Vendere e immortalare

Palmira
Quando le rovine non vengono annientate, il loro smembramento diventa un procedimento per ricostituire opere, cimeli, documenti che sono andati e ancora vanno a finire più o meno legalmente nei musei e nelle collezioni private. Troppi sono i casi, del resto noti, da citare riguardo questa operazione di macelleria culturale con la quale si distruggono rovine per ottenerne frammenti da esporre come opere d’arte. Anche nelle operazioni dove si distrugge per annientare, come di recente avviene con le distruzioni dei siti archeologici e i musei da parte del Daesh, l’annientamento non è totale. I pezzi delle rovine di cui si può fare il framing vengono venduti e il resto che non può essere venduto viene destinato appunto all’annientamento. Un annientamento che a propria volta però non si distrugge totalmente perché esso stesso viene trasformato in immagine da diffondere soprattutto nella rete, dove la distruzione fatta immagine entra nel regno imperituro del virtuale. Qui, alla distruzione è garantita una durata insperata, una forza di testimonianza protetta in una dimensione iperuranica. Qui, l’opportunità di separare l’immagine dall’oggetto, l’immagine dalla cosa, la costitutiva riproducibilità dell’immagine (e dell’opera d’arte) diventano il mezzo attraverso il quale si fa della distruzione il documento di una sparizione. Questa modalità, che potremmo anche chiamare framing della stessa frammentazione, è simile alla documentazione delle performance artistiche e del teatro. Il nulla che resta di esse (nulla perché tutto si è già compiuto quando erano in atto) è e coincide con la documentazione. Tutte le opere che si costruiscono per mezzo del tempo come il teatro, la musica, e la performance alla fine del percorso sono senza resto, si distruggono completamente, a parte la memoria e l’immaginazione di chi vi ha assistito. E la documentazione che ne viene fatta accerta anzitutto che esse si sono costruite distruggendosi.

Riproducibilità, framing e documentazione sono procedure fortemente costitutive sia della distruzione delle rovine sia dell’originarsi moderno dell’opera d’arte. Il framing della frammentazione che sta nel cuore della distruzione delle rovine e della costruzione dell’opera d’arte è un doppio simultaneo modo di trattare il frammento: da risultato di uno smembramento a principio costruttivo per ottenere un’opera. Nell’arte moderna da questo processo si genera altresì anche un plusvalore: il procedimento di frammentazione stesso, a prescindere dai frammenti ottenuti, diventa processo del proprio oggetto. Il mezzo del framing è così il suo stesso contenuto. A vederla in una scena filmata, la costruzione dell’opera d’arte moderna sembra spesso una sorta di rewind della distruzione di rovine.

Non è tanto in nome di una disinfestazione religiosa dalle vestigia degli infedeli che oggi le rovine sono distrutte, ma in nome delle potenza costruttiva in opera d’arte che la frammentazione/framing di esse garantisce. Prova ne sia che anche in passato di tante grandi distruzioni di città, monumenti e rovine, come ad esempio quelle di Cartagine, abbiamo di frequente una documentazione, immagini, racconti o resoconti – nel caso di Cartagine: Polibio, Appiano, Livio, Diodoro, Valleio Patercolo, Zonara.

da “Distruggere le rovine”, PSICHE, 1, 2016 (Distruggere)