Interiorità

Il venditore di medicine è un docu-film di Antonio Morabito con Claudio Santamaria e Isabella Ferrari, uscito nel 2014 e del quale a mio modesto avviso si è parlato poco.

Un tema non certo inedito, quello del presunto potere delle industrie farmaceutiche e dei suoi rappresentanti, che nel film vengono dipinti come corruttori di medici più o meno compiacenti. Ad apparire in un cameo c’è anche Marco Travaglio (nella foto) che veste le parti di un medico apparentemente integerrimo.

Marco Travaglio - Il venditore di medicine

Trama

L’azienda di Bruno, come tante altre case farmaceutiche, pratica il comparaggio. Bruno ama Anna, (Evita Ciri) sua moglie, una professoressa di liceo, che non sa nulla delle pressioni che sta subendo dall’azienda a causa della crisi. Bruno è stimatissimo da lei, dai suoceri, dagli amici. Guadagna tanto e si è abituato ad un certo tenore di vita, al quale non vuole rinunciare.
Ma la situazione al lavoro precipita. Bruno non ha più lo smalto di un tempo, sta perdendo il controllo sui suoi medici. Lo scontro con un dottore etico (Ignazio Oliva) gli arreca una sconfitta senza precedenti. Ormai, per non essere licenziato, non gli resta che tentare un colpo veramente rischioso: corrompere un primario di oncologia, il Prof. Malinverni (Marco Travaglio), così da poter far entrare nell’ospedale il farmaco chemioterapico dell’azienda. Ma il medico sembra inespugnabile. Al lavoro le cose vanno male, e a casa Anna insiste che vuole un figlio, ma le contingenze asfissianti in cui vive Bruno non permettono a quanto pare niente di simile.

Brevi riflessioni

“Nessuno, dopo questo film, guarderà senza sospetto la più anonima scatola di medicinali, o almeno senza pensare di non essere vittima di una truffa“  ha detto Antonio Morabito, il regista.
 
In Italia il comparaggio è previsto come reato dal Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265 “Testo Unico delle Leggi Sanitarie”, agli artt. 170, 171 e 172, nonché dal decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 “Codice del farmaco”, all’art 147, comma 5.
 
La condotta illecita del medico consiste per queste norme nell’accettazione di utilità di qualsiasi natura (o di promessa delle stesse) allo scopo di agevolare, con prescrizioni mediche o in qualsiasi altro modo, la diffusione di specialità medicinali o di ogni altro prodotto a uso farmaceutico (e analogamente è illecita la condotta del farmacista che altrettanto riceva per analoga agevolazione della diffusione di prodotti a danno di altri prodotti dei quali abbia pure accettata la vendita).

Nel film si accenna anche ad una certa scuola che potremmo definire di cospirazionismo post-comparaggio, la quale sostiene che oggi le case farmaceutiche come Bigpharma pagano esperti del settore e medici, come testimonial, i cosiddetti opinion leader, per parlare ai convegni e direttamente attraverso i media delle nuove “epidemie” di malattie che stanno per colpire la popolazione. Martellando migliaia di volte al giorno e bombardando con tali informazioni create le menti di adulti e bambini, indurrebbero anche le persone sane a credere di essere malate, a pensare di avere quello specifico sintomo per proporre poi quel certo farmaco. Queste persone allora si recherebbero dal proprio medico curante per richiedere, e in alcuni casi pretendere, il nuovo, ultimo farmaco pubblicizzato.
 
Le sentenze e le condanne che comunque sono state inflitte alle case farmaceutiche non vengono forse pubblicizzate adeguatamente ma sono apparentemente in crescita per illegalità di vario genere.

In America Eli Lilly ad esempio, accusata di aver pubblicizzato illegalmente l’antipsicotico Zyprexa, ha pagato più di 2,5 miliardi di dollari a 34 stati americani. Nel 2009 Pfizer invece ha sborsato 2,3 miliardi di dollari per aver per aver commercializzato illegalmente l’antipsicotico Geodon, colluso con un gruppo psichiatrico prestanome. Le sentenze giudiziarie espresse in multe, rispetto agli introiti aventi redditi annuali di circa 600 miliardi di dollari, per quanto cospicue possono tranquillamente essere viste come semplici “spese aziendali”.

A partire da questa demonizzazione delle varie figure professionali vorrei cogliere l’occasione per analizzare invece un po’ più a fondo le aspre polemiche che su simili tematiche sono sfociate spesso in quelle posizioni ideologiche estreme che hanno oscillato tra la condanna dei farmaci in genere (degli psicofarmaci in particolare) ed una loro entusiastica idealizzazione (specie quando si aveva l’esclusiva dell’ultima miracolosa molecola made in Usa).

Prendiamo ad esempio gli psicofarmaci. Molto sostengono che un buon uso di psicofarmaci può permettere l’avvio di una psicoterapia o facilitarne lo svolgimento, sempre che il terapeuta vigili perché il paziente non affidi soltanto al farmaco il potere (magico) di guarirlo. Bisogna sgombrare il campo da un primo equivoco nel quale ci fa incorrere la denominazione “psicofarmaci”: essa, coerentemente con il nostro modo abituale di pensare, in base al quale crediamo che il reale sia rigorosamente suddiviso in fisico e psichico, veicola l’idea che tale suddivisione sia propria anche delle terapie (terapie fisiche, i cui effetti riguarderebbero soltanto il corpo, e terapie psichiche che influenzerebbero solo la psiche).
 
Forse si dovrebbe mantenere sempre vigile la critica nei confronti di quegli insidiosi errori del pensiero – così li chiama Bateson – che ci hanno portato a credere che quanto denominiamo “fisico” corrisponda per antonomasia a ciò che reputiamo reale e che quanto diciamo “psichico” rappresenti una elaborazione cosciente, soggettiva, secondaria di quella “realtà”.
Come agisce il farmaco? La risposta sembrerebbe fin troppo scontata. Siamo soliti pensare ai farmaci come costituiti da molecole – di “natura chimica o vegetale” – in grado di interagire con le strutture biochimiche dell’organismo umano (incluse quelle del cervello, infatti le conseguenze di tali interazioni sullo stato ideo-affettivo sarebbero da attribuire in primo luogo a modificazioni del metabolismo delle cellule del sistema nervoso centrale). Se l’uomo può essere colto come un assemblaggio di atomi, questo non elimina, ma rafforza, la necessità di ricercarne anche quella rappresentazione che ce lo fa cogliere come un insieme di emozioni, ricordi, desideri: cioè come “interiorità”.
 
Quanto affermiamo non è stato colto soltanto dalla riflessione psicoanalitica, perché ciò che Freud ha sintetizzato nella sua seconda ipotesi, biologi come Portmann e fisici come Schrödinger lo hanno pure affermato, rivendicando che il concetto di “interiorità” è riferibile a tutti gli elementi che costituiscono l’universo, non solo quindi all’uomo o a quanto l’uomo riesce a riconoscere come “vivo”.
 
In accordo con questi assunti, Luis Chiozza, proprio in un lavoro sulla “interiorità dei farmaci”, afferma che la suddivisione dell’universo che siamo soliti operare tra vivente e non vivente, animato e inerte, psichico e non psichico è indice dell’imperfezione del nostro apparato per pensare e non va addebitato a qualità proprie a quanto stiamo osservando.

Se così stanno le cose, non ci apparirà certo dissennato ammettere – con Freud, Bateson, Groddeck, Chiozza – che anche nella piccola, inerte pillola che assumiamo per sedare, ad esempio, un mal di testa è presente una interiorità. Naturalmente va subito precisato cosa si intende con tale nome che è stato scelto al posto del suo sinonimo “anima”, troppo carico di storia e di interpretazioni distorcenti. Certo con “interiorità” non intendiamo che quella pillola bianca potrebbe contenere una piccola “anima” allo stesso modo in cui si crede che un’anima (più grande) abiti il corpo o la psiche il cervello (in tal caso, rimarremmo sempre all’interno di quella visione dualista già in precedenza respinta).
 
In questa  prospettiva, che ogni volta che ingerisco una pillola, il “come” essa agirà potrò pensarlo anche alla luce della interazione fra la sua interiorità e la mia. Incontro non certo passivo perché in esso si produce una interpretazione-elaborazione dell’interiorità del farmaco, da parte dell’interiorità che lo riceve.

Insomma se noi siamo fatti di chimica forse anche l’anima (se esiste) è fatta di chimica, e se i farmaci sono sostanze chimiche forse interagiscono con quella stessa sostanza di cui è fatta anche l’anima, a volte come veleno, a volte come balsamo.