Metamorfosi. Roberto Beneduce legge Viveiros de Castro

METAMORFOSI. LE SFIDE DI UN’ANTROPOLOGIA DEI POSSIBILI. ROBERTO BENEDUCE LEGGE VIVEIROS DE CASTRO

L’unico significato politico possibile, oggi, dell’ontologia,
sta nell’accettare che alterità ed ambiguità non sono sussumibili
all’interno di un punto di vista trascendente.

Eduardo Viveiros de Castro

L’antropologo al di là dello specchio

Inventare la verità, inventare la cultura, fare la storia … L’autore di romanzi e l’antropologo si trovano talvolta sulla stessa riva a guardare le forme dell’esistenza e i suoi naufragi, a inciderne il brusio o modificarne il corso (penso alle scritture/confessioni di Michel Leiris, Georges Balandier e Marguérite Duras, o alla traiettoria umana e teorica di autori come Lucien Sebag). Co-incisioni che s’incontrano spesso nel luogo in cui la scrittura si fa espressione di coscienza storica e pratica di spaesamento, e l’etnografia ascolto non nostalgico di voci e saperi assoggettati, provocazione filosofica.
É a partire da queste prossimità che vorrei situare nel dibattito contemporaneo la prospettiva tracciata da Viveiros de Castro, l’antropologo brasiliano i cui contributi sono da anni al centro di un rinnovamento concettuale del sapere antropologico la cui portata non possiamo ancora misurare, ma il cui impatto, come ammette egli stesso, è andato oltre ogni attesa. Di tale prospettiva Metafisiche cannibali costituisce una sintesi particolarmente densa, a partire dall’ambizioso progetto di un’antropologia che per sua “nuova missione” si dà quella di essere “la teoria-pratica della decolonizzazione permanente del pensiero”.
Da ancella della penetrazione coloniale dell’Occidente e malinconica guardiana delle culture che l’espansione imperialistica e capitalistica andava demolendo, l’antropologia è chiamata ora a farsi protagonista di una decolonizzazione del sapere, e curare la violenza di modi di conoscenza che hanno classificato e gerarchizzato esperienze, pratiche, finendo spesso col giustificare le peggiori atrocità. Il primo gesto di Viveiros de Castro è dunque politico-epistemologico, campi fra i quali non vi è ormai più alcun discontinuità, secondo una tradizione che ha visto soprattutto in America Latina l’incontro di intellettuali, movimenti di difesa per i diritti delle popolazioni indigene, lotta contro gli interessi delle lobbie occidentali, critica postcoloniale delle categorie egemoniche. E come non cessa di ripetere nel corso del libro, le visioni indigene che descrivono un mondo incessantemente attraversato da ogni sorta di “attore”, di “soggetto” e di “essere” sono, propriamente parlando, nient’altro che teorie “cosmopolitiche” con le quali misurarsi, ciò che impone un atto di umiltà epistemologica radicale.
La sua antropologia (la sua filosofia) riconosce al sapere dell’Altro il posto a lungo negatogli nell’orizzonte della conoscenza, non accontentandosi più di documentarne le complesse architetture simboliche, le eleganti estetiche o i miti.
Dialogare alla pari con altre epistemologie e altre culture, criticamente rivisitando le teorie antropologiche e sociologiche che le hanno descritte e interpretate, o meglio: tradotte (applicazione di quel principio di simmetria di cui si fa portavoce da tempo l’opera di Bruno Latour) , raccogliere le sfide che le prime lanciano alle dicotomie su cui abbiamo fondato il nostro pensiero (quella fra esseri umani e animali, ad esempio, che in Gunther Stern-Anders marcava il peculiare statuto della libertà umana), riconoscere agli sciamani dell’Amazzonia lo statuto di mediatori fra mondi e specie diverse, questo l’invito di Viveiros de Castro.
D’altronde, la possibilità di un dialogo autentico con altre teorie del mondo è stato e continua ad essere la posta in gioco epistemologica più ardua dell’antropologia, come testimonia l’ostinata presenza di un vocabolario scivoloso o inadeguato (“stregoneria”, “feticci”, “animali totemici”, ecc.), di cui sentiamo i limiti, ma del quale non riusciamo a fare a meno. È su questo dialogo che continua ad interrogarsi la ricerca antropologica, sottoponendo le proprie osservazioni, le modalità con le quali ha tradotto o ridefinito l’esperienza dell’altro, a una rilettura severa quanto sistematica (la morte descritta come un mero “rituale”, ad esempio, dalla cui descrizione si finiva per espungere completamente il dolore dei sopravvissuti, ricorda Rosaldo). Ciò che siamo sospinti a scoprire sono tracce e oggetti a lungo ignorati: non diversamente da quanto accade alla giovane protagonista di Lewis Carroll, che dopo aver attraversato lo specchio ammette che “quello che già conosceva perché lo vedeva stando dall’altra parte dello specchio (…) erano cose comuni e poco interessanti, mentre il resto era quanto di più diverso si potesse immaginare”.
La citazione che Viveiros de Castro estrae dal primo capitolo di Through the Looking Glass and what Alice found there non può essere più appropriata: dal momento che la “svolta ontologica”, il prospettivismo, il metodo dell’equivocità “controllata” ed altri concetti del suo lessico generano nel lettore un’esperienza non molto diversa da quella di Alice: disappunto e sorpresa, abbandono delle categorie ovvie e sentimento di sperimentare un nuovo rapporto con il sapere (antropologico, nel nostro caso, che in Viveiros de Castro intreccia sapientemente i riferimenti ai miti indigeni con richiami letterari: Calvino, Lispector, Carroll…). E che gli oggetti sembrino vivi, come afferma ancora Alice (“Per esempio, i quadri appesi alla parete accanto al camino sembravano tutti vivi”), costituisce un passaggio non meno pertinente che ci aiuterà più innanzi ad introdurre un tema tutt’altro che marginale del dibattito suscitato dalle tesi dell’autore.
Riconoscere nel pensiero selvaggio l’espressione di sottili forme di conoscenza in grado di consentire l’adattamento ad ambienti ostili, o lo sviluppo di tecniche e di estetiche particolarmente sofisticate, non è del resto un contributo recente del pensiero antropologico.
Griaule, malgrado le aspre contraddizioni e i limiti segnalati nella sua etnografia sin dagli anni Trenta, non esitava a paragonare il pensiero dogon (Mali) a quello della Cina antica e dei filosofi greci; qualche anno dopo, Bastide, sull’altra sponda dell’oceano, dichiarava che nonostante le profonde trasformazioni conosciute dal candomblé, in esso era possibile riconoscere “un sistema armonico e coerente di rappresentazioni collettive e gesti rituali”: come in altri culti di possessione, anche nel candomblé era ben visibile, secondo l’autore, l’intreccio di complesse psicologie, cosmologie e teodicee. Eppure questa consapevolezza, questa sensibilità, non sono riuscite a impedire che la violenza epistemologica dell’Occidente stritolasse altre forme di vita (altri mondi, altre ontologie) riducendo spesso le loro cosmogonie a un cumulo di banalità, “rottami”, o romanticherie. Etnocidi ed “epistemocidi” sono andati di pari passo, mentre poco o nulla è stato scalfito delle nostre psicologie, delle nostre epistemologie, delle nostre politiche economiche, imperterrite nel trionfalmente interpretare il mondo, diagnosticarlo, intervenire sui paesi debitori, ma tremendamente irritate quando l’Altro, le sue strategie, ci restituiscono un’immagine di umanità nella quale non ci riconosciamo. Il giudizio di “arroganza morale” lanciato dallo psichiatra nigeriano Thomas Lambo negli anni Cinquanta contro i valori dell’Occidente, assunti alla stregua di standard universali, troverebbe senza dubbio buona accoglienza in quel libro non scritto da Viveiros de Castro che è L’Anti-Narciso.
La svolta ontologica dell’autore va però oltre quell’antropologia dialogica che aveva avviato con James Clifford un progetto non meno ambizioso (pensare il testo etnografico come prodotto dell’incontro con l’Altro). Proseguendo il lavoro di trasformazione concettuale promosso dall’antropologia d’oltreoceano tra gli anni Settanta e Ottanta (la crisi della rappresentazione, la cultura come invenzione, la definitiva messa in discussione dell’autorità etnografica), Viveiros de Castro propone un mutamento di prospettiva che rimette in gioco da una posizione inattesa anche i resti dell’animismo. Per avere la misura di che cosa significhi “svolta ontologica” basta leggere queste parole:

Le differenze ontologiche sono politiche perché implicano una situazione di guerra: non una guerra di parole, come per la ‘svolta linguistica’, ma un’ostinata guerra di mondi, e qui sta l’improvvisa, urgente insistenza sull’importanza ontologica delle nostre descrizioni etnografiche in un contesto nel quale il mondo (‘come noi lo conosciamo’) è imposto in una miriade di modi diversi ai mondi di altre società (il mondo come loro lo conoscono), e ciò sebbene [il nostro] sembri avviarsi a una triste fine, lenta e dolorosa. Non c’è nessun arbitro, Dio, Forze di Protezione delle Nazioni Unite o operazione di polizia in grado di riportare i delinquenti al loro posto. Certo, questa guerra non sarà combattuta attraverso tattiche di guerriglia, almeno sino a quando i poteri ai quali penso (BP, Shell, Monsanto o Nestlé) non lanceranno le loro atomiche.

Il conflitto è radicale, riguarda concezioni dell’esistenza, cosmogonie, accesso alle risorse naturali, diritto alla terra: e ciò senza soluzione di continuità. C’è un altro passaggio non mendo decisivo: la consapevolezza che un certo mondo (il nostro) stia volgendo al termine (la crisi irreversibile del capitalismo, il rischio di un’imminente catastrofe ecologica, ecc.), spinge a interrogare il patrimonio di esperienze e di conoscenze di chi questa catastrofe l’ha già vissuta. Le società amazzoniche, dopo tutto, hanno visto il loro mondo propriamente dissolversi, e in qualche misura hanno provato a resistere, a sopravvivere. Noi possiamo attingere alla loro esperienza dell’apocalisse per evitare forse la nostra. Ma ‘ontologia’ è solo un altro modo di dire ‘cultura’?
La prospettiva disegnata dall’autore vuole evitare che questo termine sia addomesticato e banalizzato, e che l’antropologia ripeta ancora una volta il gesto egemonico originario di scrivere l’altro, dire la sua esperienza, interpretare il suo pensiero e il suo reale definendo persino – come aveva fatto Evans-Pritchard – ciò a cui davvero l’altro crede e ciò a cui solo finge di credere: stabilendo in altre parole come e fin dove “prendere sul serio” l’altro. L’antropologia alla quale egli pensa è, al contrario, una disciplina esitante, che fra le sue idee guida ha la consapevolezza metodologica di Marilyn Strathern (il problema per eccellenza della nostra disciplina è l’eccesso, non la scarsità di informazioni, ricorda l’autrice), e i suoi dubbi (dal momento che se un testo è inevitabilmente scritto con l’intento di persuadere il lettore, la questione è: “come creare una coscienza di altri mondi sociali quando tutto ciò di cui si dispone sono i termini che appartengono al proprio mondo?”).
La domanda di Strathern è il problema metodologico di sempre, al quale il prospettivismo di Viveiros de Castro cerca di rispondere sulla base di un’accurata etnografia (amazzonica, in larga parte) e di una riflessione filosofica nutrita dal pensiero di Deleuze e Guattari.
È in fondo, questa, la stessa conclusione alla quale era giunto Hallowell (“Di fatto, si può affermare che uno studio accurato e ‘oggettivo’ di altre culture non può essere realizzato unicamente proiettando su quelle culture le astrazioni categoriali originate dalla nostra soggettività occidentale”), così come il nostro Ernesto de Martino, malgrado le ambivalenze che lo avrebbero spinto poi a prendere le distanze da quanto aveva arrischiato ne Il mondo magico.
Dalla riflessione di Deleuze e Guattari, nasce, in particolare, l’imperativo di non schiacciare nell’uno il molteplice, di lasciare la “porta aperta” (come fanno gli Ojibwa di Hallowell di fronte alla possibilità che anche le rocce siano animate), e fare “spazio all’altro” (secondo l’adagio di Isabelle Stengers, la filosofa e chimica spesso citata dai protagonisti della svolta ontologica), prendendo l’impegno di rovesciare i modi consueti dello sguardo e del conoscere antropologico, del suo gioco linguistico: quello per il quale l’antropologo conosce sempre de jure il nativo, e quest’ultimo il primo solo de facto.
Spezzare questa regola significa in primo luogo ricordare – con Herzfeld – che “gli informatori sono impegnati in pratiche teoretiche sebbene, per la maggior parte di essi, non nel senso [a noi familiare] di un impegno professionale, ma attraverso la performance di operazioni intellettuali direttamente comparabili” a quelle dell’antropologo. È un’affermazione che fa eco al pensiero di Roy Wagner (uno degli autori di riferimento di Viveiros de Castro), per il quale ogni essere umano è un antropologo e un inventore di cultura. Questo principio ha numerose conseguenze, e la più nota è senza dubbio l’urgenza di scegliere fra due ben diversi modelli di antropologia:

Da un lato abbiamo un’immagine del sapere antropologico come risultante dall’applicazione di concetti estrinseci all’oggetto: sappiamo già in anticipo che cosa sono le relazioni sociali, la conoscenza, la parentela, la religione, la politica, ecc. e andiamo a cercare come tali entità si realizzano in questo o quel contesto etnografico. Dall’altro (ed è questo il gioco qui proposto) sta un’idea di conoscenza antropologica che implica il presupposto fondamentale secondo cui i procedimenti che caratterizzano la ricerca siano concettualmente dello stesso ordine di quelli oggetto della ricerca stessa. Si deve sottolineare come una tale equivalenza delle procedure conoscitive presuppone e determina ad uno stesso tempo una non equivalenza radicale di tutto il resto. Così, mentre nel primo modello l’antropologia concepisce ogni cultura o società come avente una soluzione specifica per un problema generale (in grado di riempire cioè una forma universale – il concetto antropologico – con un contenuto particolare), il secondo, al contrario, sospetta che i problemi siano radicalmente diversi. Soprattutto, si parte dal principio, in questo caso, che l’antropologo non sa in anticipo quali siano [i problemi]. Ciò che, nel secondo modello, l’antropologia pone in relazione, sono problemi diversi, non un unico problema (“naturale”) e le sue differenti soluzioni (“culturali”).

La tranquilla rivoluzione delle cose
Ciò a cui l’Indiano sembra interessato è
la questione dell’esistenza, della realtà, e ogni cosa percepita
dai sensi, pensata, sentita o sognata, esiste.

Paul Radin

Prima di riprendere nel dettaglio qualcuna delle sfide lanciate dal prospettivismo, prima di interrogare il modo in cui esso cerca di risolvere lo “scandalo dell’incontro etnografico”, voglio però rapidamente ritornare su quelle co-incisioni alle quali ho fatto allusione all’inizio, e che trovano spesso nella letteratura (o nei literary studies), e in una particolare idea di interdisciplinarietà, un lievito particolare. Dopo tutto l’antropologia sa da tempo che sono proprio gli oggetti di confine, i fatti non ancora classificati o trasformati in concetti (quelli sui quali – ricordava Mauss – si pone l’etichetta “varia”), a custodire spesso il maggior interesse per il ricercatore. Come scrive Gillian Beer, “le idee non possono sopravvivere a lungo quando si fissano all’interno di un singolo territorio. Hanno bisogno del movimento di un pubblico apparentemente inappropriato”. Ciò è vero soprattutto quando esse sfidano il senso comune.
Le idee alle quali penso sono quelle secondo le quali anche gli animali (sebbene non tutte le specie nella stessa misura) hanno un’intenzionalità, un’anima, una “soggettività”. Che, al di là delle differenze, fra specie viventi ed oggetti si producono socialità e relazioni che rendono opache le abituali separazioni fra umano e non umano, soggetto e oggetto, animato e inanimato (le reliquie culturali di cui scrive Michel de Certeau, o le “choses-Dieu”, i feticci, analizzati da Bazin). Che esistono “persone” diverse dagli esseri umani (other-than-human persons), secondo la formula di Hallowell. E che luoghi, pietre o cose possano avere un proprio “punto di vista” :

Nel grande Nord come in America del Sud, la natura non si oppone alla cultura, ma la prolunga e l’arricchisce in un cosmo dove tutto si ordina a misura dell’umanità. Non sono pochi i tratti del paesaggio dotati di una personalità propria. Identificati a uno spirito che li anima di una presenza discreta, i fiumi, i laghi e le montagne, i tuoni e i venti maggiori, i blocchi di ghiaccio che ostruiscono i corsi d’acqua e l’alba sono considerati tutti come concrete personificazioni attente ai discorsi e alle azioni degli uomini.

Si tratta di idee che abitano numerose culture (quelle amerindie, quelle afro-americane), ma anche tradizioni molto lontane fra loro (basti pensare alla mitologia greco-romana). Nel saggio pubblicato qualche tempo fa in un’antologia il cui titolo, Inventing the Truth, ricorda da vicino le preoccupazioni dell’antropologia statunitense degli anni Ottanta, la scrittrice Tony Morrison offre intense immagini sul tema dell’autobiografia e della memoria. Una delle più celebri, alla quale ritorno spesso, è la seguente:

Sapete, hanno raddrizzato il fiume Mississippi per fare spazio a case e terreni abitabili. Periodicamente il fiume straripa in questi spazi. “Inondazioni” è la parola che usano, ma in verità non si tratta di uno straripamento, è un ricordare. Ricordare dove era un tempo. Ogni corso d’acqua ha una memoria perfetta e sempre prova a tornare dov’era. Gli scrittori sono un po’ così: ci ricordano dove eravamo […] È una memoria emozionale […] Un afflusso di immaginazione è il nostro “straripare” .

Che i corsi d’acqua ricordino i luoghi dove correvano un tempo, e che in questi luoghi provino a tornare mandando in frantumi gli argini con i quali l’uomo (la Cultura) cerca di controllarne l’impeto, è una felice metafora che accogliamo facilmente, un’immagine non molto distante da ciò che siamo soliti chiamare “le forze della natura” (reliquia linguistica di un animismo non lontano da quella “forza delle cose” di cui Mauss scriveva nel saggio sul dono). E che Morrison aggiunga subito dopo una metafora invertita altrettanto felice (l’opera letteraria, i versi di un poeta, possiedono la stessa forza misteriosa di un fiume che straripa: fanno affluire in noi con identica violenza il fiume di eventi passati), rafforza nel lettore l’impressione che si sia di fronte solo a un espediente retorico.
Se decidessimo però di prendere alla lettera questa affermazioni, ci troveremmo nel mezzo del progetto teorico di Viveiros de Castro, e con la sensazione di una opacità intollerabile: che cosa significa attribuire a un fiume, a un luogo, il potere di ricordare, che cosa significa riconoscergli la volontà di tornare dove scorreva un tempo? O ancora: che cosa implica l’idea che gli indiani della foresta boreale canadese concepiscano gli animali come persone ma non cedere alla tentazione di ridurre tutto a un puro gioco di metafore?
La prospettiva adottata dall’antropologo Roy Wagner nel libro L’invenzione della cultura, un testo impegnativo quanto innovatore scritto alla metà degli anni Settanta, va in direzione di questa stessa opacità e non meno spesse “tenebre del campo empirico”, proponendo in un passaggio lasciato quasi per caso alla fine di un capitolo sul potere dell’invenzione una prospettiva vicina a quella ora descritta:

Un fiume o un lago inquinato (l’inquinamento è la Cultura vista dalla prospettiva della natura) [from the standpoint of nature] brulicano di vita. È la “sopravvivenza” al massimo della sua esuberanza; dove una volta alcune cellule vivacchiavano, ora ne pullulano milioni. Una “cultura di massa” batterica certamente, ma una “vita” che nessuno realmente vuole .

Questi passaggi suonano entrambi come una sorta di commento alla proposta di Viveiros de Castro, la cui ricerca – come in Descola o Strathern – è rivolta a ripensare in modo radicale una delle dicotomie più diffuse: quella, appunto, fra Natura e Cultura. Il progetto di Viveiros de Castro può allora riassumersi nella seguente proposta: “Ogni esistente può essere pensato come pensante (esiste e dunque pensa), cioè come ‘attivato’ o ‘concatenato’ da un punto di vista” . Un fiume esiste, ricorda, possiede un punto di vista; un lago ha la sua prospettiva su ciò che definiamo “inquinamento”, un luogo assume il valore di “ancora” o memoria storica di eventi particolari (come suggerisce Keith Basso nella sua splendida etnografia dei toponimi apache), e l’uomo è privato così una volta per tutte del monopolio del punto di vista, dell’intenzionalità.
Una pietra, un animale, pensati in una rete di azioni ed reazioni, di relazioni, possono avere anch’essi un punto di vista. Altri esistenti (cose, animali, corsi d’acqua, rocce…), dunque altri punti di vista. Il sovvertimento proposto, ispirato dal pensiero di Deleuze, sostiene che ogni esistente ha un punto di vista a sé proprio, e le differenze non stanno nell’intenzionalità, o nell’anima (“formalmente identica in tutte le specie”), quanto piuttosto nei corpi, nelle apparenze.
Sullo sfondo di queste considerazioni prende rilievo la decisiva nozione di “collettivo” che – messe da parte le differenze d’uso fra i diversi autori (Viveiros de Castro, Descola, Latour) – impone di considerare atri modi di relazione e di scambio: “Milito, di fatto, perché gli organismi, gli attrezzi, gli artefatti, le divinità, gli spiriti, i processi tecnici, non siano più considerati semplicemente come una cornice, come risorse, come rappresentazioni più o meno illusorie, come fattori limitanti o strumenti di lavoro, ma piuttosto come agenti in interazione con gli umani in situazioni date”. A parlare di aggregati contingenti in relazione reciproca, tutti dotati di un proprio punto di vista, di un potere di causazione, è Philippe Descola, in un passaggio dove è esplicitamente riconosciuto il debito nei confronti di chi per primo ha pensato a quella “scienza che ancora non esiste”, ma Tobie Nathan avrebbe potuto egualmente enunciare un simile programma.
Porsi il problema di riconoscere nei corpi e nelle loro differenze la chiave di altre analogie o distinzioni è d’altronde un problema ben noto nella storia dell’antropologia e degli equivoci tragici che hanno scandito l’incontro con l’altro.
Originava in questa dialettica il famoso aneddoto riportato da Lévi-Strauss: le popolazioni delle Grandi Antille, osservando con cura se i corpi degli spagnoli fatti prigionieri e poi annegati andassero o meno in putrefazione, volevano scoprire di quale diversa natura fossero quei corpi (umana o divina?). Ciò che essi davano per scontato era la presenza di un’anima, là dove gli spagnoli, al contrario, erano ossessionati dalla domanda opposta, e cioè se gli indiani ne possedessero una. L’aneddoto proposto da Lévi-Strauss nel breve testo Razza e storia , ripreso con maggior dettaglio qualche anno dopo in Tristi tropici, ben esprime il dilemma sulla natura dell’Altro che attraversò il Seicento. Se in Lévi-Strauss la distanza che opponeva le patetiche “prove intellettuali” realizzate dalle commissioni d’inchiesta dei monarchi di Spagna alla curiosità degli indios dava origine a una riflessione di ordine morale (“di uguale ignoranza, l’ultimo procedimento era certo più degno di esseri umani”), in Viveiros de Castro quella distanza è l’occasione per definire un altro tassello del progetto epistemologico dell’antropologia: quello della “equivocità controllata”: un esercizio quasi aristotelico il cui asse ruota intorno al tema della traduzione e della comparazione:

Fare antropologia significa fare traduzioni, niente di più niente di meno (…). Ma come ristabilire le analogie tracciate dalle popolazioni amazzoniche all’interno dei termini delle nostre analogie? Che cosa succede alle nostre comparazioni quando le compariamo a quelle indigene? Propongo la nozione di “equivocità” come un modo per riconsiderare (…) questa emblematica procedura della nostra antropologia accademica che è la comparazione (…). Essa concerne il processo implicato nella traduzione dei concetti pratici e discorsivi del “nativo” (…). Oggi è senza dubbio un luogo comune dire che la traduzione culturale è il compito distintivo della nostra disciplina. Personalmente adotto una posizione radicale (…): in antropologia è la comparazione ad essere al servizio della traduzione, non il contrario (…). L’antropologia compara per tradurre, non per spiegare, giustificare, generalizzare, interpretare, contestualizzare, rivelare l’inconscio, dire ciò che è implicito e così via.

Parallelamente allo sviluppo di un’antropologia “ecologica non positivistica”, il tema dell’equivocità avrà il suo terreno di prova nella questione centrale del “prospettivismo” e nell’analisi delle cosmologie amazzoniche. La lunga citazione che segue esprime questo progetto con particolare chiarezza:

Una tale cosmologia immagina un universo popolato da differenti tipi di entità soggettive (subjective agencies), umane e non umane, ciascuna dotata dello stesso generico tipo di anima, cioè di intenzionalità e di capacità cognitive. Il possesso di anime simili implica quello di concetti simili, in virtù dei quali tutti i soggetti vedono le cose allo stesso modo. In particolare, gli individui della stessa specie vedono ciascun altro (e solo ciascun altro) come gli umani vedono se stessi, in altre parole come esseri aventi abitudini umane e aspetto umano, che percepiscono il proprio aspetto corporeo e il proprio comportamento in forma di cultura umana. Ciò che muta nel passaggio da una specie di soggetto a un altro è il “correlato oggettivo”, il referente di questi concetti: dove i giaguari vedono “birra di manioca” (…), gli umani vedono “sangue”. Dove noi vediamo fangosi blocchi di sale sulla riva di un fiume, i tapiri vedono la loro grande casa cerimoniale, e così via. Una tale differenza di prospettiva – non una pluralità di visioni di un unico mondo ma un’unica visione di mondi differenti – non può derivare dall’anima, dal momento che quest’ultima è il fondamento comune di ogni essere. Essa origina piuttosto nelle differenze somatiche esistenti fra diverse specie, dal momento che il corpo e gli affetti (ossia, nel senso di Spinoza, la capacità del corpo di influenzare ed essere influenzato da altri corpi) sono il luogo e lo strumento di una differenziazione ontologica e di una disgiunzione referenziale. Così, dove la nostra ontologia antropologica, moderna, multiculturalista è fondata sulla mutua implicazione dell’unità della natura e la pluralità delle culture, la concezione amerindia supporrebbe un’unità spirituale e una diversità corporea – o, in altre parole, una “cultura” ma molte “nature”. In questo senso il prospettivismo non è il relativismo come lo conosciamo – un relativismo soggettivo o culturale – ma un relativismo oggettivo e naturale, un multinaturalismo. Il relativismo culturale immagina una diversità di rappresentazioni soggettive e parziali (culture) che fanno riferimento a una natura oggettiva e universale, esterna alla rappresentazione (…) Il problema per il prospettivismo indigeno non è allora quello di scoprire il referente comune (il pianeta Venere, ad esempio) di due diverse rappresentazioni (la “stella del mattino” e la “stella della sera”). Al contrario, è quello di rendere esplicita l’equivocità implicata dall’immaginare che quando il giaguaro dice “birra di manioca” si sta riferendo alla stessa cosa alla quale pensiamo noi (una gustosa, nutriente e inebriante bevanda fermentata). In breve: il prospettivismo suppone un’epistemologia costante e ontologie variabili, le stesse rappresentazioni e altri oggetti, un solo significato e molteplici referenti.

La principale proposta del prospettivismo, ripresa in Metafisiche cannibali, sarebbe dunque questa: gli esseri non umani (animali, piante, spiriti) sono dotati di una capacità percettiva, di azione e di riflessione analoghe a quelle umane, e questo le rende di fatto “soggetti” o “persone-diverse-dagli-umani”, per riprendere l’espressione di Hallowell. L’estensione del campo di applicazione della nozione di “persona” impedisce in tali culture quel collasso semantico che ha visto ridurre il significato del termine al solo contesto umano, processo analizzato da Mauss nel saggio del 1938. Al contrario, nelle visioni indigene, ogni essere si situa nella prospettiva della “cultura” e respinge gli altri nello spazio della “natura”.
L’assunto che le etnografie amazzoniche sembrano condividere è che in, condizioni normali, gli umani percepiscono gli altri esseri umani come tali, mentre vedono gli animali come animali e gli spiriti (se li vedono) come spiriti. Da parte loro, gli animali predatori e gli spiriti vedono gli umani come animali (come prede), allo stesso modo in cui gli animali (le prede) vedono gli umani come spiriti o come animali (predatori), e se da un lato gli attributi corporei (pelli, becchi, artigli ecc.) sarebbero percepiti dagli animali come “decorazioni o strumenti culturali”, i loro sistemi sociali sarebbero riconosciuti non diversi dalle istituzioni umane. Come ne La fattoria degli animali: ma se in Orwell domina il gioco della metafora, qui si tratta di prendere alla lettera tali attributi.
Per Viveiros de Castro, “vedere come”, è bene ricordarlo, fa infatti riferimento letterale a quanto è percepito, non ad analogie concettuali (ed è quanto ci ricorda l’epigrafe di Radin prima riportata). Se, infine, la dimensione corporea è quella considerata come mutevole, costante rimane invece l’attribuzione di una intenzionalità, di un punto di vista, anche ai non umani, persino a ciò che definiamo solitamente “inanimato” (rocce, fenomeni metereologici).
Il racconto riportato da Descola nella sua etnografia achuar è a questo proposito eloquente. Il giorno dopo aver sognato Nunkui (uno spirito vegetale femminile) e averla seguita in sogno sin a un luogo dove luccicava una pietra, Wajari (l’indio presso il quale l’autore è ospite) va alla ricerca di questo grumo di silicato (una scheggia di vetro) e, trovatolo, ne fa dono alla moglie, Entza. Quest’ultima seppellirà a sua volta con cura il frammento di pietra, cantando un canto propiziatorio insegnatole dalla madre perché non si muova autonomamente, renda fertile l’orto e non attacchi gli uomini succhiando il loro sangue. Il canto della donna sarà però efficace solo nella misura in cui le “parole che agiscono” saranno state recitate nel modo appropriato, non diversamente da quanto accade per le richieste rivolte abitualmente alle piante di manioca perché siano generose, o ai cani. perché collaborino efficacemente nella difesa della casa e nelle attività della caccia. Sempre dovranno essere pronunciate con pudore.
Con un radicale rovesciamento delle ontologie occidentali, le visioni indigene – ignorando la dicotomia animato/inanimato – introducono una sensibilità particolare nelle relazioni con le cose, le piante o gli animali. Dentro una tale concezione, una serie di osservazioni etnografiche trovano coerente articolazione: in molte società africane, per esempio, parlare ad un albero, riconoscere nel mancato passaggio di un gregge che solitamente transita in un certo luogo il valore di una presagio, invocare il benvolere di esseri invisibili con un’offerta di cauri prima di intraprendere la caccia, osservare inquieti un tafano che si aggira ostinato sospettando che l’insetto altro non sia che uno stregone, costituiscono scene ordinarie di cui sono stato testimone innumerevoli molte. Esse non suggeriscono la presenza di un animismo ingenuo ma una diversa epistemologia.
Un ulteriore aspetto da ricordare è, infine, quello della dimensione propriamente linguistica alla base di questo raffinato e ben più affollato universo di “soggetti” e “persone”, una dimensione che rinvia a quella legge posizionale già evocata da Mauss nel saggio prima ricordato sulla nozione di persona, ripresa poi successivamente da Hallowell e altri autori (Basso, Jackson, ecc.), sebbene all’interno di prospettive diverse. Secondo Viveiros de Castro,

il primo punto da considerare è che i termini amerindi abitualmente tradotti come “essere umano”, che figurano in auto-designazioni apparentemente etnocentriche, non denotano l’umanità come una specie naturale. Essi si riferiscono piuttosto alla condizione sociale della persona, e funzionano (in senso pragmatico, non sintattico) meno come nomi che come pronomi. Essi indicano la posizione del soggetto: sono marcatori enunciativi, non nomi. Lungi dal manifestare la riduzione semantica di un nome comune a nome proprio (assumendo ad esempio che “persone” sia il nome della tribù), queste parole muovono in direzione opposta andando dal sostantivo al prospettico (e utilizzano il termine “persone” come un pronome collettivo del tipo “noi persone/noi”). Per questa semplice ragione, le categorie indigene dell’identità hanno un’enorme variabilità in relazione al contesto d’uso che caratterizza i pronomi, marcando di volta in volta in modo contrastivo i parenti stretti di Ego, il suo gruppo locale, tutti gli umani, o anche tutti gli esseri dotati di soggettività: la loro coagulazione come “etnonimi” sembra essere in larga misura un artefatto derivante dall’interazione con gli etnografi. Non è un caso se la maggioranza degli etnonimi amerindi entrati in letteratura non sono auto-desig-nazioni quanto piuttosto nomi (spesso peggiorativi) attribuiti da altri gruppi: l’oggettivazione etnonimica è fondamentalmente applicata agli altri, non a coloro che occupano la posizione di soggetti. Gli etnonimi sono nomi dati a terzi: appartengono alla categoria del “loro”, non a quella del “noi”. Ciò, tra l’altro, è coerente con il fatto che generalmente si evita l’uso autoreferenziale dei nomi personali, i quali non sono pronunciati né da coloro che li portano né in loro presenza: nominare è esternalizzare, separare dal soggetto. Così, il riferimento a se stessi in quanto “persone” indica semplicemente delle “persone”, non i “membri della specie umana”: sono pronomi personali che registrano il punto di vista del locutore, non nomi propri. Dire allora che gli animali e gli spiriti sono persone, equivale a (…) attribuire a non umani quelle capacità di intenzionalità consapevole e agency che definiscono la posizione del soggetto.

L’interpretazione di quella esitazione comunemente osservata in merito all’auto-designazione con i nomi personali (e della sorprendente ignoranza che persino i parenti stretti sembrano talvolta manifestare al riguardo, dichiarando ad esempio di non conoscere il nome dei genitori) è illuminante, quanto la necessità di tener presente il differente “orientamento cognitivo” (Hallowell) che nutre tali cosmologie e comportamenti, contrapponendo ai nostri dualismi una forma dell’esperienza (della memoria, e del rapporto con luoghi, animali e cose) radicalmente diversa. La sfida consiste nell’accettare strategie che sono, inutile ricordarlo, contro-intuitive. È questo, da una prospettiva non molto lontana, anche il suggerimento di Henare, Holbraad e Wastell: “Piuttosto che accettare che i significati siano fondamentalmente separati dalle loro manifestazioni materiali (significante vs significato, parola vs referente, ecc.), lo scopo è quello di esplorare le conseguenze di una possibilità in apparenza contro-intuitiva: che le cose possano essere trattate come significati sui generis (…). I significati non sono veicolati dalle cose ma sono proprio identiche ad esse”. O, per evocare un altro tema, dove l’influenza filosofica di Deleuze è decisiva, quello del divenire, e della necessità di “oltrepassare la barriera delle forme”:

Ora, questo non è possibile che in due circostanze: quando le piante, gli animali, o gli spiriti che sono le loro essenze rendono visita agli umani sotto la loro stessa apparenza (nei sogni, più spesso), e quando degli umani, degli sciamani in generale, vanno a visitare queste stesse entità (…). La metamorfosi non è dunque solo uno svelamento o un mascheramento ma lo stadio culminante di una relazione in cui ciascuno, modificando la posizione di osservazione che la sua corporeità originaria gli impone, s’impegna sino a coincidere con la prospettiva nella quale pensa che l’altro vede se stesso. Attraverso questo spostamento dell’angolo di avvicinamento attraverso cui si cerca di mettersi “nella pelle” dell’altro assumendo l’intenzionalità che gli si attribuisce, l’umano non vede più l’animale come lo vede abitualmente, ma come quest’ultimo vede se stesso, cioè come umano, e lo sciamano è percepito come non si vede solitamente ma come si augura di essere visto: come animale. Più che di una metamorfosi, insomma, si tratta di un’anamorfosi.

Le vertigini del prospettivismo non sono poche, bisogna ammetterlo, ma non devono essere esorcizzate. Le immagini e le definizioni di Descola e Viveiros de Castro aiutano a comprendere il significato del cannibalismo amazzonico e le metafisiche della predazione che lo fondano assai più di quanto abbiano fatto altre interpretazioni, e l’invito a considerare “dal punto di vista del nemico” i fatti recalcitranti che le etnografie non cessano di offrirci, può costituire un antidoto prezioso contro la consuetudine di un’antropologia che spesso, quando non riesce ad addomesticare e unificare la molteplicità rigogliosa e disorientante dell’esperienza sul campo, o delle ramificazioni concettuali operanti all’interno di altre ontologie, arretra nei territori rassicuranti delle “credenze” o delle “metafore”.

Sciamani, cacciatori, e poteri di metamorfosi. Il ritorno della questione.

I bianchi non diventano sciamani (…), non possiedono case o canti
degli spiriti (…). Dormono, ma nei loro sogni vedono solo quello che
li circonda durante il giorno. Non sanno come sognare
perché gli spiriti non portano lontano le loro immagini mentre dormono.
Noi, invece, siamo sciamani in grado di sognare molto lontano (…)
Abbiamo sempre sognato in questo modo
perché siamo cacciatori cresciuti nella foresta.
Omama ha messo dentro di noi il sogno quando ci ha creati.

Davi Kopenawa e Bruce Albert

La metamorfosi è il contrario della metafora
Gilles Deleuze e Félix Guattari

Quanti di noi ricordano Ipazia? Quanti di noi sono pronti, dopo aver ricevuto le parole del filosofo (“I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere”), a liberarsi delle immagini che si pensava annunciassero il segreto di questa città: “Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose”.
A ricordarmi di questa città e delle sue leggi singolari, della sua lingua, è stato proprio Viveiros de Castro. Non leggevo Calvino dall’adolescenza, e di colpo mi sono ritrovato nel labirinto delle sue città invisibili grazie a una citazione che non poteva essere più pertinente (del resto Calvino, in America Latina, era di casa). Ma l’antropologia delle Metafisiche cannibali, pensata nel dialogo con altre “etnoepistemologie”, definita a partire dalla sua “condizione traduttiva intrinseca”, non è l’ennesimo coup de théâtre del relativismo culturale. Essa lavora con altri materiali e – sullo sfondo di analisi rigorose delle attività, delle lingue e delle cosmologie delle popolazioni amazzoniche – si avverte il costante rinvio alla tragica storia della colonizzazione e dell’evangelizzazione, alle immagini di società e corpi amputati dalla violenza che segnò l’estrazione della gomma, alla morte che continua oggi a scandire la vita di queste comunità.
Per una coincidenza tutt’altro che casuale, infiniti fili s’intrecciano in esse e ne rivelano una trama fitta di rinvii al dibattito filosofico, politico, clinico che è opportuno evocare in queste considerazioni: la filosofia dei divenire-animale di Deleuze e Guattari, attenta al brusio ostinato di “deliri storico-mondiali”; le ricerche intente a mostrare come la psichiatria neocoloniale continui la sua opera di egemonizzazione e patologizzazione di comportamenti e minoranze; le etnografie interessate ad altre grammatiche del rapporto fra uomo e animale, o i modelli “zoopolitici” che proprio a Viveiros de Castro e a Deleuze si sono ispirati nell’analizzare l’esperienza della violenza, come nel caso di Lanford:

Il terrore praticato dai Khmer Rouge minacciò di far entrare degli esseri umani in un regno non umano, ma questo spazio [la giungla] offrì loro anche inattese e singolari possibilità di sopravvivenza (…). Quando villaggi, fattorie e templi sono trasformati in luoghi di guerra e di tortura, la foresta offre una contro-trasformazione dei rapporti sociali in un mondo dove la barriera ontologica tra umani e non umani in parte svanisce.

Queste prospettive, particolarmente preziose là dove ricordano come gli eventi e i drammi della storia partecipino dell’esperienza e ne plasmino i contenuti e gli orientamenti, sono discusse dall’autore in un lavoro recente dove, a partire dalla rassegna di ricerche realizzate in società del continente sudamericano, analizza “l’esperienza dell’incertezza e della disperazione” al cospetto delle incarnazioni dello Stato. E se lo Stato moderno incarna “l’assenza della parentela”, scrive Viveiros de Castro, non è un caso che il giaguaro, ossia “il tipico antagonista dei nativi in Amazzonia”, sia concepito come l’antitesi della parentela:

Non è una mera coincidenza se i grandi felini siano ovunque utilizzati come simboli imperiali, anche nell’America indigena. E se il giaguaro-stato è l’antitesi della parentela, è perché quest’ultima è in qualche misura l’antitesi dello stato. Anche dove i gruppi e le reti di parentela sono solidamente installati all’interno dello stato, è attraverso queste reti che significative linee di fuga rendono possibile sottrarsi all’apparato dello stato. In regioni dove, al contrario, la parentela è organizzata in modo da impedire la costituzione di poteri separati, come nelle società amazzoniche descritte da Clastre, la parentela non è tanto l’espressione di una filosofia egalitaria (…) quanto di una cosmologia prospettivista dove l’umanità di un soggetto è sempre a rischio (…), e dove l’incessante tensione derivante dal tentativo di appropriarsi di poteri non umani, rende possibile che ci si lasci de-umanizzare completamente da essi.

Sarebbe quanto mai facile trovare espressioni di questo principio nelle società e nelle insegne del potere in Africa (coloniale quanto postcoloniale). Il possibile orizzonte di esempi è d’altronde quanto mai ampio, e quello qui tracciato è solo un abbozzo incompiuto e provvisorio. L’etnografia che dà sostanza alle riflessioni della svolta ontologica nasce d’altronde in territori e fra popolazioni (gli Arawété per Viveiros de Castro, gli Achuar per Descola) dove il rapporto uomo-animale e le attività cinegetiche sono centrali, aspetto che gli autori riconoscono non essere secondario nella produzione delle cosmogonie e degli immaginari presi in esame. E tuttavia possiamo in queste conclusioni suggerire qualche spunto ulteriore a prova della fecondità di un tale modello.
Mickael Jackson sembra davvero vicino a tali riflessioni quando prende in esame la questione della metamorfosi e della stregoneria, dell’“ontologia del mutamento della forma”, fra i Kuranko della Sierra Leone, un paese dove la guerra civile, le atrocità, i massacri hanno intessuto una tragica trama di violenza con i locali immaginari religiosi, secondo modi analoghi a quanto suggerito da alcuni dei lavori evocati in precedenza. L’affermazione secondo cui gli uomini dotati del potere di metamorfosi (yelamafentinginu, “change things masters”) sono temuti perché il loro potere è concepito come l’antitesi dell’ordine sociale e familiare (alla stessa stregua della stregoneria e del suo potere distruttivo), ma al tempo stesso oggetto di una singolare ammirazione, è assai vicina alle considerazioni di Viveiros de Castro. Ciò che non è meno importante è, però, quanto Jackson afferma da un lato, sulle difficoltà metodologiche che l’etnografia incontra quando si confronta con tali narrazioni, trovandosi nella necessità di oscillare fra “sociologia della conoscenza” e “biografia” per arrivare a catturare il senso di affermazioni che il più delle volte sono respinte nel registro della credenza, del mito, o peggio ancora del sintomo…, dall’altro sulla peculiare concezione della nozione di persona che esse presuppongono e riproducono.
Una tale nozione (morgoye), scrive ancora Jackson, “riflette la priorità ontologica delle relazioni sociali sull’identità individuale” e denota tanto la persona vivente (il soggetto parlante, che pensa e agisce) quanto le relazioni interpersonali al cui interno soltanto egli può realizzare la sua piena esistenza.
Ciò che distingue radicalmente questa nozione dal concetto di “persona” della psicologia occidentale è ancor più il fatto che le relazioni che essa intreccia nel corso dell’esistenza includono quelle con “antenati, feticci, il creatore divino o gli animali totemici”. Dentro il registro messo in luce dalla etno-epistemologia kuranko, il rapporto con l’animale totemico è decisivo per comprendere l’idea della trasformazione animale e il senso di potere che tale metamorfosi conferisce al protagonista. Un’altra psicologia diventa necessaria per entrare nei meandri di tali esperienze e dei saperi che le fondano (o meglio: una etno-psicologia), e per comprendere quel desiderio di metamorfosi che l’intuizione folgorante di Abi Warburg aveva colto fra gli indiani Pueblos:

L’atteggiamento interiore dell’indiano nei confronti dell’animale è del tutto diverso da quello dell’europeo. Egli considera l’animale come un essere superiore perché l’interezza della sua natura ferina ne fa una creatura dotata di forze ben maggiori rispetto al debole uomo (…). Frank Hamilton Cushing, pioniere e veterano nella battaglia per la comprensione dell’anima indiana (…) mi disse, fra una sigaretta e l’altra, che un indiano una volta gli aveva chiesto perché mai l’uomo dovrebbe ritenersi superiore all’animale: “Guarda l’antilope, che è velocità pura e corre tanto più veloce dell’uomo; oppure l’orso, che è tutto forza. Gli uomini sanno solo fare in parte ciò che l’animale è, interamente”.

Le metafisiche cannibali illuminano le sottili epistemologie che le società amerindie hanno elaborato, e le visioni di un mondo insidiato dalla violenza e dal tradimento. Anche dietro l’apparente semplicità di risposte come quella riportata anni fa da Lucien Sebag sugli sciamani ayoreo (“Come si diventa sciamani? (…) Bevendo del succo di tabacco”), esse nascondono una complessa e raffinata ontologia del corpo, della cura, e del modo in cui delle sostanze vegetali assunte nel corso di un faticoso apprendistato, penetrando nel corpo dello sciamano, determinano la metamorfosi di chi, per curare, dovrà imparare ad attraversare i confini dell’esperienza e comunicare con gli spiriti, senza mai cedere alla tentazione di perdere la sua umanità. Di colui che forse incarna solo un’altra figura del guerriero. Si tratta di piste preziose per articolare alla storia e ai suoi conflitti quelle pratiche terapeutiche che ci siamo spesso accontentati di definire “tradizionali”, riconoscendovi il valore di critica sociale e di “insurrezione”, come ha suggerito fra gli altri Steven Feierman, e pensare un’antropologia all’altezza delle minacce che assediano il nostro futuro.