Vanità dell’Homo Faber. Derive della malinconia

Francesco Hayez, Malinconia, 1841, olio su tela, Pinacoteca di Brera, Milano

Francesco Hayez, Malinconia, 1841, olio su tela, Pinacoteca di Brera, Milano

Tutta la vita del corpo è un fiume che scorre, tutta la vita della sua mente sogno e delirio; la sua esistenza è una guerra e un soggiorno in terra straniera; la fama che egli lascia, dimenticanza.
Marco Aurelio

Lungo gli itinerari di una genealogia del soggetto moderno, ho incontrato, da qualche tempo, la malinconia: una costellazione che realizza una sorprendente distanza dai meccanismi del potere, che produce un sapere trasgressivo ed enigmatico, a volte privo di parola, quasi sempre capace di disorientare i dispositivi destinati a controllarlo.

La malinconia, dunque: voglio assumerla come cifra del rifiuto, come emblema di una perduta prossimità all’energia e alla forza del progettare, alla capacità di programmare il tempo, alle decisioni che ci spingono, fuori da noi stessi, nel teatro del mondo.

Ed ancora: malinconia come nome assegnato, in epoche differenti, alla distanza incolmabile tra il soggetto che desidera e gli oggetti del suo desiderare; nome che condensa, con singolare potenza aggregativa, le esperienze distinte. ma sovente intrecciate, di una privazione e di una lacerazione: la privazione dell’immagine di Dio – la «destruction of God’s image», di cui parlava Robert Burton 1 – ed insieme la lacerazione che frantuma la compattezza del nostro corpo vivente, del nostro “microcosmo” che vive e che pensa, contro il quale le stelle, i cieli e gli elementi sono armati (“stars, beavens, elements… are armed” 2); tutti questi elementi, tutte queste creature di Dio, diceva Burton, sono ora inclini ad offenderci (“are now ready to offend us” 3): una frattura insanabile nell’armonia del cosmo, in parte ereditata dal mondo antico, viene rielaborata e reinventata dalla cultura rinascimentale. All’alba della nostra modernità si riafferma dunque un divorzio tragico tra l’uomo e la natura.

La scienza moderna costruirà la propria signoria sul mondo a partire da questa cesura fondamentale: talora la metterà in scena, come fece Pascal, scontando la presenza inconciliabile di due contrapposti regimi di verità (l’ordine dell’intelletto, appunto, contrapposto all’ordine del cuore); talora arriverà ad occultare o a dimenticare le componenti tragiche di questa rottura, sotto il segno di una metafisica della separazione: condizione di possibilità e configurazione essenziale della nuova soggettività borghese. 4

L’intervento divino, risolto e spostato ab imis nell’atto creatore, aprirà lo spazio ad una ragione mondana sempre più potente e più autonoma, capace di funzionare utilizzando la fede come cauzione e trovando nel rapporto con la trascendenza la premessa indispensabile del proprio agire.

Ma la malinconia lavora con costanza, spesso sotterraneamente, contro la linearità progressiva di questo progetto: ne mostra le crepe, l’inutilità, i vuoti; è un rovescio latente, quasi nascosto, della ragione classica: una sorta di negativo senza impiego – potremmo dire con Georges Bataille – che ostacola radicalmente, mostrandone la dimensione effimera, l’ascesa trionfale dell’homo faber.

La tragedia della perduta armonia con il cosmo – la tragedia della lontananza divina, approfondita e accentuata dalla sorda opacità della materia corporea – lascia nella malinconia il suo segno ineludibile; trova, nella patologia atrabiliare, un residuo minaccioso e resistente. La scienza contemporanea, in alcuni suoi momenti di elevata densità teorica, reinterpreta questa problematica cercando di fornire una risposta ad alcuni interrogativi fondamentali: come ricomporre questa lacerazione? Come riproporre l’antica alleanza tra l’uomo e la natura senza ricadere nell’animismo? Come oltrepassare la dimensione del tragico, costitutiva della nostra modernità? Come reinvestire il soggetto di una nuova energia progettatrice, fugando le opposizioni irriducibili, rendendo impossibile l’estraneità, la tristezza, il rifiuto?

Negli anni ’80 del secolo appena trascorso, l’umanesimo di Prigogine e della sua “nouvelle alliance” 5 – come avevo già cercato di dimostrare altrove – celava, forse a sua stessa insaputa, un volto più segreto e una vocazione meno appariscente. Dietro i panni curiali di una riflessione scientifico-filosofica sulla natura del vivente – dove la termodinamica dei sistemi irreversibili poteva finemente coniugarsi con la filosofia rizomatica e libertaria di Gilles Deleuze – cominciava ad emergere quella che l’ultimo Foucault definì efficacemente una biopolitica: in ultima analisi, un nuovo progetto di dominio del sapere scientifico sulla vita degli uomini. La biofisica contemporanea, in questa prospettiva, appartiene a pieno titolo ad una biopolitica: ad una “bioepoca” 6 nella quale life sciences e discipline fisico-matematiche si propongono di spiegare la continuità tra la materia e la vita, includendo nel proprio orizzonte conoscitivo l’evento, l’aleatorio, l’irreversibile, la fluttuazione, le connessioni tra le strutture e l’ambiente: cercando così di sottrarre definitivamente alla metafisica e alla riflessione filosofica il pensiero del tempo e della morte.

Entro tale orizzonte, il tragico deve essere definitivamente cancellato: l’ottimismo progettante e dispotico dell’homo faber dovrà imporre le proprie ragioni, senza sedimentare residui ingombranti e pericolosi, senza lasciar spazio alla passività, alla malinconia, al rifiuto: a quel rifiuto, a quell’estraneità al potere che il temperamento saturnino, anche se in forme differenti, ha molto spesso manifestato in maniera emblematica. Questa estraneità appartiene al nostro presente e al suo spessore storico: al presente di chi scrive e di chi può darle parola; ma anche al presente di chi non le può, o non le vuole, dare parola. La malinconia è ridiventata un fenomeno collettivo, un male del secolo, come lo è stata all’alba della nostra modernità, anche se con caratteristiche, movenze e strategie profondamente diverse.

È una sorta di peste emozionale che la medicina e le scienze psichiche hanno cercato, invano, di patologizzare e di classificare, di confiscare e di assoggettare. La storia critica di questa peste dell’anima, di cui qui si presentano alcuni incerti frammenti, nutre forse la pretesa di restituire un respiro esistenziale al lavoro filologico e alla passione erudita.

La tristezza degli dei

Già nella mitologia indoeuropea s’impone la figura della divinità triste: triste di fronte ad un destino cieco che la sovrasta; triste di fronte all’inevitabile crepuscolo che l’attende. Il dio, a seguito di un affrontamento con le forze del male, è destinato a morire. Era, Odino e Rudra – “les dieux sombres” del pantheon greco, scandinavo e indiano – sono accomunati da questa singolare concomitanza della tristezza e della morte inevitabile; una battaglia escatologica contro le forze del male li attende inesorabilmente. La resurrezione del dio è pensabile solo sullo sfondo di questo destino tragico.

Se dal mito passiamo all’epopea, ritroviamo la stessa connessione tra lutto e positività: Eracle, l’eroe guerriero figlio di Zeus, potrà migrare dal mondo degli uomini al mondo degli dei, come ci informa Diodoro Siculo, solo dopo aver attraversato l’esperienza della morte.

Il primo peccato dell’eroe, seguito da uno stato di depressione e di abbattimento, viene punito da Era: Eracle cade in preda ad una follia furiosa ed omicida, di cui fanno le spese i figli, trafitti dalle sue frecce. L’incertezza e il dubbio sulla necessita di obbedire a Zeus sono stati dunque puniti con la perdita della salute mentale.

Violando, in un momento successivo, il codice dell’onore guerriero, Eracle commette il secondo peccato, che verrà punito con la perdita della salute fisica.

Il terzo peccato 7 – un peccato di adulterio, un “adulterio scandaloso”, e di concupiscenza sessuale – verrà punito infine con “la morte volontaria”: l’eroe, con un grande atto di coraggio, sceglierà il suicidio – il “suicidio coraggioso”, come lo chiama Dumézil – portando a compimento un destino tragico e preparando così la sua immissione nel mondo degli dei. 8

In Problemata (XXX, I) – il famoso testo di scuola aristotelica 9 che realizzò una sintesi tra la teoria medica della malinconia e la concezione platonica del furore – Eracle viene citato assieme ad altri eroi tragici, come Aiace e Bellerofonte, che l’autore considera dei malinconici. Leggiamo comunque con pazienza l’esordio di questo testo, il cui messaggio venne integralmente ripreso e rielaborato dai neoplatonici fiorentini di fine ‘400, e in particolar modo da Marsilio Ficino 10:

“Perché tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica o politica, artistica o letteraria, hanno un temperamento «melanconico» – ovvero atrabiliare – alcuni a tal punto da essere persino affetti dagli stati patologici che ne derivano? Esemplare, in tal senso, fra le storie eroiche, è quella di Eracle. La prova della sua appartenenza a questa natura – per cui gli antichi derivarono da lui il nome di «malattia sacra» dato ai disturbi degli epilettici – è fornita dall’episodio in cui diede in escandescenze massacrando i figli, come pure dall’insorgere delle piaghe prima della sua morte. Questo infatti capita a molti in seguito all’affezione a strabiliare. Simili, ancora, sono le storie di Aiace e di Bellerofonte: il primo che perse completamente la ragione, e l’altro che inseguiva le solitudini, di cui Omero disse:

Ma dopo che fu divenuto odioso agli dei, / solo vagava per la piana di Alea, / rodendosi l’anima, evitando il passo degli uomini.

La storia di Eracle è dunque esemplare. Proprio in questo testo “aristotelico”, di incerta attribuzione – nel quale si registra un deciso passaggio da una concezione mitica e trascendente della follia ad un punto di vista che la considera realtà immanente – l’autore sente il bisogno di collegarsi alla mitologia e al mondo degli dei. La lettura positiva della malinconia, che già nel mondo antico si affianca ad una interpretazione in chiave patologica, affonda le sue radici nel rapporto con il divino e con la trascendenza. Tutti i malinconici sono uomini eccezionali, non per malattia ma per natura: questa conclusione immanentistica del testo aristotelico, che distingue la malinconia naturale dalla malinconia patologica, è resa possibile, senza alcun dubbio, dalla distinzione, ribadita già da Platone nel Fedro, tra furore divino e furore inteso come malattia. Ma la traccia più tangibile di questa matrice trascendente della malinconia naturale la si ritrova nel rinvio ad Eracle e al mondo degli eroi: una sorta di anello di congiunzione tra il discorso scientifico dei Problemata e il racconto mitico, che nel testo appena citato assume i contorni di una verità storica tramandata. La grandezza di Eracle, la tragicità di Aiace, la solitudine di Bellerofonte: tre casi di malinconia che rimangono incomprensibili senza un rimando costitutivo alla trascendenza. La mente di Aiace è sconvolta da Atena; il tormento di Bellerofonte è l’esito dell’ostilità degli dei; la depressione e il suicidio di Eracle rinviano addirittura, come ha fatto osservare Georges Dumézil, a un’esperienza del limite, che attraversa e lacera l’olimpo greco: Zeus, signore dei destini, sperimenta, in una situazione cruciale, i limiti della sua potenza.11 Il tragico dell’esperienza moderna, talvolta percepibile sotto il velo dei discorsi sulla malinconia – discorsi ripetuti e ripetitivi, connotati da una strana e tenace persistenza – trova le sue premesse nell’inaccessibilità divina, che il mondo antico ha spesso vissuto con angoscia e terrore. Quando Burton parla della distruzione dell’immagine di Dio come fondamento dello stato malinconico, allude proprio a questa esperienza della distanza e dell’assenza: allude a quella malattia dell’assoluto, di cui si è occupato Guido Ceronetti, in pagine memorabili, commentando Il libro del profeta Isaia.12 L’esperienza dell’assoluto come esperienza di separazione non è pensabile fuori dalla dimensione del tragico, che attraversa il linguaggio del mito: una dimensione che il positivismo degli storici dediti allo studio della malinconia ha avuto il torto di trascurare. In ogni caso, pur mettendo tra parentesi questa problematica, tanto importante quanto poco studiata, si deve comunque ribadire che i moderni ereditano dal mondo antico una concezione della malinconia non interamente soggiogata dalla confisca medica o dall’ipoteca patologica: la stessa dottrina dei quattro umori 13, infatti, che di questa ipoteca rappresenta il luogo decisivo, presuppone l’esistenza di uno stato di salute del malinconico, distinguendo così la malattia vera e propria dal temperamento. Questa declinazione psicologistica della dottrina degli umori, presente soprattutto nella tarda antichità, è resa possibile proprio da quella percezione positiva della “costituzione” malinconica, che il testo già citato dei Problemata aveva svincolato dall’ipoteca patologica.

In tale prospettiva, l’individuo eccezionale – il figlio degli dei, l’eroe, il filosofo, l’artista, l’uomo di governo – è partecipe di una norma, anche se il suo comportamento e la sua tipologia lo collocano al di fuori ed al di sopra della media. Normalità e medietà, ancora, non coincidono. L’eliminazione di questo scarto, soprattutto a partire dal tardo illuminismo, rappresenterà una posta in gioco fondamentale di saperi a pretesa di verità come la medicina e la psichiatria, coadiuvate, in questo cammino, da discipline che hanno assegnato alla nozione di uomo medio uno statuto epistemologico – implicito o esplicito – assolutamente privilegiato: si pensi, ad esempio, alla statistica, all’economia politica, alla pedagogia.

La storia della malinconia appartiene dunque a questo paesaggio movimentato e incerto, nel quale la confisca medica dovrà sempre misurarsi con un’alterità spesso complice, spesso nemica, talvolta muta e impenetrabile.

L’armonia lacerata

Agli albori dell’età moderna, la riflessione medica, etica e filosofica sulla malinconia conosce uno dei suoi luoghi privilegiati di irradiazione nei tre libri ficiniani del De Vita (1489)14, trovando poi, nella grande summa barocca di Burton (1621), il suo coronamento enciclopedico. Con la monografia di Marsilio Ficino la dottrina del genio malinconico riacquista nuovo vigore e si diffonde in tutta Europa, esercitando un notevole influsso anche sulla trattatistica “psicologica” inglese del tardo Rinascimento, nella quale la riflessione sulla pazzia occupa uno spazio di grande rilievo. Se tuttavia in Ficino il tema dell’eccellenza del malinconico, di schietta impronta aristotelica, appare dominante, negli autori inglesi prevale il registro della riprovazione e della condanna morale: si pensi a Robert Burton, ma anche all’importante trattato di Timothy Brigh 15; gli ultimi due capitoli del suo Treatise of Melancholy sono dedicati alle terapie mediche e “farmacologiche” della malinconia, concepite come necessario complemento delle cure morali, destinate alla “consolazione della coscienza afflitta”16, oltre che al raggiungimento di uno stile di vita e di un regime dietetico capaci di realizzare un felice ed equilibrato rapporto tra il corpo e l’anima.17

La condanna morale della malinconia domina comunque il tardo Rinascimento, sia nell’ambito della Riforma che in quello della Controriforma: tra tanti testi di parte cattolica, vale forse la pena ricordare il settimo capitolo del Libro delle Fondazioni, di Teresa d’Avila, nel quale, come recita il titolo, si spiega “come bisogna regolarsi con le persone afflitte da malinconia”.18 Contro una “infermità” così temibile – “questo male è così astuto da fare il morto allorché gli conviene” – oltre a “somministrare qualche medicina che lenisca l’umore”, è necessario ricorrere alla “paura”: qualora “non bastassero le parole si ricorra ai castighi; se non bastassero quelli piccoli ci si valga dei grandi”. La malinconia non equivale a una “pazzia completa”: non è quindi “tale da togliere la responsabilità della colpa”. Questa straordinaria annotazione implica una ben precisa distinzione tra follia parziale e follia totale: una distinzione problematica, che occuperà una posizione strategica nell’alienistica e nella psichiatria forense del secolo XIX. Emerge in ogni caso con grande chiarezza, qui, la preoccupazione di soggiogare la potenza positiva dell’umore malinconico, tanto celebrata dal Ficino. “Nei nostri monasteri e in tutte le case religiose – afferma infatti Teresa d’Avila – non si dovrebbe mai pronunziare la parola malinconia, che sembra avere implicita l’idea di libertà, ma darle il nome di grave malattia, e quanto grave!, e curarla come tale». La funzione disciplinare dello sguardo medico, visto come coronamento della direzione di coscienza, non potrebbe essere più esplicita. Da Ficino a Burton si verifica così uno slittamento progressivo di posizioni: dalla concezione positiva della malinconia alla sua condanna, morale e religiosa. La maturazione di questo passaggio restituisce nuova vitalità e nuova pregnanza all’ipoteca patologica, preparando il terreno – (Cfr. J. Starobinski, La leçon d’anatomie, Prefazione a: R. Burton, Anatomie de la mélancolie, José Corti, Paris 2000, pp. VII-XXI) – ad un vasto movimento di confisca medica, che attraversa per intero tutto l’arco dell’età moderna. Questi elementi sono comunque gia presenti, in nuce, nella monografia di Ficino 19: fusi però, come si diceva, al registro dominante di una dottrina del genio malinconico 20, presentata nei suoi risvolti filosofici e nelle sue implicazioni metafisiche. La rottura dell’analogia tra microcosmo e macrocosmo assume infatti nel De Vita una portata strategica: si tratta di una lacerazione che attraversa l’armonia del cosmo e al tempo stesso l’unità impossibile del microcosmo umano; essa lascia il suo segno indelebile nello stato malinconico: terreno favorevole al furore creativo, ma anche morbo, disagio, anomalia di un temperamento atrabiliare, che registra l’irriducibile sordità della materia corporea al dettato dell’anima: ai suoi imperativi morali e politici, alla sua missione divina, al suo destino trascendente. Per comprendere pienamente la ricchezza e la varietà della riflessione rinascimentale sul temperamento atrabiliare e sulle sue patologie, è necessario diffidare degli schemi troppo semplici e lineari: la sintesi operata da Ficino tra l’approccio medico, di matrice ippocratica, e quello filosofico, di matrice platonico-aristotelica, tiene insieme due momenti che il pensiero della rinascenza non ha mai realmente disgiunto; anche quando si sono imposte le esigenze di una condanna morale della malinconia, non si è mai totalmente dimenticato il lascito aristotelico dei Problemata. Il Rinascimento maturo, si diceva, è l’età della condanna morale: l’età di Teresa d’Avila, dei Bright, dei Burton; l’età che prepara il terreno alla medicalizzazione dell’esperienza malinconica.

Un best-seller dell’epoca, scritto nel 1597 da André Du Laurens, medico di Enrico IV, rappresenta una conferma autorevole della tendenza al sincretismo enciclopedico, che culminerà nel trattato barocco di Robert Burton: anche nel Discours di Du Laurens 21, dove predomina l’ottica del medico, c’è un esplicito riferimento ai Problemata e a un particolare tipo di malinconia, che “rende l’homo ingenioso” e “lo fa eccellente sopra tutti l’altri”.22 Se d’altronde ritorniamo al primo Rinascimento e all’età di Marsilio Ficino, scopriamo la stessa commistione di momenti eterogenei e apparentemente contrapposti: Sebastiano Brandt, autore del famosissimo Narrenschiff – di poco posteriore al De Vita – pur accostandosi alla follia con la mentalità classificatoria del moralista, dedica il primo canto del suo poema ai libri ed ai sapienti; lo stesso Erasmo da Rotterdam, nell’Elogio della follia, riserva un grande spazio ai dotti ed agli uomini di scienza.23

Lo aveva gia osservato Michel Foucault: l’esperienza cosmica, tragica e metafisica della follia si mescola ad una coscienza critica, ironica e morale. Se è vero che la seconda, a grandi linee, succede cronologicamente alla prima, è anche vero che nel mondo rinascimentale i due registri spesso si mescolano e si sovrappongono. Tuttavia, a confronto con l’universo variegato della follia, la malinconia esibisce delle connotazioni peculiari, che hanno reso più difficile l’occultamento delle sue componenti cosmiche, tragiche e metafisiche: nozione corporea, prima che morale, essa mette in gioco, con la sua stessa presenza e soprattutto con i suoi eccessi, l’ordine e l’armonia del cosmo; l’eccesso di atra bile turba infatti l’equilibrio di un vasto sistema analogico, a cui i quattro umori appartengono organicamente. Il sangue, la bile gialla, la bile nera, il flemma – entro una trama di corrispondenze che il Rinascimento sviluppa a partire dall’eredità ippocratica – rimandano necessariamente a realtà analoghe e costituzionalmente affini: ai quattro elementi (aria, fuoco, terra, acqua), alle quattro qualità, variamente combinate (caldo-umido, caldo-secco, freddo-secco, freddo-umido), ai quattro venti (Zefiro, Euro caldo e asciutto, Borea, Austro), alle quattro fasi del giorno (alba, giorno, crepuscolo, notte), alle quattro stagioni (primavera, estate, autunno, inverno), alle quattro età della vita (gioventù, maturità virile, età avanzata, vecchiaia), a quattro pianeti (Giove, Marte, Saturno, Luna) ed ai quattro fiumi dell’Ade (Acheronte, Flegetonte, Stige, Cocito).

Questa complessa architettura analogica mostra le sue smagliature più vistose proprio in quello che è stato definito, con efficace metafora aristotelica, il labirinto sublunare: un labirinto nel quale Robert Burton vede solo corruttibilità ed assenza d’ordine, accentuate, tra l’altro, anche dalle “opinioni” di Copernico, Digges e Keplero, che considerano la terra non più il centro immobile dell’universo, ma un pianeta in movimento (“the earth is a planet, moves” ecc.). Se queste opinioni fossero vere, suggerisce Burton, confermerebbero la precarietà della terra e dell’uomo che vi abita. La bile nera, quando eccede, si corrompe o si mescola irregolarmente ad altri umori, non fa che sottolineare ed approfondire l’instabilità che Burton ha attribuito all’intero mondo “sublunare”: essa svela l’anomalia entro l’ordine, la disarmonia e lo squilibrio dentro il gioco delle corrispondenze, l’inadeguatezza della materia corporea rispetto alla missione divina dell’anima.24

La bontà divina, nel neoplatonismo cristiano di Ficino, si rappresenta come bellezza, che irradia luce ed amore. La risposta a questa irradiazione di amore, a questo diffondersi della luce, è l’appetitus, il desiderium di Dio: un’azione di ritorno, mossa dalla nostalgia del ricongiungimento con la totalità dell’essere. Al moto discendente della bellezza, da Dio al creato, corrisponde un moto ascendente dell’eros, dal creato a Dio. Questo movimento di ascesa è ciò che Ficino chiama voluptas. Ma l’eros cristiano di Ficino è un misto di pienezza e di privazione, di attrazione e di povertà. La chiusura del circolo amoroso cosmico – pur restando un luogo strategico di tutto il programma filosofico – trova un limite ontologico nei vincoli della materialità corporea. La riflessione sulla malinconia si situa nell’ambito di tale imperfezione costitutiva, che aprì lo spazio alla critica di Pico della Mirandola.25

Proprio qui, all’altezza di questo intreccio, Ficino opera la sua sintesi. Non sarà inutile, perciò, seguirlo più da vicino.

Lo squilibrio tra l’anima e il corpo assume, come si è visto, un ruolo decisivo: provoca, soprattutto nei “literati”, negli intellettuali, la malinconia. Nel De Vita vengono evidenziate tre cause distinte, responsabili di questo fenomeno:
1. Una causa celeste, legata al cattivo influsso dei pianeti, Mercurio e Saturno, portatori di secchezza e di frigidità.
2. Una causa naturale, legata all’influsso della “terra”, a cui “è questo morbo della melancolia molto simile”. Infatti, per conseguire le scienze, l’uomo deve raccogliersi in se stesso, ritrarre il suo animo “da le cose esteriori a le interiori, a punto come da una certa circonferenza al centro […] Il quale ritirarsi dalla circonferenza al centro, e qui fermarsi, è proprio della terra”.
3. Una causa umana, legata al moto continuo della mente e del cuore, che lascia inattivi lo stomaco ed il fegato. Perciò il cibo è mal digerito e “ne nasce a forza un sangue freddo, grosso, nero”. L’ozio delle membra dissesta l’equilibrio corporeo, rende l’animo “timido” e “mesto”; il “rincrescimento” e il “tedio ne l’animo”, strutturalmente connessi alla costellazione malinconica, sono gli indicatori di una condizione di angoscia e di terrore: il terrore di quelle “tenebre interiori”, che per Ficino provocano un atteggiamento di distacco dalla vita e la perdita dell’ingegno.

La codificazione ficiniana mette dunque in evidenza, attraverso l’elen-cazione delle tre cause – celeste, naturale ed umana – tre differenti livelli di disarmonia: la disarmonia tra l’uomo e i pianeti, quella tra l’anima e un corpo malinconico, se così si può dire, apparentato con la terra, e infine quella tra l’attività troppo rapida della mente e l’inerzia morbosa delle membra. “La melancolia – afferma ancora Ficino nel primo libro del De Vita – rovina e distrugge tutto il corpo”: un corpo antagonista all’anima ed agli “elements” di cui parlava Burton; un corpo che smarrisce, in questa esperienza, la sua dimensione di totalità unitaria.

L’esperienza del “corps morcelé”, messa a tema da Lacan come angoscia primaria che precede la conquista dell’identità soggettiva, ritrova, agli albori della nostra modernità, le dimensioni e la fisionomia di un’esperienza collettiva. Questo corpo frammentato, apparentato agli elementi della terra, costituisce, forse, lo sfondo essenziale del discorso malinconico: attraversa in profondità il pensiero e l’arte di Leonardo; compare, con allucinata evidenza, nell’ordito pittorico di Bosch. “Il apparaît alors – rileva Lacan nel suo celebre scritto Le stade du miroir – sous la forme de membres disjoints et de ces organes figurés en exoscopie, qui s’ailent et s’arment pour les persécutions intestines, qu’à jamais a fixées par la peinture le visionnaire Jérôme Bosch, dans leur montée au siècle quinzième au zénith imaginaire de l’homme moderne”.26 L’armonia delle forme si risolve nell’immagine e nella meditazione sul loro perpetuo dissolversi. “L’uomo – afferma Leonardo – é detto da li antiqui mondo minore, e certo la dizione é bene collocata, imperocché si come l’omo é composto di terra, acqua, aria e foco, questo corpo della terra è il simigliante» (Codice A, f. 55 v.). I corpi sono così ricondotti alla trama delle loro componenti semplici, a cui fanno ritorno quando la “forza” non li anima e non li sorregge. Ma la “forza” stessa – questa “virtú spirituale”, questa “potenza invisibile” – pur fornendo “a essi corpi similitudine di vita”, tende a dissolversi e a disgregarsi: “vive per violenza e more per libertà”. Ed ancora: “Gran potenzia le dà desiderio di morte” (Codice Atlantico, f. 302 v. b.).27

Un desiderio di morte e di annientamento è dunque il rovescio inquietante e misterioso della macchina cosmica. Dentro la perfezione sublime delle forme si annida, oscuramente, l’esperienza tragica e apocalittica del nulla: il presupposto filosofico di questa esperienza è proprio l’irrisolvibile dicotomia tra il peso e la forza, tra la materia e l’energia, tra la vita corporea e la vita dell’anima. In Leonardo, ma anche in buona parte della cultura rinascimentale, il rapporto squilibrato tra i due momenti provoca una condizione d’angoscia e di smarrimento, che troppo spesso un’immagine oleografica dell’Umanesimo ha voluto dimenticare.

In Leonardo come in Ficino, la riflessione attorno allo spirito concepito come istanza mediatrice tra l’anima e il corpo dovrebbe essere ripensata, al di là di un’inevitabile ricerca sul peso della tradizione classica, come risposta all’insorgere dell’angoscia: un’angoscia che trova il suo fondamento ontologico nella disarmonia prestabilita tra la materialità dei corpi e l’immateriale trascendenza dell’anima. Se in Ficino lo spirito è un grado intermedio tra corporeità e immaterialità, in Leonardo, come scrive Luporini, lo spirito è, “molto più modernamente, una funzione della corporeità”. Lo spirito, sono parole di Leonardo, è “una potenzia congiunta al corpo”. E nel corpo Leonardo valorizza la centralità e la virtù spirituale dell’occhio, “finestra dell’anima”, che ci permette di vedere, cioè di guardare e di comprendere. Per questo “supremo visualizzatore” – così Martin Kemp definisce Leonardo – viene affidata proprio all’occhio e alle sue virtù spirituali la capacità di collegare due mondi irrimediabilmente contrapposti: materia e spirito, immanenza e trascendenza. Parallelamente, viene assegnata alla pittura, sottratta all’ambito delle arti meccaniche, un ruolo privilegiato, superiore a quello della poesia. All’“umanesimo della parola”, Leonardo sostituisce un umanesimo della visione, dell’immagine e della pittura, laddove la pittura diviene scientia, cioè, come ha scritto Carlo Vecce, “forma di conoscenza pura, in grado di comprendere e di rappresentare valori universali”. E ancora: “perché la pittura raggiunga il livello di scientia, essa deve saper giungere alla rappresentazione di verità universali, paradosso gnoseologico che coinvolge Leonardo, consapevole ad un certo punto dell’infinita varietà delle forme della natura, soggetta a leggi di perpetuo divenire”. L’occhio, finestra dell’anima, e la pittura, arte e “scientia” che lo utilizza e lo valorizza, rendono accessibili all’uomo sia la varietà del mondo – “l’infinita moltitudine delle cose” – sia la sua oggettività. “Ma ciò significa, conclude Leonid Batkin, che soltanto la vista porta all’universalismo. Soltanto la pittura”!

Vista e pittura rendono accessibile la complessità dinamica del mondo e della mente umana. Il “visibile”, in altri termini, può “trascrivere l’invisibile” e la teoria dell’occhio finestra dell’anima conforta l’“estremismo naturalistico” di Leonardo e la sua “idea di poter tradurre – come scrive Antonella Mancini – i moti interiori in immagini visive fedeli, come se i chiaroscuri della mente umana potessero essere trattati alla stregua degli altri fenomeni della natura”.28

Il divenire, regno dell’immanenza, viene fermato, fissato e definito dalla pittura in termini di verità universali. Qui sta il paradosso: il movimento delle cose trova nella rappresentazione immobile veicolata dalla pittura la sua cifra universale, astratta, trascendente. Tra i due poli una relazione necessaria, ma contraddittoria e sofferta, così come si rivela sempre contraddittoria e sofferta, in Leonardo, la relazione tra immanenza e trascendenza.

Possiamo anche dire che l’ottimismo dell’immanenza si alterna al pessimismo della trascendenza: posizione metafisica e risonanza psicologica sono dimensioni inseparabili. Tale connessione, che nel pensiero dell’ulti- mo Leonardo si manifesta come tensione tragica, aveva gia trovato, nel De Vita di Marsilio Ficino, la sua rappresentazione pacata ma non per questo meno profonda ed enigmatica; in quest’opera la malinconia è come il sin- tomo, l’effetto terminale di un’armonia desiderata ed impossibile: il corpo rimane comunque la sede provvisoria e la prigione dell’anima. La sua potenza negativa, determinata anche dalla cattiva influenza degli astri, produce il disagio malinconico. Solo le cure mediche e l’esercizio dell’attività razionale e contemplativa potranno elevare lo spirito a Dio, sciogliendo lo spessore opaco e viscoso degli umori atrabiliari.

“Nel corpo, afferma Ficino, l’anima dorme, sogna, delira, si ammala”.29 Il corpo è perciò più vicino alla terra e alla morte: annuncia, attraverso le patologie che provoca, una disgregazione che lo riporterà in seno a quegli elementi dai quali, in quanto insieme vivente, viene continuamente attaccato. Questo dualismo pessimista, di ascendenza neoplatonica e gnostica, che caratterizza gran parte della filosofia rinascimentale, renderà difficile, durante tutta l’età classica, un pensiero positivo della vita; quando questo pensiero potrà emergere, tra la fine del ’700 e gli inizi del secolo diciannovesimo, con Lamarck e Cuvier, “vita e forza vitale” – sono parole di Cuvier – saranno ancora, nonostante tutto, “le eccezioni, perlomeno apparenti, alle leggi generali” che governano i corpi bruti. La più alta raffigurazione letteraria del profondo iato che separa la vita dalla natura e il corpo dagli elementi è forse l’opera di de Sade, dove questa cesura drammatica non cessa di riproporsi: quando Justine, vittima sadiana della virtù, muore, viene sottolineata la positività di tale evento. “Un fulmine l’abbatte, trapassandola da parte a parte”: essa è stata riconsegnata agli elementi della natura; la sua fine è proprio “l’opera del cielo”.30

Labirinti dell’opinione

La malinconia, come si diceva, è il contrassegno più profondo, l’esito più enigmatico di questa frattura. Da Ficino a Burton essa è un nome che sussume per intero le manifestazioni essenziali della devianza: una categoria che esprime, a diversi livelli, la rottura della norma sociale. L’ambito discorsivo di cui fa parte è vario e mutevole: la teologia, la morale, la filosofia, la medicina. Non rappresenta, ancora, il territorio privilegiato delle scienze della vita. Tuttavia, già nell’età umanistico-rinascimentale, essa è stata una prima grande occasione per scandire, attorno al problema della devianza, dell’infrazione, dello scarto dalla norma, una partizione di classe molto precisa. Esistono – potremmo dire sinteticamente – due tipi malinconici, due forme di malinconia, due differenti figure di corpo deviante, devastato dagli eccessi della bile nera: da un lato il corpo malinconico del genio, del “literatus”, dell’artista, dell’uomo di governo; dall’altro lato il corpo malinconico della strega, avvolto nelle spirali del patto diabolico. La malinconia della strega, condannata come eretica dal potere inquisitoriale, è nettamente contrapposta alla malinconia del mago cristiano, che difende, non senza difficoltà, la propria ortodossia: da Ficino a Pico della Mirandola, fino a Giordano Bruno. Il pessimismo dualista della gnosi ermetica, e quindi il pensiero di quella che Dodds ha definito, con efficace espressione, un’epoca d’angoscia, influenzò largamente questi autori.31

La verità – come si legge nel Discorso segreto della Montagna di Ermete Trismegisto a suo figlio Tat, tradotto da Ficino – è “ciò che non è contaminato, che non ha limiti, né colore, né forma”; è “il Bene inalterabile, l’Incorporeo”. Il corporeo è quindi il contrario del bene e della verità. La materia è il male. Ad ostacolare l’ascesa a Dio sono proprio quelle che nel testo ermetico – considerato dalla cultura neoplatonica del Rinascimento profezia pagana delle verità cristiane – vengono chiamate le “punizioni della materia”, tra cui seconda, dopo l’ignoranza, è appunto la tristezza.32

Per debellarla é necessario l’intervento delle potestates Dei, che consentono all’uomo di rigenerarsi. La tristezza è dunque una “punizione della materia”. Ficino riprende questo tema nel De Vita, a partire da una ricodificazione sincretica del discorso sulla malinconia sviluppato dal pensiero antico. Per vincere la tristezza e la malinconia, non si limita a suggerire un itinerario spirituale, ma cerca di individuare una complessa ed articolata terapia medica, basata sui “farmaci” e su un’attenta regolamentazione della dieta.

La dignità e la divinità dell’uomo, esaltate dal mago cristiano, all’interno di una visione prometeica che tanta influenza eserciterà sulla nascita della scienza moderna, sono dunque minate alle radici da un disagio profondo, che le forze dello spirito ed i “remedia” della medicina possono tentare di risolvere. Solo guarendo la malinconia sarà forse possibile, agli intellettuali, ai “literati”, affrontare i disagi e i turbamenti determinati

dai rischi, dagli scacchi a cui vanno incontro le loro idealità spirituali e politiche: il rischio di un mancato accesso alla trascendenza, e insieme lo scacco di un ruolo politico destinato a diventare sempre più inconsistente e marginale. L’intellettuale, per poter ancora appartenere al ceto dirigente – e quindi per poter servire convenientemente il principe –, deve commisurare il progetto alla realtà, accettando la cruda lezione dei fatti e della storia.33

Guarire la malinconia significa, paradossalmente, intervenire nello spazio incerto ed equivoco che separa le idee dalla realtà, i programmi filosofici dalla pratica politica, il sapere dal potere. La tensione metafisica che circonda il discorso sulla malinconia, la possibilità di coglierne gli aspetti creativi, ed infine la stessa ambizione di potenziare, anche attraverso la medicina, le capacita politiche e spirituali del literatus: tutto questo, in fondo, è il segno di una situazione e di un’epoca disposte alla sintesi tra funzione di governo e funzione di conoscenza. La Firenze di Lorenzo il Magnifico, principe malinconico, amico di Marsilio Ficino, filosofo malinconico e caposcuola del neoplatonismo: questo uno dei teatri in cui tale sintesi conobbe una vigorosa e convinta formulazione. “I prìncipi onorino i sapienti – afferma infatti Ficino, commentando l’epistola che Platone scrisse a Dionigi il Giovane –, i sapienti consiglino volentieri i principi”. Subito dopo aggiunge: “Il sapere lontano dal potere giova a pochi, e il potere lontano dal sapere nuoce a molti”. L’insorgere della malinconia sembra quasi il contrassegno di un’avvenuta disgiunzione tra i due momenti.

Curarla, guarirla, ma anche utilizzarla positivamente, significa garantire una giunzione efficace tra potere e sapere, assicurando così la coerenza e la credibilità di un intero ceto dirigente, preoccupato di risolvere o di tenere sotto controllo anomalie, disagi e turbamenti che potrebbero offuscare l’efficacia della sua azione politica. “Potentia remota sapientia obest multis”.34

Nella lapidaria sentenza ficiniana – quasi un oscuro presagio dei tempi futuri – c’è tutto il pathos dell’intellettuale, preoccupato di riaffermare la propria centralità e al tempo stesso di esserne all’altezza.

Attraverso la malinconia – attraverso i discorsi che provoca, le cure mediche che richiede, le scelte filosofiche che mobilita – si mette in moto una complessa macchina disciplinare e terapeutica: una macchina funzionale all’addestramento ed al benessere del ceto dominante, ma ben presto estesa e applicata all’intero tessuto sociale. Infatti, già nella seconda metà del Cinquecento, quando ancora imperversava la caccia alle streghe, si fa strada la convinzione che i soggetti tormentati dalla malinconia non siano soltanto prìncipi, intellettuali, artisti, ma anche individui posseduti dal demonio, appartenenti in grandissima parte ai ceti popolari. Al corpo malinconico del genio, lo si è gia detto, corrisponde, in posizione simmetrica e speculare, il corpo malinconico della strega, travolto e devastato dal patto diabolico. Se si accetta l’esistenza dell’intervento demoniaco, si cerca però di dimostrare che esso viene facilitato dalla presenza di un temperamento malinconico. Che la malinconia sia il bagno del diavolo diventa così, nella cultura e nella religiosità tardo-cinquecentesche, una sorta di luogo comune. Un motivo ricorrente.35

Comincia a circolare e a generalizzarsi un nuovo approccio medico alla stregoneria. Si e convinti che la vis imaginationis sia profondamente turbata proprio nel soggetti atrabiliari; si è convinti che su questa facoltà il demonio eserciti più facilmente il suo potere: Ficino la chiama anche fantasia, o “cogitatione”, nel senso che a questo termine attribuirono i Padri della Chiesa. Come si legge nel primo libro del De Vita, essa è “contraria alla contemplatione”; essa “si tranquilla e quieta solamente col riposo, e quiete della notte”. La potenza dell’immaginazione – una facoltà che rende possibile ad ogni istante la comunicazione tra il corpo e l’anima – danneggia soprattutto gli spiriti incolti e sprovveduti; essa turba l’animo degli ignoranti: smarriti, come dice Weyer, negli inesplicabili labirinti dell’opinione.36

Il sistema della stregoneria, codificato dal Malleus maleficarum, viene attaccato radicalmente, per la prima volta, proprio dall’umanista Johan Weyer; questo medico protestante, con il De praestigiis daemonum, del 1563, introduce in Europa l’idea, gia ricordata, che l’umore malinconico rappresenta il terreno più propizio alla seduzione diabolica; ma non solo: egli trae la conclusione che le streghe non sono delle eretiche da punire, ma soltanto delle ammalate da curare.37

Si sarebbe tentati di leggere questo travagliato passaggio attraverso uno schema concettuale molto comodo e spesso abusato: quello della medicalizzazione. Occorre però ricordare che il medico Weyer non nega la possessione diabolica; afferma piuttosto che le vittime di Satana sono ammalate di malinconia; non sono perciò colpevoli; non sono responsabili. Devono solo essere curate. Occorre anche ricordare che altri medici, come Tommaso Erasto, confutarono questo punto di vista. Sostennero che tra i posseduti c’erano anche degli uomini e che tra le streghe non c’erano solo donne malinconiche.

In ogni caso, se a Weyer deve essere riconosciuto il merito di aver affiancato lo sguardo medico a quello dell’inquisitore – aprendo le porte ad una crisi dell’orizzonte demonologico – va anche messa in risalto una posta in gioco essenziale di questo processo di medicalizzazione: si tratta della repressione, della canalizzazione e del controllo di un vasto fenomeno collettivo, di massa, che esprime dissenso, rifiuto, antagonismo femminile diffuso. A questo rifiuto massificato, assolutamente anarchico e privo di progetto politico, la medicina assegna un principio di individuazione: la malinconia. Malinconia, certo, è un nome: un concetto e un luogo ben definito entro la millenaria topografia della verità medica.

Ma la designazione nosografica e il suo oggetto sociale, qui, si fronteggiano; non rappresentano ancora, rispettivamente, il contenente ed il contenuto. Perché questo avvenga – e perché il processo di medicalizzazione maturi compiutamente – la repressione inquisitoriale deve fare il suo corso: deve accusare, torturare, bruciare. Solo a partire da questo cupo scenario di morte il sapere positivo potrà affermarsi: il delirio della strega potrà confluire in un capitolo della patologia mentale; il soggetto sociale massificato potrà esistere solo come individuo, sottratto alla comunità, ridotto a disperata solitudine, definito e confinato entro gli spazi angusti di un unico sapere.

Ma la maturazione definitiva di tale passaggio è resa possibile da un affrontamento, da un corpo a corpo tra le categorie della medicina e la straordinaria potenza di un soggetto irriducibile e nemico: un soggetto destinato a soccombere, sotto il peso congiunto della tortura e della terapia, che producono, rispettivamente, la capitolazione oppure il consenso. È vero: un soggetto sociale soccombe, viene sconfitto, prima dalla repressione inquisitoriale, poi dall’azione medica. Ma le tracce della sua potenza, singolari e incancellabili, continuano ad essere visibili ancora per molto tempo. Esempio emblematico della loro lunga durata: il dibattito, attorno agli anni Trenta del diciassettesimo secolo, sulle suore orsoline di Loudun, sulla loro possessione, sulle loro convulsioni e sulle loro prostrazioni, e infine sugli esorcismi a cui venivano sottoposte, nella pubblica piazza, dinanzi a un folto pubblico.38

Tra i medici c’è chi nega l’esistenza stessa della possessione. L’ugonotto Marc Duncan, medico, filosofo e rettore di un’Accademia protestante, pubblica un pamphlet, nel quale sostiene che le orsoline di Loudun sono soltanto malate di malinconia e propense alla simulazione. Un prete, De La Ménardière, difensore dell’ortodossia, gli risponde subito, dando alle stampe un testo violentemente polemico.39

Gli amici di Duncan replicano tempestivamente con un’apologia anonima.40 Rileggendo attentamente questi scritti, si osserva subito che la radicale diversità di posizioni non impedisce l’emergere di un punto di vista comune: se infatti De La Ménardière afferma che la malinconia è “assez puissante pour faire prédire les choses par des visions anticipées”, l’apologista anonimo, dal canto suo, pur attaccando questa convinzione,42 riconosce al malinconico altre doti eccezionali, riconfermando così un’antica tradizione. Fu proprio Aristotele – ci ricorda infatti il nostro autore – ad attribuire “cette puissance à l’humeur noire”: un umore che può essere, senza dubbio alcuno, “la cause de tant de merveilles”.43

L’occhio medico rifiuta la matrice trascendente e demoniaca del delirio malinconico, ma gli assegna al tempo stesso una positività inquietante e temibile. Potenza, prodigio, meraviglia, miracolo: questi i termini legati alla malinconia, nel testo dell’apologista, ma anche in altri trattati e tesi di dottorato che abbondano in tutto il secolo.44

Riconoscere ed insieme ridimensionare le potenze dell’atra bile: per fare questo è stato necessario rinchiudere un soggetto collettivo e massificato, espressione incarnata di tali potenze, dentro gli spazi angusti e protetti della relazione medico-paziente. Nell’ambito di questa relazione, il malinconico perde molte delle sue prerogative: il paradigma nascente della medicina legale, strutturalmente legato all’architettura nosografica e all’analisi patologica, lo priva dei suoi diritti civili; definisce inoltre, in base al livello raggiunto dalla malattia, il grado di imputabilità delle sue azioni criminali.45

Paolo Zacchia, padre fondatore della medicina legale, ribadisce, dopo Weyer, l’equivalenza tra possessione diabolica e malattia atrabiliare, ap- profondendo poi, anche attorno a questi territori, la problematica della responsabilità penale dei soggetti privi di ragione.46

Poco importa, qui, addentrarci nella varietà e nell’ambiguità delle soluzioni proposte. È forse più interessante cogliere, nel nuovo orizzonte teorico della medicina legale, ulteriori indizi della sconfitta e del depotenziamento di un soggetto collettivo antagonista.

Melancholia nervosa

La strega, come paziente e come malinconica, perde potere ed è sicuramente meno temibile. La medicina seicentesca fedele alla dottrina degli umori compie quindi un’operazione contraddittoria e duplice: sottrae potere alla strega come soggetto sociale, glielo restituisce come paziente. Solo con l’età dei lumi, e soprattutto con l’opera di Lorry, lo strano incantesimo comincia a dissolversi: la malinconia nervosa – malattia delle fibre nervose, nella quale si alternano gli stati di spasmo e di atonia – si affianca all’antica e tradizionale malinconia umorale, preparandosi a soppiantarla.47

L’entità morbosa viene sottratta alla trama analogica delle corrispondenze; le sovradeterminazioni metafisiche e cosmologiche cedono il passo ad un determinismo fisico puntuale e ben circoscritto: la malinconia è una malattia della fibra nervosa, che riguarda perciò l’essere sensibile, percepito nella separatezza e nella specificità della sua costituzione materiale. L’esito più immediato di questo meccanicismo riduzionista è proprio la smitizzazione della malinconia come fonte di poteri straordinari. Solo vent’anni dopo la pubblicazione del testo di Lorry, in un lavoro comunicato alla Socété́ Royale de Médecine, Andry potrà ricordare, con distacco e disincanto, gli errori e i pregiudizi che lo avevano preceduto. Dirà infatti: “Accade ancora che all’ultimo stadio della malinconia, lo spirito sia esaltato al punto che i malati, facendo discorsi patetici, con tono e con voce forte, hanno dato l’impressione di profetizzare, di indovinare con corret- tezza l’avvenire: il che ha fatto credere agli antichi e a qualche moderno che lo spirito dei malinconici e dei morenti, quando sono nel delirio, abbia qualcosa di divino, di soprannaturale.48

Smitizzazione della malinconia, dunque; scioglimento perentorio e de- finitivo dei nessi analogici che la collegano alla struttura dell’universo. Il XVIII secolo vede la maturazione di questo spostamento epistemologico radicale, facilitato dal nuovo approccio meccanicista, ma presente – magari più debolmente – anche quando la tradizionale dottrina degli umori viene scopertamente difesa e sostenuta. Nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, infatti, la mélancolie, smarriti i suoi prestigi e la sua eccezionalità, rimane semplicemente una malattia, che il medico deve cercare di sconfiggere, guarendo lo spirito e attaccando i vizi del corpo (“il faut… commencer par guérir l’esprit et ensuite attaquer les vices du corps”).49

Secondo il medico vitalista Jean Jacques Menuret de Chambaud – autore della voce mélancolie – la bile nera, vera causa dell’affezione morbosa, non é ridicola e immaginaria, come crede la maggior parte dei moderni.50 Ma non è neppure, come voleva la tradizione, l’equivalente analogico della terra e di Saturno. È invece, molto più semplicemente, un elemento eccedente, che si deposita nella regione epigastrica e negli ipocondri: un umore patogeno, che le aperture dei cadaveri hanno reso visibile, fuori da qualsiasi implicazione cosmologica o metafisica.

L’antico umoralismo convive, qui, con un approccio naturalistico, che nega al delirio malinconico qualsiasi dimensione trascendente: è un delirio senza febbre e senza furore, che generalmente, come afferma Menuret, si sviluppa attorno ad un solo oggetto; su tutti gli altri oggetti l’integrità della ragione non viene intaccata.51

Questo nucleo di pensiero, che ha già dei precedenti nella tradizione medica, rende possibile un nuovo ottimismo terapeutico, di matrice schiet- tamente illuminista, che la psichiatria nascente, durante il primo Ottocento, cercherà di sviluppare con coerenza. L’approccio naturalistico e l’ottimi- smo terapeutico – facilitato dalla nozione di delirio parziale – trasformano la malinconia in un territorio patologico accessibile e trasparente, a dispet- to delle sue antiche ed arcane qualità. Quando invece la nozione di delirio parziale viene abbandonata, ecco che, quasi per incanto, gli antichi poteri della follia riemergono prepotentemente: lo stesso Menuret, nella voce manie dell’Encyclopédie, dopo aver parlato di un delirio universale senza febbre – “furieux, avec audace, colère”52 – sembra restituire credibilità al vecchio mito della follia come fonte di prodigi e di preveggenza.53

“Autori degni di fede – egli afferma – riferiscono di aver visto dei folli che, nel momento più alto del loro eccesso, parlavano lingue straniere, componevano versi, ragionavano in modo eccelso su materie sconosciute; taluni presagivano anche l’avvenire”.54

L’universalità del delirio, che per Menuret rappresenta la caratteristica saliente della mania, scandisce lo scacco dell’impresa terapeutica e consente, al tempo stesso, il riemergere di una mitologia che sembrava ormai definitivamente liquidata.55

La parzialità del delirio, tipica della malinconia, implica invece la speranza di guarigione: valorizza l’azione medica e dissolve l’alterità dell’alienato, sottraendo la sua malattia ai territori oscuri del mistero, del prodigio e della paura.

La malinconia nervosa di Lorry rappresenta il momento più alto e insieme più coerente di questo processo, proprio perché conferma la natura parziale del delirio a partire dalle sue cause fisiologiche: lo spasmo o l’atonia della fibra nervosa non sono mai, infatti, condizioni assolute, definitive, irreversibili; sono piuttosto degli stati transitori sui quali l’azione terapeutica può intervenire efficacemente, provocando un ritorno allo stato di normalità.

Parzialità, immanenza e materialità del delirio, dunque: su queste basi il XVIII secolo cerca di rendere trasparente ed accessibile l’enigma della malinconia. Lo sviluppo di questa nuova sensibilità non è tuttavia né semplice né lineare.

La postura ritratta del paziente atrabiliare, la sua opacità, i suoi ostinati silenzi, i suoi mascheramenti, le sue deliranti finzioni rappresentano degli ostacoli, talora insormontabili, che rendono precaria la speranza di una guarigione. Questa capacita di resistenza e di simulazione del soggetto malinconico rende possibile la riemergenza di antichi fantasmi, che sembravano ormai appartenere alla preistoria di un sapere scientifico. Ancora nel primo Ottocento questi fantasmi sopravvivono. Un solo esempio significativo: il famoso Giuseppe Frank, nel suo trattato enciclopedico di patologia medica, tratta con molto distacco la lezione aristotelica dei Problemata; “secondo Aristotele – egli afferma in una nota – i malinconici sono considerati come ingegnosi e saggi”. Continua poi, nella nota successiva: “Parimente Aristotele […] aggiunge che i malinconici hanno in essi qualche cosa di profetico e di divino […]. È probabilmente quest’opinione che fece nascere l’abitudine di chiedere ai malinconici dei numeri pel lotto. I melanconici dello spedale di Vienna si fecero di ciò un’origine di guadagno”.56

L’atteggiamento scettico, evidente soprattutto nella frase del testo “si sforzano di presagire l’avvenire”, viene contraddetto poco dopo, a proposito di un caso osservato nella primavera del 1815: un’alienata con delirio religioso (“una ragazza del volgo, dell’età di quattordici anni, di scrofolosa costituzione”), viene “ricevuta alla clinica […]. Appena potemmo trarne una parola, eccetto quando le parlavamo di cose sacre; allora il suo volto da tristo diveniva sereno, i suoi occhi prima languidi si mostravano pieni di splendore, e la sua fisionomia prendeva qualche cosa di celeste. Né ciò basta! Discorreva sulle religiose materie come se si fosse dedicata allo studio della teologia. Parlava come un predicatore sopra Dio, sui doveri dei cristiani, e sapeva sciogliere con sagacia, mostrando sdegnoso volto, le obbiezioni che si facevano per provarla”.57

Sarebbe forse un segno di arroganza storiografica pretendere di stabilire dove finisce, qui, l’osservazione empirica e dove invece comincia e si impone il lavoro dell’immaginario!

È in ogni caso significativa la discrepanza fra il contenuto di questa osservazione e il materialismo organicista, difeso e rivendicato a più riprese dall’autore: un materialismo che lo porta ad attaccare frontalmente Pinel, il padre fondatore della moderna psichiatria, e il suo lavoro, considerato più simile a un “romanzo” che a un’opera medica. “Pinel – afferma Frank – scrivendo affatto senz’ordine, trascurò del tutto la base d’ogni medicina, l’anatomia patologica; appena toccò di passo l’eziologia fisica e quasi disonorò la materia medica. Aggiungi a ciò il disprezzo con cui parla della maggior parte dei suoi predecessori; il silenzio in cui passa Lorry, classico autore sulle manie”.58

L’enigma della malinconia sopravvive dunque tenacemente, anche a dispetto dei paradigmi scientifici dominanti: l’età dei lumi, in ogni caso, lavora con costanza allo scioglimento di questo enigma, attraverso una radicale ristrutturazione dell’antico scenario teorico. Se, con Lorry, è stato possibile concepire la malinconia come risultato di un’alterazione organica reversibile, si è però insistito anche sulla genesi “morale” della malattia, al punto che la stessa alterazione organica può essere considerata una conseguenza di cause morali. Fuori dall’ambito della medicina, le cause morali rappresentano, ovviamente, il fattore esplicativo dominante. Basterebbe rileggere, in questa chiave, La religieuse di Diderot: qui, le cause morali – e cioè l’impossibilità di vivere pienamente un’esperienza erotica – condurranno la superiora del convento di Arpajon dalla malinconia al delirio e dal delirio alla morte. In generale, si può comunque dire che il Settecento medico porta a compimento una moltiplicazione dei registri di causalità: dagli umori agli ipocondri e alla regione epigastrica – come voleva la tradizione – e insieme dalla fibra nervosa eccitata e dal cervello – come volevano le nuove scoperte – fino alle passioni e ai turbamenti dell’anima. Dietro la spinta di una eziologia rinnovata, le figure della malinconia si complicano e si arricchiscono: riprende vigore l’antica idea, già rielaborata da Willis nel secolo precedente, di una alternanza ciclica tra malinconia e mania, che conoscerà una grande fortuna nell’Ottocento psichiatrico e nella letteratura clinica del secolo appena trascorso. L’opera di Lorry, in ogni caso, fornisce nuova legittimità scientifica a tale alternanza, nel momento stesso in cui ne svela l’equivalente anatomo-fisiologico.

A partire da questo momento, non sarà più possibile ridurre la malinconia a una malattia del timore e della tristezza. Per rappresentare questa nuova ricchezza di prospettive, saranno necessari nuovi attrezzi teorici, nuove sintesi, nuovi paradigmi: prima la psichiatria e la psicoanalisi, poi le neuroscienze. Una lunga storia, che dura ancora.

La nostra breve rassegna si ferma qui, in questa zona ambigua, di frontiera, ricca di passato e aperta sull’avvenire. A ben guardare, mi sono limitato all’analisi di un primo passaggio storico, a mio avviso di capitale importanza: il passaggio dall’epoca della caccia alle streghe, contrassegnata da quella che potremmo chiamare una produzione di coscienza a mezzo di coercizione e di tortura, all’epoca della produzione di coscienza a mezzo di consenso e di terapia. La cura della malinconia offre alla medicina della mente la possibilità di funzionare come articolazione, come momento di continuità, come procedura analoga e complementare alla cristiana direzione delle coscienze. La genealogia del politico affonda le sue radici in queste pratiche poco appariscenti, in questi teatri poco rumorosi, in questi dispositivi troppo spesso trascurati o sottovalutati.

È all’interno della svolta storica da noi sommariamente indicata che la malinconia – prima disagio complessivo dell’homo laber, atterrito dalla difficoltà della sua missione spirituale – diventa poi terreno privilegiato di saperi particolari. La medicina, gia a partire dal secolo XVII, la psichiatria, a partire dal primo Ottocento, infine la psicoanalisi e le neuroscienze, cercheranno in ogni modo di dominarla e di confiscarla. La storia di tale confisca, dei suoi successi e dei suoi fallimenti, è anche la storia di come le scienze della vita hanno alimentato un laboratorio di teorie, di tecniche e di procedure funzionali ad un processo di normalizzazione della devianza; funzionali ad un governo del rifiuto e dell’estraneità al potere; funzionali, infine, ad una “tecnologia” di produzione delle coscienze, capace di realizzare il consenso e la partecipazione attiva dei soggetti.

Vista in questa prospettiva, la malinconia sembra quasi il rovescio opaco delle pratiche di governo: uno dei limiti invalicabili della loro efficacia politica e della loro produttività sociale. Si tratta, comunque, di un’ipotesi, di un programma di lavoro. A partire da qui, sarà forse possibile vedere nella malinconia e nel potere due grandezze al tempo stesso eterogenee e collegate: due polarità complementari e irriducibili.

 

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Note:

1) Cfr. R. Burton, The Anatomy of Melancholy, Vintage Books, New York 1977, vol. 1, p. 131. Citerò sempre da questa ed.: un reprint dell’ed. in tre volumi, curata da J. M. Dent, del 1932. La prima edizione risale al 1621. Durante la vita di Robert Button (1577-1640) furono stampate cinque edizioni. La terza parte dell’opera e l’ampia introduzione – che costituisce una sorta di sintesi programmatica, quasi a sé stante – sono state tradotte in italiano. Si veda, rispettivamente: R. Burton, Malinconia d’amore, tr. it. di A. Brilli e F. Marucci, a cura di A. Brilli, Rizzoli, Mila- no 1981; R. Burton, Anatomia della Malinconia. Introduzione, tr. it. di G. Franci, Introduzione di J. Starobinski, Marsilio, Venezia 1983. Per un approfondimento della “melancholy” burtoniana, vista nel contesto della tradizione medico-filosofica dell’Inghilterra moderna, si veda il bel saggio di M. Simonazzi, La malattia inglese, Il Mulino, Bologna 2004 (tutto il primo capitolo – pp. 35-124 – è dedicato a Burton).

2)  R. Burton, The Anatomy of Melancboly, cit., p. 133.

3)  Ibidem.

4)  Cfr., in questa prospettiva: A. Negri, Descartes politico o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano 1970; ma anche: A. Negri, L’anomalia selvaggia, Feltrinelli, Milano 1981.

5)  I. Prigogine, I. Stengers, La nouvelle alliance, Gallimard, Paris 1980.

6)  Riprendo qui un tema che ho già sviluppato: M. Galzigna, Il gioco delle perle di vetro, «alfabetà», 30,1981; Id., Conoscenza e dominio, Bertani, Verona 1985; M. Galzigna – G. Gembillo, Scienziati e nuove immagini del mondo, Marzorati, Milano 1994.

7) G. Dumézil, Mythe et épopée, vol. II, Gallimard, Paris 1971, pp. 90-124.

8)  Ivi, pp. 117-132; ma anche: G. Dumézil, Ventura e sventura del guerriero, Rosenberg-Sellier, Torino 1974, pp. 99-109.

9)  Si veda l’ed. it., con testo a fronte, curata da C. Angelino ed E. Salvaneschi: Aristotele, La «melanconia» dell’uomo di genio, Il Melangolo, Genova 1981. Sulla storia della malinconia nel mondo antico ho utilizzato i seguenti testi: R. Kli- bansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy, Nelson, London 1964 (si veda tutto il primo capitolo); J. Pigeaud, La maladie de l’âme, Les Belles Lettres, Paris 1981, p. 128-138 e passim; H. Flashar, Melancholie und Melancholiker, W. de Gruyter, 1966, pp. 60-72; J, Pigeaud, Melancholia. La malaise de l’individu, Payot-Rivages, Paris 2008, pp. 195-197.

10) Aristotele, op. cit., p. 10-13. Il passo citato di Omero, è preso dall’Iliade (VI, 200-202). Riporto, qui, anche la traduzione in prosa, elegante e fedele, di Maria Grazia Ciani: “Ma quando tutti gli dei presero a odiarlo, allora andava errando per la pianura Alea, Bellerofonte, solo, e si rodeva il cuore mentre fuggiva le tracce degli uomini” (Iliade, Marsilio, Venezia 1990, p. 283). Per un’analisi delle problematiche connesse alla vicenda di Bellerofonte, visto come figura aurorale della malinconia d’occidente, rinvio a M. Galzigna, Le ferite della perdita, in B. Frabotta (a cura di), Arcipelago malinconia, Donzelli, Roma 2001.

11)  G. Dumézil, Mythe et épopée, cit., vol. II, p. 129.

12)  G. Ceronetti (a cura di), Il libro del profeta Isaia, Adelphi, Milano 1981.

13)  Per una esposizione dettagliata della teoria umorale della malinconia, giudicata malattia quando la bile nera eccede sugli altri umori (la bile gialla, il flegma, il sangue), rimando a: R. Klibanski, E. Panofsky, F. Saxl, op. cit. (cap. I); J. Starobinski, Histoire du traitement de la mélancolie des origines à 1900, Bâle 1960 [trad. it. di Franco Baracchini: Storia del trattamento della malinconia dalle origini al 1900, Guerini e Associati, Milano 1990]. Utili anche i lavori di Pigeaud e Flashar.

14)  Il primo libro è del 1480, il secondo e il terzo del 1489. La prima ed. completa è quella fiorentina (De vita libri tres, 1489). Per facilitare il lettore, cito dall’ed. cinquecentesca in volgare: M. Ficino, De le tre vite, Venezia 1547. Salvo indicazione diversa, tutte le citazioni di Ficino, nel testo, sono tratte dal cap. IV del primo libro di questa edizione. Non ho utilizzato, ma la segnalo egualmente, la prima e ottima traduzione italiana completa con testo a fronte: Marsilio Ficino, De vita, a cura di Albano Biondi e Giuliano Pisani, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1991.

15)  T. Bright, A Treatise of Melancholy, London 1586. Ho consultato l’ed. del 1613. Sulle cure mediche della malinconia cfr. pp. 322-347. Sul tema della follia e della “melancholy” nel ‘600 e nella cultura inglese dell’età di Shakespeare, oltre al già citato saggio di Mauro Simonazzi (2004, nota 1), si veda V. Gentili, La recita della follia, Einaudi, Torino 1978. La condanna morale della malinconia attraversa

16)  T. Bright, op. cit., pp. 252-294.

17)  Ivi, pp. 294-303.

18)  S. Teresa d’Avila, Le Fondazioni e opere minori, Edizioni Paoline, Alba 1977, cap. VII, pp. 70-77. Tutte le citazioni sono tratte dallo stesso capitolo. Le sottolineature sono mie.

19)  Si veda, ancora, R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, op. cit. (pp. 254-274 della traduzione italiana di Renzo Federici: Saturno e la melanconia, Einaudi, Torino 1983).

20)  Ficino espone la dottrina dei genio malinconico anche nella Theologia Platonica (1482). Cfr. M. Ficino, Opera, Parigi 1645, vol. I, pp. 280-281. Avendo lavorato in due tempi e in due biblioteche diverse, più avanti mi servirò anche dell’ed. di Basilea del 1561. Sull’asse malinconia/creatività (e genialità) segnalo un saggio importante, che collega gli aspetti psicopatologici della malinconia alle sue rappresentazioni letterarie e filosofiche: E. Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano 2001 (cfr. in particolare il capitolo 4 della parte III: La Stimmung malinconica e l’esperienza creativa, pp. 146-162).

21)  Mi sono servito dell’ultima ed.: A. Du Laurens, Discours de la conservation de la veue: des maladies mélancholiques, des catarrhes, et de la vieillesse, Rouen 1630. È interessante la tr. it. di fra’ Giovanni Germano (Napoli 1626), soprattutto per le sue manipolazioni, scopertamente improntate ad uno spiritualismo tanto deciso quanto ingenuo: «en ce misérable temps» (p. 146) diventa «in questo miserabile corpo» (p. 181); «louange de l’homme» (p. 73) diventa «lode dell’anima» (p. 90). La tr. più tarda, di Marco Ginammi (Venezia 1637), è più fedele e attendibile.

22)  Cfr. p. 107 dell’ed. napoletana (p. 87 dell’ed. di Rouen, 1630). Accanto alla malinconia «froide et sèche» e a quella «chaude et aduste», c’è una malinconia «qui est meslée avec un peu de sang, ayant toutefois plus de seicheresse que d’humidité», e che rende, appunto, gli uomini eccellenti e ingegnosi.

23)  Cfr. M. Foucault, Storia della follia, Rizzoli, Milano 1976, pp. 13-66.

24)  R. Burton, Tbe Anatomy of Melancboly, cit., p. 78. L’espressione, ma anche la citazione che segue nel testo, sono tratte dalla stessa pagina.

25)  Si veda il Commento alla Canzona dello Amor Celeste e Divino, di Pico della Mitandola, contenuto in G. Benivieni, Opere, Venezia 1522. Sul rapporto tra eros cristiano (e neoplatonico) e malinconia si può leggere l’opera del teologo H. U. von Balthasar, Nello spazio della metafisica. L’epoca moderna, Jaca Book, Milano 1978, pp. 225-270.

26) J. Lacan, Ecrits, Paris 1996, p.97.

27) Inutile, qui, entrare nel mare magnum della bibliografla riguardante Leonardo. Mi limito a rinviare all’introduzione di Augusto Marinoni a Leonardo da Vinci, Scritti letterari, Rizzoli, Milano 19742. Vanno comunque tenuti presenti, anche rispetto alla problematica del testo, gli studi che Eugenio Garin ha dedicato a Leonardo ed alla cultura rinascimentale. Si veda, tra l’altro, E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Laterza, Bari 1972, pp. 57-107.

28) Si vedano: C. Luporini, La mente di Leonardo, Sansoni, Firenze 1953, p. 59; M. Kemp, Leonardo. Nella mente del genio, Einaudi, Torino 2005; C. Vecce, “Scritti” di Leonardo da Vinci, in: A. Asor Rosa (dir.), Letteratura italiana. Umanesimo e Rinascimento, 6, Einaudi, Torino 1993; L. M. Batkin, Leonardo da Vinci, Laterza, Roma-Bari 1988 (si veda in particolare il cap.XI, Elogio dell’occhio); A. Mancini, “Un dì si venne a me malinconia…”. L’interiorità in Occidente dalle origini all’età moderna, Franco Angeli, Milano 1998 (molto ricche e stimolanti le annotazioni relative a Leonardo, pp. 209-235).

29)  “Anima in corpore dormit, somniat, delirat, aegrotat” (lettera a Locterius Neronius, in M. Ficino, Opera, Basilea 1561, vol. II, p. 837).

30)  Per i riferimenti a Lamarck, Cuvier e Sade, mi permetto di rinviare a M. Galzigna, Conoscenza e dominio, cit. pp. 100-129.

31)  Il famoso secondo secolo dopo Cristo: età dell’ansia e dell’angoscia. Cfr. E. R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, La Nuova Italia, Firenze 1970.

32)  Utilizzo, qui, le fonti riportate in F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari 1969, pp. 13-58.

33)  Su questi temi, e soprattutto sul tramonto della funzione politica dell’intellettuale nell’età della Controriforma, la letteratura è molto vasta. Mi limito a citare il vecchio, dissacrante ed eruditissimo lavoro di G. Benzoni, Gli affanni della cultura, Feltrinelli, Milano 1978: anche qui emerge il motivo dell’angoscia e della malinconia, contrapposte al «candore marmoreo d’un Rinascimento baldanzosamente apollineo colle sue razionalistiche certezze» (p. 12). Cfr. anche M. Rosa, «Scena» e «segreto»: l’antinomia del potere e il ruolo dell’uomo di lettere, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Vol. I, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1998. Ed anche, nello stesso volume, F. Gaeta, Dal comune alla corte rinascimentale.

34)  Cfr. M. Ficino, Opera, Parigi 1645, vol. II, pp. 484-485.

35)  Su questo nodo si veda, tra l’altro: M. Foucault, Les déviations religieuses et le savoir médical, in J. Le Goff (a cura di), Hérésies et sociétés dans l’Europe préindustrielle, Mouton, Paris-La Haye 1968, pp. 19-25 [conferenza-testo ripubblicata, assieme alla discussione che l’aveva accompagnata, in : Id., Dits et écrits, I (1954-1969), Gallimard, Paris 1994, pp. 624-635] ; J. Delumeau, L’âge d’or de la mélancolie, in “L’Histoire”, 42, 1982, pp. 28-37; S. Angio, Melancholia and Witchcraft, in AA.VV., Folie et déraison à la renaissance, Ed. de l’Université de Bruxelles 1976, pp. 209-222.

36)  J. Weyer, Histoires Disputes et Discours des Illusions et Impostures des Diables ecc., Bourneville-Axenfeld, Paris 1885, 1, p. 41 (reprint dell’ed. del 1579). La prima ed., scritta in latino, è del 1563.

37) Si veda, tra l’altro, su tutta la questione: W. Monter. European Witchcraft, Wiley, New-York 1969; M. E. Wiesner, Witchcraft In Early Modern Europe (Problems in European Civilization), Houghton Mifflin Company, New York 2006. Pregevole studio, ben documentato e attento alle problematiche del “gender”: interessanti la parte I, dedicata alle radici intellettuali della demonologia europea, e la parte IV, che analizza i rapporti tra gender e witchcraft.

38) R. Mandrou, Possession et sorcellerie au XVIIème siècle, Hachette (Pluriel), Paris 2005 [qui Mandrou introduce un’importante analisi differenziale tra le « possedute » della città, appartenenti alla borghesia e alla piccola nobiltà (è il caso di Loudun), e le sorcières della campagna, i cui roghi bruciavano nella generale indifferenza]. Cfr. l’importante lavoro di M. de Certeau, La possession de Loudun, Gallimard, collana Folio/Histoire, Paris 2005 (la prima edizione, Gallimard-Juilliard, è del 1970). Si veda il saggio di M. Bergamo, Il punto di vista dell’indemoniata, che accompagna l’edizione italiana di J. Des Anges, Autobiografia, Marsilio, Venezia 1986. Il lungo saggio del compianto Mino Bergamo è importante perché sottolinea e dimostra – attraverso un’analisi testuale, liberamente ispirata a Greimas, del racconto autobiografico di Jeanne des Anges, superiora delle orsoline di Loudun,– il legame tra desiderio, passione e possessione demoniaca. Sul caso e sul processo a Urbain Grandier – del quale de Vigny, in Cinq-Mars (1826), ci ha fornito una descrizione romanzata – si veda il libro, pregevole anche per le sue qualità narrative, di R. Rapley, A Case of Witchcraft: The Trial of Urbain Grandier, McGill-Queen’s Univ. Press, Montréal 2002.

39)  H. J. Pilet de la Ménardière, Traité de la mélancholie. Savoir si elle est la cause des Effets que l’on remarque dans les Possédées de Loudun, La Flèche, 1635.

40)  Anonimo, Apologie pour Marc Duncan, Docteur en médecine contre le traité de la mélancholie tiré des réflexions du Sieur de la M., s. l., s. d. (probabilmente 1635).

41) L’apologista Vanità dell’homo faber. Derive della malinconia 43 214-215. 42 Anonimo, op, cit., pp.

43)  Ivi, p. 23.

44)  Il ‘600 è pieno di testi medici sulla melanconia. Tra questi abbondano le tesi di dottorato in medicina. Sulla “potenza» del malinconici – e sulla loro capacità divinatoria – si veda, tra i tanti, T. Tandler, Dissertationes Physicae-Medicae, Leucoreis Athenis, Z. Schureri, 1613 (si vedano i capp.: De Melancbolia, pp. 104-154, e De Melancholicorum divinatione, pp. 155-179). Prodigiose ed insieme miste- riose, difficilmente intelleggibili, le qualità del malinconico: “Haec prodigiosa – dice Tandler – quae de melancholicis ab autoribus fide dignis commemorantur, a quibus dependeant causis, est sane inventu difficilimum, sed tamen dignissimum accurata ingeniorum inquisitione”. Il medico di Dresda – le cui opere, come dira con sprezzo il biografo del Dictionnaires des Sciences Médicales (Biogr. Méd., Panckoucke, Paris 1825, Tome VIII, p. 298), “témoignent hautement de sa crédulité – non era il solo a credere in questi “prodigi”. Troviamo tracce di questa credulità anche in alcune tesi di dottorato dell’epoca. Citiamo alcuni autori: Zeisius (1600) Varus (1606), Oltermann (1607), Sigfrid (1607), Luchtenius (1608), Hautin (1910), Toutain (1613), Wolff (1614), Schaller (1618), Westemberg (1618), Brendel (1618), Ponce de Santa Cruz (1624). Questo elenco si limita a citare solo alcune tesi del primo seicento. Tesi di questo genere e con simile orientamento abbondano durante tutto il secolo diciassettesimo.

45)  P. Zacchia, Quaestionum Medico-LegaIium, Lione 1661, vol. I, p. 121. Le 23 questioni del Titolo I del Libro II sono interamente dedicate ai casi di “demenza” e di perdita della ragione. Qui mi riferisco alla questione 9, dedicata alla malinconia.

44) Derive

46)  Ivi, p. 137. La questione 18 affronta il tema degli indemoniati, che, «a causa di una malattia malinconica diventano strumento del demonio» (tr. mia).

47)  A. C. Lorry, De Melancholia et morbis melancholicis, Lutetiae Parisiorum, 1765, 2 volumi. Gia nella prefazione l’autore collega, molto significativamente, l’incertezza dell’intervento terapeutico (“incerta medendi methodus”) alla definizione ancora oscillante e imprecisa del morbo malinconico (“non unam esse eius naturam saepius diximus”): un morbo che era stato visto sia nella sua stretta dipendenza con le leggi meccaniche (“legibus regi atque administrari mechanicis advertebamus”), sia nella sua eccezionale fisionomia di realtà slegata dall’ordine consueto delle leggi fisiche (“vulgarem ordinem Physicarum legum eludentes”).

48)  Andry, Recherches sur la méIancholie, Paris 1785, p. 25 (tr. mia).

49)  Diderot-D’Alembert, Encyclopédie ecc., Lausanne et Berne 1780, Tome XXI, pp. 415-421 (per la cit. cfr. p. 419).

50)  Ivi, p. 418. Nella stessa pagina si accenna alle “ouvertures des cadavres des personnes mortes de cette maladie”.

51)  Ivi, p. 417.

52)  Diderot-D’Alembert, op. cit., Tome XX, Partie II, pp. 955-960.

53)  Ivi, p. 955.

54)  Ivi, p. 956 (qui e nella nota che segue la traduzione è mia).

55)  Ivi, p. 958: “La mania è una di quelle malattie in cui i medici più abili ordinariamente falliscono”. Nella psichiatria ottocentesca rimarrà sempre viva quest’ottica che assegna al malato – in questo caso al malinconico – una capacità di lotta, di antagonismo, di resistenza. Su questi aspetti si veda M. Foucault, Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004 e anche M. Galzigna, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Marislio, Venezia 19922 (terza edizione on line del 2006: http://www.pol-it.org/ital/LaMalattiaMorale/indice.htm). La dimensione della conflittualità, dello scontro tra medico e paziente emerge anche nel “traitement moral” dell’alienistica ottocentesca, soprattutto quando esso viene declinato – vedi Leuret – in termini dirigistici, autoritari e prescrittivi. Su questo si veda J. Postel, Éléments pour une histoire de la Psychiatrie occidentale, L’Harmattan, Paris 2007 (pp. 249-278). Sul rapporto tra terapia e processi di disciplina- mento in ambiente asilare cfr. M. Galzigna, La disciplina e la cura, in Foucault, oggi, a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 45-105.

56)  Cito dalla prima tr. it.: G. Frank, Patologia interna, vol. III, Venezia 1840, p. 174 (nn. 77 e 78). L’opera, in sei volumi, è una vera e propria summa della patologia medica, da Ippocrate al primo Ottocento.

57)  Ivi, pp. 174-175.

58) Ivi, pp. 191-192, n. 105 (sottolineatura mia).