Un perpetuo andare attraverso la natura

Natura - Appennino

Guido Cavalli, Nel castagneto, Diabasis 2015

Non è facile approcciarsi alla poesia di Guido Cavalli. E non per una questione di oscurità semantica, quanto piuttosto di densità semantica, caratteristica purtroppo assente in molta poesia contemporanea, sempre piuttosto svagata, incline al non-sense o all’umorismo cerebrale.

Si tratta di una poesia tradizionale, cioè caratterizzata da una chiara attenzione alla metrica (prevalgono gli endecasillabi canonici, i decasillabi e i novenari), una sintassi articolata ricca di ampie e coraggiose similitudini (anche se non sempre efficaci), anastrofi ed enumerazioni, che creano condensazioni di significato e una certa tensione discorsiva di solito ben gestita dall’autore: «E quando ridiventerò bambino, / quando la bocca secca della fonte / rinnoverà il suo canto benedetto / sul prato in coltivato dietro casa, / e quando il melo più vecchio e tarlato / inchinerà i frutti alla mia mano / quando ore noiose scorreranno / ma senza più quest’acuto rimorso» (In fondo al parco).

La regolarità della versificazione, in particolare, con una prevalenza dei versi più lunghi della nostra tradizione letteraria, crea un ritmo lento e meditativo che induce chi legge a soffermarsi, a sostare sulle immagini e le parole dei componimenti, facilitando la partecipazione emotiva del lettore: «I lupi tornano sull’Appennino settentrionale. / Piccoli branchi compaiono all’orlo / dei boschi. Scendono lenti tra i campi, / fiutano l’aria dei paesi vuoti». L’elemento ritmico, unito al lessico mai troppo aulico eppure sempre elegante, ci dicono di un autore aduso all’ascolto e all’osservazione di sé e del mondo e incline ad un rispetto ormai raro della nostra più importante tradizione letteraria.

Nonostante queste caratteristiche e la contemporanea propensione a trattare temi “alti”, non ci si trova quasi mai di fronte ad un’eccessiva verticalità, grazie soprattutto all’andare narrativo e descrittivo e alla preferenza per la forma del racconto in versi, del poemetto, in cui Cavalli dà probabilmente le migliori prove di sé: «Ogni tanto nel fitto c’è più luce. / Se alzo lo sguardo tra i rami si apre / uno scorcio di cielo e più lontano / irraggiungibile vedo una cima / come una fonte scavata dall’acqua / e dal vento, e qualcosa luccicare / lassù» (Nel castagneto); «Salgo lungo la vecchia comunale. / Su questa strada, finita la guerra / attraverso le Alpi e la pianura / mio nonno è tornato a piedi dal campo» (La discendenza).

La raccolta, nel suo insieme, presenta una notevole compattezza tematica grazie a continui rimandi di tipo lessicale e semantico tra una poesia e l’altra, relativi ai temi più cari all’autore: il ricordo del padre, i boschi dell’Appennino, la flora e la fauna di quei luoghi. Questi rimandi, riportando il lettore continuamente indietro (anche grazie all’uso sapiente delle rime interne), uniti al ritmo lento e solenne degli endecasillabi di cui si diceva, determinano un andamento meditativo costante, quasi liturgico, estremamente coerente in sé stesso, che costituisce uno dei punti di forza del testo. Tuttavia, questa stessa lentezza ritmica, unita alla contemporanea sovrabbondanza di immagini, di similitudini e di metafore, potrebbe a volte risultare un po’ ostica al lettore.

Si diceva appunto delle immagini: nella prima parte della raccolta esse ruotano attorno alla figura del padre precocemente scomparso, al tema delle origini e del ricordo. Silenziosi paesaggi montani; contesti rurali familiari («è l’odore dei boschi di castagno. / è la cosa più antica che c’è in me.»); animali selvatici che scendono fino ai confini del mondo umano per annusarlo e conoscerlo nelle sue contraddizioni («ad annusare l’odore umano, la disperata / ansia d’essere felici e mortali»); ma, sopra ogni cosa, la rievocazione di un incontro chiarificatore col padre, momento desiderato ossessivamente specie nella prima parte della raccolta, nella speranza di risanare la ferita che ha segnato l’integrità esistenziale del poeta: «Con la notte viene il primo gelo. / Spaccherà la lucida corteccia / del melo, giù fino alla radice».

In tale contesto rievocativo la natura diventa il luogo mitico della serenità perduta, il simbolo di un Eden familiare («Lingua madre di un paese ormai remoto, / cancellato dagli atlanti della storia, / verde casa dell’infanzia, natura») squassato dal suicidio del genitore: «Una mattina di ottobre, in silenzio / aprì l’armadio e prese la pistola / di suo padre, un vecchio arnese di guerra / nascosto tra lenzuola bianche e fasci / di spighe di lavanda, e la finì». Essa è anche il luogo silenzioso che accompagna costantemente l’autore, luogo degli avi ma anche luogo divino, materna costante esistenziale la cui presenza può forse aiutare il poeta ad accettare il dolore, a oltrepassarlo: «Così vado attraverso la natura: / senza toccarla, senza trattenerla / seguo il sentiero che porta più in alto, risoluto alla rapida salita, / salgo fino alle cime / all’abbandono del riparo / all’esporsi all’aperto». Traspare comunque dalla poesia di Cavalli una speranza nella vita, declinata anche in senso cristiano come speranza nel Risorto; una religiosità delicata, mai invasiva, che si esprime attraverso il ritmo dei componimenti (un mantra, una preghiera di sottofondo) nonché ad alcune immagini ricorrenti, la più importante delle quali è quella della pietra, richiamo al masso miracolosamente spostato che chiudeva il sepolcro di Gesù, ma anche elemento costitutivo della natura, dei boschi e delle antiche case degli avi.

Bisogna poi ricordare un altro tema importante della raccolta, quello del fare poetico e della sua magia, definita da Cavalli «la scuola del presentire», titolo anche della terza sezione del libro. Si evidenzia una concezione classica (orfica) della creazione poetica, come frutto di intuizione, di un processo “sacro” in cui l’io può solo cogliere un accadere, captare segni e presenze, in un processo difficile da definire: «Questa pagina è un giardino incolto, / dove ad ogni stagione il vento / porta semi d’erbe differenti»; e ancora «le sue bianche / pagine sono spazio preservato / alla domanda. Ma déi indecisi / trattengono la parola che viene». Il rispetto per la parola è centrale («la parola è custode», dice Cavalli) ed essa, più che definire, deve provare a ricollegarsi ad una dimensione di silenzio, inteso come «il dire più alto»: «Noi cercheremo un poeta, / uno che non ammali le parole, / uno che non le affami d’aria vuota» (Da una lettera di Karl Heinrich a Georg Trakl).

Le ultime due sezioni del libro, in cui sono presenti alcune delle più belle poesie della raccolta, contengono componimenti dal tono meno drammatico e meno tradizionalmente lirico, in cui vengono descritti soavi momenti di vita familiare. Il dolore del ricordo si fa più distante, si «scioglie ogni rancore» grazie al «vincolo» degli affetti, la vita riprende a fluire con serenità; una condizione esistenziale resa efficacemente attraverso l’immagine delle figlie piccole che giocano nei boschi durante le consuete passeggiate del nucleo familiare: «Camminiamo sul fondo arrossato / della pineta. Io, tu e le bimbe. […] Si lanciano acuti richiami / sembrano gli ultrasuoni dei delfini / che giocano in fondo al mare […] Ed eccole laggiù, / ai piedi fossili del vecchio faggio, / figure libere del paesaggio».

Una poesia, quella di Guido Cavalli, lirica e narrativa insieme, mai prosastica, sempre stilisticamente curata, e che, pur cedendo saltuariamente a qualche stilema desueto che suona oggi un po’ artificioso (soprattutto nella sintassi: ad esempio la soppressione delle particelle riflessive di alcuni verbi) nasce sempre da un sentire autentico, capace di comunicare anche gli affetti più drammatici con delicatezza, controllo formale e notevole forza metaforica.

 

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