriorità: scrivere come si parla, si è detto, e leggere come si desidera: e fare della lettura una macchina, non è forse risuscitare l’Eliogabalo, il Caligola, lo Schreber in noi? Una nuova tecnologia della scrittura, una nuova pedagogia della lettura: una parola-scrittura in cui l’enunciazione coincide con il senso, una lettura in cui non c’è niente da capire, ma solo da far funzionare. Non è questa la pedagogia vertiginosa che Klossowski attribuisce a Deleuze, insegnare l’inenseignable?

Accumuliamo i punti interrogativi per dire che ogni ricostruzione genealogica, ogni deduzione filiativa (il ’68, le guerre antimperialistiche dell’ultimo decennio, le lotte puntuali nelle scuole, nelle caserme, negli ospedali psichiatrici, la psicoterapia istituzionale, l’insegnamento di Lacan, i movimenti di liberazione della donna, degli omosessuali, ecc., tutto questo un po’ alla rinfusa) non bastano a generare l’Antiedipo: al massimo lo accerchiano, lo trascinano nel loro stesso movimento, ma non ne esauriscono la singolarità e l’eccesso: rimane sempre un margine in quest’«integrazione» filiativa, uno scarto incolmabile: nella linea genealogica l’Antiedipo ateo, orfano e celibe fa figura di bastardo.

Per questo, bisognerebbe forse passare dalla filiazione all’alleanza, al debito reciproco tra lo stock filiativo di Deleuze (i concetti avvenimento, di senso, molteplicità, singolarità, con le figure di Nietzsche, Spinoza, Artaud sullo sfondo), e lo stock filiativo di Guattari (con i concetti di trasversalità, macchina, agenti collettivi di enunciazione, e l’ospedale di La Borde come linea d’orizzonte): [15] alleanza sanzionata da un incontro (forse ora pensabile nella categoria della «gemellità» di cui parla M. Tournier nelle sue Meteore) che Deleuze descrive in questi termini:

Bisognerebbe parlare come le ragazzine, al condizionale: ci saremmo incontrati, sarebbe successo questo… Due anni e mezzo fa, ho incontrato Felix. Aveva l’impressione che io fossi più avanti di lui, attendeva qualcosa. In realtà io non avevo né le responsabilità di uno psicanalista, né le colpe o i condizionamenti di uno psicanalizzato. Non avevo alcun luogo, questo mi rendeva leggero, e mi sembrava curioso quanto fosse miserabile la psicanalisi. Ma lavoravo unicamente nei concetti, e per di più timidamente. Felix mi parlò di quel che chiamava le macchine desideranti: tutta una concezione teorica e pratica dell’inconscio-macchina, dell’inconscio schizofrenico. Allora ho avuto l’impressione che fosse lui in anticipo su di me. Ma, col suo inconscio-macchina, parlava ancora in termini di struttura, di significante, di fallo, ecc. Era giocoforza dato che doveva tanto a Lacan (come me, del resto). Ma io mi dicevo che sarebbe andata ancor meglio se si fossero trovati concetti adeguati, invece di servirsi di nozioni che non sono neppure quelle del Lacan creatore, ma quelle d’un’ortodossia che si è costruita intorno a lui. È Lacan che ha detto: non mi aiutano. Noi lo avremmo aiutato, schizofrenicamente. E dobbiamo tanto più a Lacan che abbiamo rinunciato a nozioni come quelle di struttura, di simbolica e di significante, che sono pessime, e che lui, Lacan, ha saputo sempre ribaltare per mostrarne il rovescio. [16]

Allora, se questo libro è una macchina molecolare che non significa nulla, ma funziona, non vedo che un modo per parlarne. Sarà innanzitutto una passeggiata (la promenade dello schizo), un’escursione in visita alle macchine che ronzano in fondo al giardino; se ne parlerà come Canterel, l’ingegnere celibe del Locus solus di Raymond Roussel, [17] monta le sue macchine infernali: congegni di pezzi staccati, di molteplicità parziali, di avvenimenti singolari: pezzi di racconto, artifici di crudeltà e di estasi, brani di voci, effetti di scrittura, ingranaggi molecolari, la testa di Danton che ripete la frase della ghigliottina. Visita altamente rischiosa, se le macchine psicotiche di Canterel si accoppiano con quella paranoica della Colonia penale di Kafka: non solo allora tutti i segreti del parco saranno rivelati, ma bisognerà far passare il corpo attraverso gli ingranaggi: «uno spettacolo che potrebbe spingere a coricarsi sotto l’erpice. Non accade altro, l’uomo comincia soltanto a decifrare la scrittura, appuntisce le labbra come se volesse ascoltare. Lei ha veduto, non è facile decifrare la scrittura con gli occhi; ma il nostro la decifra con le sue ferite». [18]

Montaggio.

Si mettano insieme: i pezzi lavorativi (oggetti parziali, il corpo senza organi e il pezzo adiacente, il soggetto); tre tipi di energie (la libido, il numen e la voluptas); tre modi di sintesi (sintesi connettive d’oggetti parziali e flussi, disgiuntive di singolarità e catene, congiuntive d’intensità e di divenire) e si avrà la macchina desiderante: micromacchina molecolare, macchina miniaturizzata che funziona tagliando i flussi, che connette catene eterogenee e trasversali, che produce del reale: produzione di produzione nelle sintesi connettive della libido, produzione di registrazione nelle sintesi disgiuntive del numen, produzione di consumo nelle sintesi congiuntive della voluptas. Strana macchina, strani ingranaggi: ma basterà aver capito questo: la macchina desiderante produce il reale stesso, funziona nell’infrastruttura, come le macchine produttive sociali, per quanto con un regime diverso, connettendo e tagliando i flussi (come stati di divenire, pure intensità), oggetti parziali (tutto ciò che viene localmente investito dalla libido, senza alcun riferimento ad una totalità sempre mancante), incrociando trasversalmente catene e segmenti di catene polivoche ed eterogenee. La macchina desiderante non è altro, allora, che l’inconscio che produce, un inconscio orfano, prepersonale, non-umano: niente che sia dell’ordine di una soggettività (guarire dal soggetto, anche sbarrato), di una totalità, di un organismo, di una struttura; niente che rimandi alla Legge, ad un significante esterno, ad un fantasma individuale: un inconscio senza colpa, senza mancanza, senza credenze. Di qui un certo numero di «effetti»:

a) si riconosce a Freud il merito di aver individuato l’essenza universale astratta del desiderio (come Ricardo ha individuato l’essenza universale astratta del lavoro), ma gli si rimprovera di averlo tosto «territorializzato» nel quadro della famiglia privata, e di averlo «triangolato» nell’Edipo (simbolico o immaginario); di aver fatto dunque di quel che era una fabbrica, un teatro (il sogno, il lapsus, il fantasma), ripiegando il desiderio dal piano della produzione al piano della rappresentazione. In questo senso la psicanalisi non ha inventato l’Edipo, ma ha appoggiato e rinforzato il movimento di controllo e di repressione del desiderio da parte delle istanze socio-politiche, delle macchine dispotiche molari;

b) questa «territorializzazione» è resa possibile da tre paralogismi, o usi illegittimi di sintesi, caratteristici dell’Edipo: il paralogismo dell’estrapolazione, che consiste nell’estrarre dalle catene dell’inconscio un oggetto trascendente, il Fallo o significante dispotico, che le linearizza e univocizza, introduce la mancanza nel desiderio e Io salda alla legge: la castrazione non è forse altro che questo uso globale delle sintesi, al posto di quello parziale e specifico; il paralogismo del double bind, o «presa doppia»: al posto degli usi inclusivi e illimitativi delle sintesi connettive, un uso esclusivo e limitativo: il desiderio viene iscritto o nell’Edipo simbolico (della legge e della castrazione), o in quello immaginario delle identificazioni parentali; paralogismo dell’applicazione: un uso segregativo e biunivoco delle sintesi congiuntive, invece dell’uso nomade e polivoco: tutto il contenuto storico-mondiale del delirio (delirare i continenti, la storia, le razze) viene allora ripiegato su papà-mamma, sulla famiglia nucleare, sullo «sporco segretuccio». La famiglia è dunque il territorio di ripiegamento; l’Edipo l’insieme delle operazioni che fanno passare il desiderio dal piano della produzione a quello della rappresentazione, dal piano del reale a quello del simbolico e dell’immaginario. È una vecchia storia anche questa, ma quanto reale: non è tanto la famiglia borghese ad aver generato l’Edipo, ma è piuttosto, al contrario, un dispositivo complesso, penale, medico, giuridico, ad aver tagliato il sociale dal privato, ad aver isolato la famiglia dal corpo sociale, ad aver innestato il corpo dei genitori sul corpo dei bambini nella crociata antimasturbazione (famiglia borghese), ad aver separato il corpo dei bambini da quello dei genitori (campagna anti-incesto nella famiglia proletaria), ad aver medicalizzato e psicologizzato i rapporti genitori-bambini (teorie della perversione, della degenerazione e dell’anormalità), ad aver infine codificato tutto questo nei dispositivi raffinati, ontogenetici e filogenetici, dell’Edipo (interdetto dell’incesto come accesso alla Legge, meccanica della castrazione come accesso al desiderio): la famiglia come fabbrica di «corpi docili», i genitori come agenti delegati del controllo e della repressione. Al posto di tutto questo la schizoanalisi si propone allora «di esplorare un inconscio trascendentale invece di metafisico; materiale invece di ideologico; schizofrenico invece di edipico; non figurativo invece di immaginarlo; reale invece di simbolico; macchinico invece di strutturale; molecolare, microfisico invece di molare o gregario, produttivo invece di espressivo»;

c) a partire dai dispositivi storici d’iscrizione del desiderio viene delineata una teoria generale delle formazioni sociali: la società primitiva iscrive il desiderio sul corpo pieno della terra, la società barbarica sul corpo pieno del despota, la società capitalistica sul corpo pieno del capitale-danaro; prima codificazione dei flussi sul corpo della terra (scrittura della crudeltà, filiazione e alleanza matrimoniale), surcodificazione dispotica (la nascita di Edipo, gran Significante dispotico, la nascita dello Stato, l’emersione della Legge e dell’interdetto) e infine assiomatizzazione capitalistica: i flussi vengono decodificati in un primo movimento di deterritorializzazione e subito riassiomatizzati nelle territorialità cliniche dell’Edipo familiaristico; i rapporti differenziali tra mezzi di pagamento e mezzi di finanziamento vengono linearizzati dal plusvalore; l’antiproduzione diventa costitutiva della produzione (funzione degli apparati burocratici di assorbimento del plusvalore). Allo stato surcodificante dispotico succede così lo Stato regolatore capitalistico. All’interno della formazione capitalistica lo schizofrenico appare allora come il limite, il punto-segno dell’estrema deterritorializzazione, il corpo senza organi come limite interno sempre spostato. Allora, si potrà aver presa sullo schizo, sullo psicotico, facendo della schizofrenia uno scopo e non un processo, arrestando la «passeggiata», ripiegando il corpo senza organi sui terreni arcaici della perversione e della nevrosi, territorialità controllabili e rassicuranti: perversioni territoriali (il perverso di villaggio), psicosi paranoiche (entità dispotiche), nevrosi edipiche (entità familiari): il corpo senza organi, superficie inestesa di registrazione, diventa così uno spazio molare, entità clinica per le medicalizzazioni psicotiche ed edipiche.

L’inconscio produttivo e i suoi effetti; la denuncia della privatizzazione familiare e delle estrapolazioni edipiche; la critica del significante e della struttura come molarità di ripiegamento; la rimozione come effetto secondario della repressione sociale, attraverso papà-mamma come agenti induttori qualsiasi; l’indicazione dello schizo come ultima territorialità, corpo senza organi generato dalla decodificazione capitalistica cui vengono ad applicarsi le assiomatiche cliniche, psichiatriche, edipiche; la distinzione tra istinto di morte, come applicazione del desiderio molecolare sulle megamacchine molari e la morte come esperienza e modello nella macchina desiderante, contro l’assiomatica mortuaria dell’ultimo Freud; la distinzione tra interessi preconsci di classe e   desideri inconsci di gruppo, e la denuncia della loro manipolazione perché il desiderio giunga a desiderare la propria repressione; l’opposizione politica tra il polo paranoico-fascista dell’investimento libidinale, a livello delle grandi macchine sociali, e il polo schizofrenico-rivoluzionario, a livello della macchina desiderante molecolare; la pratica della schizoanalisi, infine, come «programma» e strategia calcolata di distruzione degli «strati» del corpo senza organi (la superficie dell’organismo, l’angolo di significazione, il punto di soggettivazione); [19] come ricerca del piano di consistenza, uovo intensivo definito da assi e vettori, gradienti e soglie, spazio inesteso ove il desiderio non è che laboratorio e sperimentazione (ma attenti alle disarticolazioni «selvagge» degli strati, che portano a corpi senza organi svuotati, cancerosi e fascisti); come accoppiamento infine della macchina artistica, scientifica, rivoluzionaria: ecco il montaggio, che non produce nuovi romanzi familiari, piccoli edipi colpevoli e rassegnati, ma macchine desideranti senza cui nessuna lotta politica e nessuna rivoluzione sembrano ormai possibili.

Molare/molecolare.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto: in che rapporto stanno tra loro il molare e il molecolare? Sono due modi di pensare o due modi di essere del reale? E come passare dalla teoria ristretta, che scopre il funzionamento dell’inconscio molecolare sul corpo senza organi dello schizo, ad una sorta di teoria generale del corpo senza organi come «sostrato» universale del desiderio? Questa è forse la questione più cruciale posta dall’Antiedipo, che ci limiteremo ancora una volta a segnalare, in attesa degli sviluppi successivi e del secondo volume già annunciato: qual è dunque il tipo di relazioni (esclusività, implicazione, correlazione, generazione reciproca) tra questo inconscio molecolare (in cui alcuni non vedranno che la vecchia sostanza spinozista, attraversata da intensità nietzschiane e salvata contro slittamenti metafisici o ricadute empiriche da una sorta di purezza trascendentale kantiana), e le molarità diffuse che sembrano accerchiarlo da ogni parte? Apparentemente, infatti, la molarità è ovunque: ovunque grandi insiemi, megamacchine tecnologiche, organiche, istituzionali, ovunque dello strutturale e del simbolico che ci attraversano da parte a parte; ovunque le famiglie coi loro edipi, gli Stati con le loro burocrazie, i partiti con i loro apparati, i gruppi-oggetto con le loro stereotipie, il potere con le sue tecnologie; apparentemente, il desiderio non produce che sogni, e, quanto al linguaggio, esso sembra generato piuttosto da una grammatica chomskiana che dalla grammatica generale psicotica; non è vero, infine, che la microfisica è incapace di spiegare certi effetti morfologici del vivente?

In realtà, se l’inconscio non è altro che il funzionamento macchinico del desiderio che produce il reale, a livello molecolare, il molare non rappresenta che l’insieme delle operazioni di ripiegamento e di applicazione sulla rappresentazione e sulla struttura, a livello del simbolico e dell’immaginario. Molare e molecolare non sarebbero dunque due categorie isotopiche, simmetriche e coestensive, legate da un rapporto di decisione problematica (l’una o l’altra) o addirittura di indecidibilità (l’una e l’altra, indifferentemente) in una sorta di double bind simultaneo, ma due categorie irriducibili ed eterogenee: molecolare è il funzionamento effettivo della macchina desiderante, molare è l’insieme di dispositivi per ripiegare questo funzionamento sul piano rappresentativo delle strutture: dispositivi che non operano tanto la rimozione (primaria o secondaria) nell’inconscio, ma che rimuovono l’inconscio stesso, facendolo passare dal reale produttivo al simbolico rappresentativo o all’immaginario fantasmatico. Freud aveva segnalato un’operazione di questo tipo nel carattere negativistico nella ragione, che si costituirebbe nella Verneinung delle pulsioni: in realtà, non si tratta qui solo di negazione, ma di un insieme complesso di istanze, altamente positive, cui è stata delegata, almeno a partire dall’apparizione degli Stati, la funzione di ripiegamento del reale stesso e della macchina desiderante che lo produce.

Si misurerà allora la portata dell’Antiedipo: si erano presi il Significante, il simbolico, la mancanza come forme costitutive del reale, e correlativamente, come strumenti concettuali per pensarlo; in realtà non sono che forme indotte, secondarie: il risultato dell’operazione edipica di ripiegamento e di applicazione; nient’altro che credenze, un altro modo per essere pii, una forma più raffinata di religiosità. È come se ci dicessero: non avete mai pensato il reale nella sua produttività molecolare e macchinica (un reale senza significati e senza interpretazioni) ma avete pensato quel che ne resta una volta compiuta l’operazione di ricodificazione e di assiomatizzazione molare: la caverna platonica, nient’altro che del simbolico e dell’immaginario, le nostre millenarie abitudini di pensiero.

La molarità comunque esiste. Si tratta allora di mostrarne il funzionamento e di ritrovare il corpo senza organi: ecco il programma. Non tanto l’operazione regressiva della psicanalisi, ma la paziente decostruzione degli strati, alla ricerca del piano di consistenza, del piano di immanenza del desiderio: [20] quel corpo senza organi che l’Antiedipo indicava come il limite paradossale del capitalismo, il corpo psicotico dello schizo, appare allora come il sostrato universale del desiderio disinnestato dalla struttura e riposto nel cuore del reale: un luogo ove «questo» funziona, produce, un microlaboratorio, un dispositivo di sperimentazione, uno spazio in cui voce, gesto, parola e scrittura si tagliano e si incrociano, ove le molarità saltano in aria, ove è possibile ricominciare a pensare: un nuovo modo di fare la letteratura, la scienza, la storia, un nuovo stile di militantismo, un nuovo programma di produzione: non è questa la coestensività della storia e della natura, dell’Homo natura e dell’Homo historia annunciata dall’Antiedipo?

Certo, installarsi nel microlaboratorio, sotto le macerie della molarità, non sarà facile; e si vedono ancora male le forme concrete di funzionamento della macchina desiderante generalizzata dallo schizo a tutto il corpo sociale: si vede ancor male a cosa somiglierebbe una società desiderante, in cui il desiderio si infiltrasse in tutti i pori della molarità, una società senza organismi, significazione e soggettività, una società di punti-segno, di intensità e di flussi: vera e propria eterotopia sul sostrato ovulare del corpo senza organi. Probabilmente questa eterotopia è, per il momento, il nostro impensabile. Basterà allora aver indicato che l’Antiedipo rompe con un certo secolare progetto di scientificità, e con lo scientismo dilagante del capitalismo maturo, con le sue normatività, i suoi sistemi, le sue assiomatiche, le sue credenze, le sue molarità. In una parola: il mondo non deve essere interpretato, ma prodotto a partire dagli stati intensivi della macchina desiderante, ove montaggio, funzionamento e prodotto coesistono in una indissociabile simultaneità. Basterà aver indicato gli effetti di questo nuovo materialismo che non ha più come esteriorità se non i dispositivi di ripiegamento nella molarità (istanza critica) e l’ultima, problematica iscrizione sul corpo senza organi (residualità referenziale: come se, ancora, i flussi di parola e di scrittura non fossero possibili senza questa istanza e questa residualità). [21] Basterà infine, last but not least, aver indicato gli obiettivi immediati di questo libro «dionisiaco», uno dei pochi dopo Nietzsche: farci uscire dalle credenze, liberarci dalle superstizioni, combattere contro tutto il «nero» degli appestati morali, degli untori accademici, dei grandi inquisitori ideologici, degli sbirri istituzionali, dei mormoni politici e dei quaccheri culturali. Programma quasi etico. È come se ci dicessero: vi hanno parlato di un principio di realtà, con cui devono fare i conti i vostri desideri; è una favola, la favola millenaria dei cani da guardia, per farvi prendere la (loro) realtà per i vostri desideri; ora, il principio di realtà è uno solo: prendete i vostri desideri per la realtà, delirate la storia, i continenti e le razze, mettete in movimento le vostre macchine desideranti inceppate. Nient’altro che questo.

Considerazioni intempestive.

E la psicanalisi, in tutto questo? Sul rapporto tra la psicanalisi e l’Antiedipo occorre secondo noi dissipare subito almeno due malintesi quasi inevitabili.

Da una parte, e in primo luogo, bisognerebbe evitare di prendere l’Antiedipo come l’ennesimo tentativo di conciliare Marx e Freud, o, se non di conciliarli, di metterli ancora una volta a confronto: interminabile, e spesso sterile, impresa di quel che si definisce il freudomarxismo, monotono lavoro di cucitura o di sgretolamento sul piano molare delle teorie, con gli strumenti concettuali della mancanza (ha visto questo ma non quello), dell’ideologia (non ha potuto vedere questo o quello), del misconoscimento e del diniego (ha visto ma ha subito occultato). Ora non si tratta tanto di mettere a confronto le teorie, ma di riprendere la questione che le genera e le articola nel reale stesso, e non nei testi; si tratta allora di rimettere il desiderio al suo posto, nel reale e nell’infrastruttura (quel desiderio di cui Freud aveva scoperto l’essenza universale astratta) mostrandone il funzionamento macchinico e produttivo (la produzione analizzata da Marx a livello delle grandi macchine molari). Il desiderio come universalità astratta e il funzionamento delle grandi macchine sociali preesistono infatti ai testi di Marx e Freud; essi sono il risultato della decodificazione capitalistica, la questione così come il capitalismo, nel suo funzionamento reale, permetteva di porla: se poi Marx, nella sua macchina teorica, non sembra far posto al desiderio, e se Freud fa del desiderio, che è una fabbrica, un teatro, è meno questione di ideologia, di misconoscimento o di diniego che la conseguenza del fatto che il capitalismo ha tutto predisposto per tenere dissociati produzione e desiderio, per territorializzare l’uno e molarizzare l’altro, per impedire comunque che la jonction potesse realizzarsi, proprio perché essa rappresenta il pericolo mortale per la sua riproduzione. Ora l’Antiedipo è proprio questo: il luogo della jonction, lo smontaggio dei dispositivi istituzionali e teorici (la famiglia e l’Edipo, soprattutto) che non hanno cessato di scongiurarla, l’innesto della produzione sul desiderio: c’è solo del desiderio e del sociale, una volta smontati i meccanismi della privatizzazione familiare e del ripiegamento edipico, una volta individuati i due tipi opposti di investimento, investimenti di desiderio paranoico-fascisti, a livello molare, e investimenti schizofrenico-rivoluzionari a livello molecolare.

In secondo luogo, e in questo senso, l’Antiedipo non è un libro contro la psicanalisi, l’ennesimo, dopo quello di Reich, Marcuse, Fromm e tutti quanti, tentativi laboriosi, in ultima analisi, per salvare almeno i mobili e ridarle fiato. In questo senso l’Antiedipo è più vicino al lirismo corrosivo di un Miller o di un Lawrence, che già negli anni ’20 denunciava la profonda ostilità contro la vita, in Freud, la concezione dell’inconscio come luogo di credenze secondarie e indotte, la legalizzazione scientista della sessualità così come si manifesta dopo la repressione; più vicino al Wittgenstein delle Lezioni e conversazioni, quando diceva:

L’analisi è probabilmente dannosa. Benché si possano scoprire nel corso di essa varie cose su se stessi, occorre esercitare una critica severa, acuta, continua, per riconoscere e guardare attraverso la mitologia che ci viene offerta o imposta. Qualcosa ci induce a dire, «Sì, certo, dev’essere così». Una mitologia che ha molto potere. [22]

E poi, chi ha paura della psicanalisi? Troppo pochi sono coloro che rischiano di finire nell’ultima, miserabile territorialità, il divano, per ritrovare il padre simbolico, per farsi fare una castrazione tutta nuova, per riscoprire i piaceri un po’ sordidi del vecchio regime penitenziale, con il flusso di parole mercantilmente tariffato in più. C’è qualcosa di profondamente sgradevole, arcaico, malsano in questa pratica della seduta, tutto un odore di biancheria dubbia che sprigiona la vecchia famiglia borghese ottocentesca, con i genitori che ispezionano le lenzuola alla ricerca di macchie di sperma, con le domestiche che masturbano i bambini, con i bambini che fantasmano gli orrori notturni degli amplessi parentali, con gli zii che seducono, realmente prima, immaginariamente poi, i nipoti; tutto un brusio fastidioso di sporchi segretucci, di meschini patteggiamenti, di crudeli autoritarismi, di inconfessabili tartuferie, di indecorose rivalità, di sbrigative liquidazioni nella famiglia estesa della prima generazione di psicanalisti intorno a Freud; [23] con lo spettro del vecchio Edipo della tragedia che si aggira intorno, e che ricompare col suo bric-à-brac familiaristico nel teatro di Labiche o di Henry Becque. No, tutto questo arcaismo non fa paura a nessuno, e scrivere un libro contro questa paccottiglia da retrobottega equivarrebbe veramente a combattere una battaglia di retroguardia (tanto pid inutile in un paese come l’Italia, ove vige una sana e secolare irriverenza per il discorso del prete e le chincaglierie della sagrestia); contro tutto questo l’Antiedipo si limita a dire: «c’è odore di vecchio qui dentro; aprite le finestre, fate circolare un po’ di aria!»

Il pericolo è altrove; il pericolo è negli effetti sociali della psicanalisi, nel discorso diffuso, psicologizzato, medicalizzato, che si è venuto formando intorno ad essa e che si è infiltrato, familiarizzando, castrando, territorializzando, là dove si parla e ovunque si parla (e non solo del corpo, del desiderio, dell’affettività): un nuovo, formidabile strumento, per la sfiatata presse du cœur e i suoi mentori, per le nuove, e sprovvedute, pedagogie sessuali, per le inceppate ermeneutiche accademiche, pronte a barattare l’esausta meccanica strutturalistica con i più elaborati congegni del vecchio freudismo rimesso a nuovo dal significante lacaniano: insomma per tutto quello che rappresenta, in una società a corto di fiato, una nuova direzione di coscienza. Nelle istituzioni reali che non funzionano più (la scuola, la famiglia, la caserma, la prigione, l’ospedale psichiatrico) si inietta il sapere psicanalitico (per una nuova tecnologia del potere di sorvegliare, di controllare, di punire: non più la tecnologia della repressione dei corpi, ma la tecnologia neoumanitaria, neofilantropica, del controllo delle anime). [24] L’Edipo, ancora una volta, non l’ha inventato la psicanalisi; essa lo ha piuttosto generalizzato, facendone il dispositivo sofisticato del potere medico legale tardo capitalistico di normalizzare e di correggere, quella peste moderna che Freud stesso diceva curiosamente di portare negli Stati Uniti. Avete mai sentito parlare un giudice istruttore, un assistente sociale, un direttore di prigione, un medico liberale, un curato à la page, per non citare i direttori di coscienza di certe rubriche specializzate dei giornali o di certe trasmissioni radiofoniche o televisive dedicate ai problemi della famiglia, della «coppia», dell’educazione, della sessualità? È l’Edipo moderno che parla attraverso di loro, con tutto. L’arsenale di cui è questione in questo libro: privatizzare sempre, tagliare il familiare dal sociale, psicologizzare tutto quello che è politico, e poi colpevolizzare, colpevolizzare a più non posso, iscrivere il desiderio nelle piccole territorialità rassicuranti del neofamiliarismo. Non è che questo la castrazione, nient’altro che questa miserabile, quotidiana operazione di ripiegamento del sociale, dello storico, del politico sul familiare e sul privato. Contro tutto questo, soprattutto contro questo, si è levato finalmente l’Antiedipo.

Bisognerebbe un giorno mostrare come tutto questo è stato possibile, e tentare una sorta di storia dell’economia politica del desiderio, come enjeu e terreno insieme della lotta incessante tra il corpo e il potere; bisognerebbe mostrare come, non solo sul piano delle teorie, ma su quello delle istituzioni e degli avvenimenti, la psicanalisi si iscriva profondamente in un insieme di pratiche già elaborate e messe a punto dalla psichiatria ottocentesca. Il desiderio infatti, nella sua forma pura, astratta ed universale, altri l’avevano scorto prima di Freud, intorno ad alcuni casi di criminalità senza movente, senza interesse e senza scopo, la criminalità sulfurea dei «mostri» [25] nei primi decenni dell’Ottocento, che scannano, divorano le vittime e conservano davanti al giudice un’impassibilità «che fa male». Allora, questo desiderio puro, i magistrati lo ripiegano nella teoria della perversione delle passioni, [26] mentre i medici giocano, sin dall’inizio, con monotona regolarità, la carta della «razionalizzazione» in una serie di codificazioni rassicuranti, come aggiungono, per l’ordine sociale: sarà così la nozione di instinct carnassier nella frenologia di Gall, la teoria della monomania omicida (e poi istintiva) in Esquirol, le prime iscrizioni neurologiche nelle teorie sull’automatismo, fino alla famosa teoria della degenerazione, col suo correlato familiaristico (la famiglia patogena, la tara ereditaria), criminalistico (l’antropometria di Lombroso), neurologico (l’isteroepilessia), eugenistico (il buon uso dell’istinto di procreazione, premessa per le posteriori teorie razziali). Lo specifico della psicanalisi, in questa genealogia, è consistito allora in questo: nell’aver iscritto il desiderio nella coppia pulsione/rappresentazione territorializzandolo nell’ambito controllabile della sessualità, nell’aver sottoposto il familiarismo medico-penale ottocentesco alla giurisdizione dell’istanza simbolico/immaginaria dell’Edipo, con la sua meccanica della castrazione, della legge, della mancanza, nell’avergli soprattutto fornito come veicolo espressivo e condizione di intelligibilità il linguaggio: l’inconscio è «strutturato come un linguaggio» e quindi parla, parla. Il desiderio allora, riprendendo il vecchio filo della pratica confessionale, [27] può rimettersi a parlare: non più la parola correlata al peccato, ma alla rimozione; parola non più del corpo peccaminoso, ma del desiderio rimosso, che non chiede remissione, ma interpretazione: la presenza dell’altro, grande o piccolo, è ineliminabile.

Ma allora si potrà dire: non è forse l’Antiedipo l’ultimo, e più elaborato tentativo per rendere intelligibile il desiderio, per mostrare là ove effettivamente funziona nell’accoppiamento macchina molecolare desiderante e macchina sociale produttiva, a livello di un reale finalmente reso «possibile». Per di più, anche questo desiderio macchinico e produttivo preesisteva all’Antiedipo: era il desiderio che nel ’68 inventava nuove scritture, nuove forme di lotta, nuovi usi della parola, un desiderio che sembrava aver reso i teatri delle fabbriche, le scuole dei laboratori, le lotte politiche una sperimentazione continua. Era il momento in cui veramente la macchina letteraria, la macchina desiderante e la macchina militante sembravano accoppiate le une alle altre, per produrre miracoli. L’Antiedipo non si è levato, ancora una volta, a cose fatte, nel silenzio desolato dell’indomani della festa, nel paesaggio sconvolto delle rivoluzioni tradite, per erigere un monumento teorico all’avvenimento, meta di nuove devozioni e di più raffinati culti? Tra il ’68 passato e quello futuro, che tipo di ponte gettano libri come questo? Non è forse fornire nuove armi al potere, ora che la «permissività» sembra aver sostituito la repressività e la coercizione? Mostrare come e dove funziona il desiderio non significa permettere al potere di spostare ancora più in là, sempre più lontano, sempre più in fondo, le frontiere delle sue applicazioni? Questo potere sembra infatti non aver più presa sul corpo libidinale, sembra non poter più applicarsi ai corpi attraverso la vecchia «sessualità». Il corpo libidinale pare aver ripreso i suoi diritti; si insegna la sessualità nelle scuole (cosa succede quando il godimento, il piacere, il desiderio stesso diventano un sapere, un sapere insegnabile?) e, con un minimo di precauzioni, si può essere perversi, omosessuali, zoofili, sadomasochisti e tutto il resto. Se la permissività significa questo: cedere sul terreno in cui la battaglia è perduta (il vecchio controllo punitivo degli organismi intermedi, il controllo istituzionale nella famiglia, nella scuola, negli ospedali, ecc.) e individuare un nuovo terreno, non più il desueto corpo delle pulsioni né l’anima arcaica dei terrori, ma appunto questo oggetto nuovo, folgorante, il desiderio che investe tutto il campo sociale, il desiderio come macchina per produrre il reale, allora l’Antiedipo non rischia di fornire un nuovo bersaglio al potere disciplinare della «società permissiva» col suo ordigno infernale: l’apparato poliziesco più il discorso psicanalitico, la forma moderna del terrore?

Il pericolo sussiste di certo, ma il rischio andava corso. Tutto quello che potranno fare, sarà ancora una volta di impedire con tutti i mezzi e ad ogni costo il collegamento tra produzione e desiderio, generatore di effetti incontrollabili e intollerabili per ogni potere. I dispositivi della «permissività» non sono stati installati che a questo fine. Se ora cominciamo a conoscerli, questi dispositivi, a riconoscerli negli effetti coniugati delle due funzioni del controllo «permissivo», il poliziotto dove non arriva lo psicanalista e viceversa (quando non procedono di concerto) non rimane dunque che un compito, altamente positivo: montare le macchine contro ogni scrupolo, mettersi a farle funzionare contro ogni divieto, stabilire il collegamento sul corpo senza organi, e vigilare contro la peste nera che lo asserraglia e lo minaccia da ogni parte.

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Note:

[1] Ci sembra impossibile, in questa introduzione, articolare il gioco complesso di appartenenza e di esclusività delle tre funzioni discorsive. D’altra parte, per quanto riguarda l’Antiedipo, di cui non è uscito sinora che il primo volume, non abbiamo voluto qui indicare se non qualche linea di lettura preferenziale, senza escluderne altre e senza pretendere soprattutto di esaurire la ricchezza veramente insolita di questo libro. Abbiamo infine cercato di implicare, in questa introduzione, due libri che, a monte e a valle, segnano una sorta di linea d’orizzonte dell’Antiedipo; ci riferiamo agli Scritti di Lacan e allo Psicanalismo di R. Castel, pubblicati recentemente presso l’editore Einaudi, cui occorrerebbe aggiungere, in un’altra deriva, Surveiller et punir di M. Foucault (Paris 1975).

[2] Già qui, in questa funzione di verità, l’allusione a Lacan è esplicita. Questa funzione attraversa tutti gli Scritti, di cui sembra essere la destinazione profonda, dal seminario sulla Lettera rubata fino alla lezione sulla Scienza e la verità. Destinazione profonda: abbiamo usato deliberatamente questa designazione postale suggerita da uno scritto recente di J. Derrida a proposito del seminario di Lacan sulla Lettera rubata, Le facteur [in senso appunto più postale che matematico) de vérité (in «Poétique», n. 21, 1975). Curiosamente, ma non a torto secondo noi, Derrida, in nome delle ragioni testuali, taccia come «fallogocentrica» questa funzione di verità in Lacan, per via della lettera, come supporto dell’indivisibilità atomistique del significante (di contro a un soggetto sempre diviso, invece). Più semplicemente: per Lacan la lettera arriva sempre, è destinata ad arrivare, per Derrida può perdersi per strada, nelle disseminazioni testuali della scrittura: significante polverizzato sulla superficie continua del testo.

[3] Sull’operazione edipica come una certa articolazione tra desiderio, legge e castrazione, si veda per esempio l’enunciato di Lacan: «E dunque piuttosto l’assunzione della castrazione a creare la mancanza da cui si istituisce il desiderio. Il desiderio è desiderio del desiderio, desiderio dell’Altro, abbiamo detto, ovverosia sottoposto alla Legge» (Ecrits, p. 852). Come vulgata lacaniana sul desiderio, cfr. AULAGNIER e altri, Le désir et la perversion, Paris 1967, e, tra l’altro, F. DOLTO, Au jeu du désir les dés sont pipés et les cartes truquées, in «Bulletin de la Société française de philosophie », ove si può leggere questa definizione della castrazione che ha, se non altro, il pregio di una relativa chiarezza: «In psicanalisi questo termine significa un’interdizione del desiderio nelle modalità d’ottenimento del piacere, interdizione a effetto armonizzante e promozionale (promotionnant) tanto del desiderante così integrato alla legge che lo umanizza che del desiderio cui questa interdizione apre la via a maggiori godimenti». Come collegamento infine tra l’ortodossia lacaniana e l’Antiedipo, si veda lo scritto di S. Leclaire, in Sexualité humaine (La réalité du désir, Paris 1970) che introduce la nozione di desiderio come campo di pure singolarità, subito linearizzate tuttavia dal Fallo come significante dell’assenza di legami e come distributore della mancanza. Si troverà comunque nell’Antiedipo stesso una discussione sulle posizioni di Leclaire.

[4] Sulla distinzione tra Edipo simbolico e Edipo immaginario si veda soprattutto il paragrafo La sintesi disgiuntiva di registrazione.

[5] Sulla «casella vuota» come condizione di possibilità per il funzionamento della struttura, cfr. G. DELEUZE, A quoi reconnaît-on le structuralisme?, in F. CHATELET, Histoire de la philosophie. Le xxe siècle, Paris 1973. L’articolo di Deleuze, che sembra essere stato scritto nel 1967, è a nostro parere una tra le più rigorose, ed esemplari, definizioni dei caratteri costitutivi dello strutturalismo sinora tentate. La lettura di questo articolo ci sembra poi essenziale per misurare la distanza tra il concetto di struttura e quello di macchina introdotto dall’Antiedipo (che è dunque, e soprattutto, un antistrutturalismo).

[6] L’«inventore» della macchina desiderante è comunque Guattari che in un articolo del 1969, Machine et structure (ora in Psychanalyse et transversalité, Paris 1972) scriveva tra l’altro: «L’ordine strutturale del gruppo, quello della coscienza, della comunicazione, è cosi accerchiato ovunque dai sistemi di macchine su cui non avrà mai presa, che si tratti degli oggetti a minuscola, come macchina inconscia del desiderio, o dei fenomeni di rottura ricondotti alle macchine di vari generi. L’essenza della macchina, come fatto di rottura, come fondazione atopica di questo ordine del generale, sfocia nell’impossibilità di poter distinguere a termine il soggetto inconscio del desiderio dall’ordine stesso della macchina» (p. 246). Si vedrà, nell’intervista accordata da Deleuze a Guattari all’«Arc» (1972, numero consacrato a Deleuze, di cui riportiamo uno stralcio più avanti) in che senso la macchina di Guattari fosse ancora troppo «strutturale» e l’importanza dunque dell’apporto di Deleuze.

[7] Per quanto il De rerum natura, con il suo atomismo, la sua critica della superstizione, la sua voluptas cosmica possa singolarmente apparire come una sorta di Antiedipo dell’antichità; se non altro l’Antiedipo potrebbe riproporne una lettura inedita: che cosa sono infatti, per esempio, quei «varios conexus, pondera, plagas | concursus, motus, per quae res quaeque geruntur» (I 633-34) se non una sorta di molteplicità, parzialità, tagli e singolarità?

[8] Secondo una nostra formulazione (cfr. La scena, in Storia d’Italia, vol. I, Torino 1972) cui ci permettiamo di rinviare.

[9] GUATTARI, in «La quinzaine» 30 giugno 1972.

[10] A. GREEN, A quoi ça sert, in «Le monde», 28 aprile 1972. Due pagine dell’inserto letterario di questo numero sono consacrate all’Antiedipo.

[11] In «La quinzaine», 30 giugno 1972. Abbiamo cercato qui di riassumere alcune reazioni canoniche suscitate dall’Antiedipo. Vanno inoltre segnalati il n. 306 di «Critique», Paris 1972, con articoli di J.-F. LYOTARD, Capitalisme énergumène e R. GIRARD, Système du délire e il n. 12 di «Esprit», Paris 1972, dedicato a La morte di Edipo e la psicanalisi, tra cui soprattutto notevole l’articolo di J. DONZELOT, Une anti-sociologie.

[12] Secondo le analisi di M. Foucault nelle lezioni del Collège de France. Su questa pratica di lotta e questo stile di militantismo come insieme risposte locali, di interventi puntuali, cfr. Les intellectuels et le ponvoir: entretien M. Foucault – G. Deleuze, in «L’Arc» cit., pp. 3-10.

[13] Cfr. su questo, oltre naturalmente alle analisi nell’Antiedipo stesso, l’articolo di France Berçu, Sed perseverare diabolicum (in «L’Arc» cit.) con cui concordiamo solo parzialmente: non si tratta tanto, infatti, di occupare la casella, ma di installarvi la macchina per far saltare la struttura, e il simbolico; ma in Francia ci vuole un certo coraggio, oggi, per andare contro Lacan.

[14] Nell’introduzione a L. WOLFSON, Le Schizo et les langues, Paris 1970, Deleuze aveva già abbozzato i lineamenti di una «grammatica generale psicotica» in questi termini: «Ed è questa l’avventura del linguaggio psicotico. Il carattere fondamentale di questo linguaggio non è di trattare le parole come se fossero cose, ma da una parte di embricare le cose nelle parole (secondo la legge pezzi su pezzi dell’oggetto parziale o della parola scoppiata), e di insufflare d’altra parte il sapere nelle parole (secondo la legge flussi nei flussi dell’oggetto completo o della parola indecomponibile). La sessualità, cioè Eros, è questo sapere insufflato, questa cosa inscatolata. È come dire che la psicosi e il suo linguaggio sono inseparabili dal “procedimento linguistico”, da un procedimento linguistico. È il problema del procedimento che, nella psicosi, ha sostituito quello della significazione e della rimozione. Come Teseo, si ritrova solo colui che si ritrova nel procedimento: qui si giocano malattia e guarigione. La guarigione dello psicotico non è prendere coscienza, ma vivere nelle parole la storia d’amore ch’esse embricano e insufflano, Eros singolare. Non tanto designare qualcosa, né significare un sapere, ma vivere insufflato e inscatolato, nel procedimento stesso. Allora il procedimento cessa di riunire e di distribuire le figure della morte e libera l’Eros, la storia sessuale che nascondeva nelle sue leggi» (p. 23).

[15] Questo rapporto di filiazione e di alleanza da cui viene fuori l’Antiedipo è troppo complesso perché si possa, qui, andar oltre la sola posizione del problema: da sempre siamo stati infatti abituati a pensare la genealogia dei testi nella forma familiaristica della filiazione, con riproduzione semplice quando un testo non fa che iscriversi in una famiglia preesistente, riproduzione allargata quando aggiunge nuovi rami all’albero di cui fa parte; endogamia estesa del nostro modo di pensare la generazione testuale, dal grande modello delle filologia classica ai modelli più raffinati (genotesto/fenotesto) delle poetiche contemporanee. L’Antiedipo, allora, rompe con l’organicismo del modello filiativo e introduce l’esogamia, l’alleanza e il debito (e le molteplici implicazioni di questo «spostamento» ci sembrano veramente rilevanti, e degne di un’analisi più sostenuta). Basti dire per ora che nel suo stesso engendrement l’Antiedipo è più che un libro scritto a quattro mani, come si dice, ma una vera e propria macchina in cui si incrociano e si tagliano, in un rapporto di filiazione diretta e di alleanza laterale, i flussi-Deleuze e i flussi-Guattari, libro fatto di pezzi, mattoni, parzialità (donde l’impressione spesso di ripetizioni, di ridondanze, di discontinuità). Per di più, il rapporto di alleanza e di debito rende inefficace ogni ricostruzione genealogica e interrompe forse proprio qui la tradizione del libro totale, finito, omogeneo, uniforme e lineare. Se dunque la filiazione più l’alleanza producono la macchina, è forse indebito dire che l’Antiedipo, libro macchinico, è il libro dell’avvenire? Comunque, per la pura serie filiativa, ricordiamo che Deleuze è autore tra l’altro di monografie su Nietzsche (1962), Kant (1963), Proust (1964), sul bergsonismo (1966), Sacher-Masoch (1967), Spinoza (1969), e soprattutto di Logique du sens e Différence et répétition (1969) nel ramo diretto dell’Antiedipo (su cui cfr. lo straordinario articolo di M. FOUCAULT, Theatrum philosophicum, in «Critique», 1970, che non esitava a dire: «Una folgorazione si è prodotta che porterà il nome di Deleuze: un nuovo pensiero è possibile; il pensiero, di nuovo, è possibile»). Quanto a Guattari, alcuni suoi articoli, anteriori all’Antiedipo, sono stati raccolti in Psychanalyse et transversalilé cit., ora in traduzione italiana.

[16] Intervista all’«Arc» cit., forse la miglior introduzione all’Antiedipo.

[17] Trad. it. Torino 1975, pp. 152-91.

[18] KAFKA, Nella colonia penale, in I racconti di Kafka, Milano 1965, pp. 215-16.

[19] Cfr. 28 novembre 1947 — Comment se faire un corps sans organes, in «Minuit», n. 10, 1974, ove Deleuze e Guattari definiscono il «programma». Sul prolungamento dell’Antiedipo si vedano inoltre: Bilan-programme pour machines désirantes, in «Minuit», n. 2, 1973; 14 mai 1914 — Un seul Oti plusieurs loups?, in «Minuit», n. 5, 1973: sull’Uomo dai lupi delle Cinque psicanalisi di Freud e Le nouvel arpenteure: intensités et blocs d’enfance dans le «Château», in «Critique», n. 318, 1973: esempio di critica «macchinica» di un testo, ora approfondita in Kafka, pour une littérature mineure, Paris 1975.

[20] Per il «programma» cfr. gli scritti indicati nella nota a p. XXX [ndr. qui nota n. 19].

[21] Il tentativo di J.-F. Lyotard (Des dispositifs pulsionnels, Paris 1973, e Economie libidinale, Paris 1974) e dunque quello di pensare il desiderio liberandolo anche da queste ultime esteriorità residue.

[22] I testi di Lawrence e di Miller cui alludiamo sono citati nell’Antiedipo. Per Wittgenstein, cfr. l’edizione italiana delle Lezioni, Milano 1967.

[23] Finché non si conoscerà la storia delle «trame» della famiglia psicanalitica, che sembra essere il vero e proprio rimosso della psicanalisi stessa, sarà difficile avventurarsi in grandi disegni teorici ed epistemologici: storia in ultima istanza «politica», storia di rapporti e strategie di potere, e non la storia edipica di Totem e tabù (con Freud che fa funzione di padre, con i discepoli che sono i figli gelosi e rivali, ecc. ecc.). Già i carteggi, i protocolli delle sedute del mercoledì, i diari di alcuni pazienti di Freud cominciano a disegnare questa storia, che mostra ormai il suo risvolto politico in libri come quello di P. ROAZEN, Brother animal, New York 1969 (la storia di Freud e Tausk) e Reich speaks of Freud (1967) per non citare che questi.

[24] Su queste tecnologie cfr. CASTEL, Lo psicanalismo cit. e FOUCAULT, Surveiller et punir cit. Si deve a Foucault l’idea che questo potere funziona meno sul modello segregativo della lebbra che su quello contagioso della peste: meno la repressione che l’infiltrazione.

[25] È la criminalità di cui parla Georget, un allievo di Pinel, nell’Examen des procès criminels de Léger, Lecouffe… Per tutta questa questione si veda, Moi, Pierre Rivière, Paris 1973, opera collettiva presentata da M. Foucault.

[26] È comunque un magistrato, a nostra conoscenza, il primo ad aver scorto in questa criminalità «mostruosa» la presenza del desiderio allo stato puro, come desiderio di uccidere: «Non appena si ha un desiderio, si ha un’idea di godimento [jouissance]; l’interesse si riconduce dunque al godimento. Chi uccide per avere danaro, lo fa per soddisfare bisogni o passioni: il danaro è il mezzo dei suoi godimenti. Chi uccide per il piacere di uccidere, si soddisfa immediatamente attraverso l’azione stessa; il godimento è diretto» (E. REGNAULT, Du degré de compétence des médecins dans les questions judiciaires, Paris 1828).

[27] Svevo sembra aver detto, se non erriamo, a Joyce qualcosa di questo genere: «Che ne facciamo della psicanalisi, dal momento che abbiamo la confessione».