Il complottismo e la “sindrome di Notorius”

La sera di giovedì 14, dunque, un camion si lancia sulla folla che a Nizza festeggia l’anniversario della presa della Bastiglia e uccide parecchie decine di persone. Il mezzo è guidato da un franco-tunisino di 31 anni e a tutti viene in mente l’ISIS e l’ennesimo attentato. Il punto non è se l’ipotesi sia azzeccata o no: il punto è che per parecchie ore mancano notizie (vi scrivo nel pomeriggio di sabato 16 e mi pare che al momento nessuno sia in grado di giocarsi una mano sulla matrice islamica e terroristica della strage), per cui le conversazioni online si nutrono di quel poco che c’è.
Alcune, però, prendono un’altra piega, e già poco dopo il fatto un noto scettico dei social network pubblica la sua versione: a Nizza non c’è stato nessun terrorista, e la finta strage ha avuto come scopo quello di protrarre di altri tre mesi lo stato d’emergenza in Francia (avrebbe dovuto finire il prossimo 26 luglio).
Ecco il post:

ATTENTATO DI NIZZA: UN ALTRO FALSE FLAG
Lo schema è sempre il medesimo: immagini sfocate e riprese video mosse dalle quali non si evince assolutamente alcunché. Tra queste il video che riprenderebbe un autocarro dirigersi verso una zona oscurata dagli alberi (e che si dice abbia investito decine di persone) è stato realizzato, guarda caso, da un regista teatrale che, casualmente abita di fronte alla promenade! Ricordiamo che in casi precedenti, a partire dall’11 settembre 2001, per passare agli episodi di Parigi, avevamo tra i testimoni sempre registi, giornalisti, operatori televisivi etc.
Osservate la foto che rappresenterebbe il mezzo usato per investire i passanti: il parabrezza si presenta completamente crivellato di colpi, eccetto che nella zona del guidatore. Strano, vero?

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(Per una definizione di “false flag” clicca qui)

“Lo schema è sempre il medesimo”, scrive il complottista, e in un certo senso ha ragione, perché se cerchi sempre lo stesso schema, con buona probabilità trovi sempre lo stesso schema. I complottisti, infatti, davanti a fatti di questo genere cercano invariabilmente qualcosa che supporti l’ipotesi a priori che quello che tutti credono non è mai accaduto veramente.
Qui il dettaglio interessante è che per chi ha scritto il post i colpi che hanno crivellato il parabrezza e hanno ucciso l’attentatore non sono allineati col posto di guida. Ma sappiamo dalla prima lezione di geometria che non esistono due punti, per quanto distanti, per i quali non possa passare una retta: una sola, ma ci passa di sicuro. Dunque allineati lo sono per forza, al di là degli sforzi del complottista. Il problema, semmai, è se siano allineati con un terzo – che dovrebbe essere la posizione dello sparatore e che il complottista pretende che coincida con la posizione di chi ha scattato la foto. E infatti rispetto a quel punto non lo sono, ma non si capisce perché chi ha sparato contro l’attentatore dovrebbe averlo fatto dalla stessa posizione del fotografo.
Insomma: il solito schema, appunto.

Le teorie complottiste si applicano a qualunque fatto di cronaca che abbia una qualche rilevanza. Alla missione spaziale di Samantha Cristoforetti, alla morte del parlamentare leghista Buonanno, al riscaldamento globale, all’educazione sessuale a scuola, all’incidente ferroviario in Puglia, alla morte di John Lennon e a quella di Kurt Cobain, all’HIV, al delitto di via Poma e a quelli del mostro di Firenze. E, soprattutto, a ogni singolo evento di stampo terroristico, riconducibile alla jihad islamica o no, dall’11 settembre del 2001 in poi.

Da un po’ di tempo a questa parte la spiegazione che fa appello a complotti e simulazioni scatta rapida come un riflesso condizionato. Non quando un fatto misterioso continua a rimanere tale dopo anni, quando le spiegazioni razionali a portata di mano sono state provate e scartate, ma già poco dopo che è accaduto, e con tempestività proporzionale al senso di sgomento che la notizia ci provoca. Come una spedizione nello spazio – che ci fa sentire smarriti e profondamente incompetenti – e come un fatto violento che ci colpisce collettivamente.
bataclan_complotto-e1468671828189Ancora di più oggi, che scopriamo che per farci sentire vulnerabili non serve più essere infallibili macchine da guerra addestrate in un campo militare dell’Afghanistan: basta saper guidare un camion. In mezzo a quest’angoscia, quello in cui avviene la conversazione qua accanto (cliccate qui o sull’immagine per ingrandire) è un mondo in cui la strage del Bataclan non è mai avvenuta. Dite la verità: quanto paghereste, oggi, per vivere in quel mondo?
Ma non è solo quello: è anche un mondo dove è inconcepibile che una ricercatrice universitaria vada a un concerto heavy metal (e dunque non è successo). È un mondo in cui se solo una persona esiste, ha sicuramente un’identità su Facebook o su Google. Insomma, il mondo del complottista è un mondo ipercoerente e terribilmente ordinato.
[edit: certo, gli EODM non sono un gruppo metal: sto solo seguendo il ragionamento complottista, a parte l’equivoco che nasce dal nome del gruppo; anche se suppongo che con un altro stile rock sarebbe stata la stesa cosa. Che musica dovrebbe ascoltare una ricercatrice universitaria?]

Ma insomma, quello che state leggendo è il classico articolo che prende in giro i teorici del complotto? No, magari. La questione è un po’ più complicata.

Certamente il mondo come lo vede il complottista è un mondo abbastanza semplice, lineare e comprensibile. È un mondo di misteri assai poco misteriosi, che sono già svelati un attimo dopo. Niente implicazioni, niente sfumature di grigio, niente che richieda qualche competenza per essere compreso. Semplicemente, quello che ci dicono non è successo: se l’è inventato qualcuno. Ed è anche un mondo a-conflittuale. Un mondo in cui ci sono da una parte ricercatori universitari e dall’altra frequentatori di concerti heavy metal, che non si incontrano mai; ed è un mondo che azzera le differenze fra le culture, fra le diverse storie e visioni del mondo, fra le classi, fra i ricchi e i poveri, con tutte le complessità che queste differenze portano con sé. Perché restano solo in due: da una parte una élite che controlla le notizie, e dall’altra noi. I cattivi e i buoni. E questi ultimi, di solito, ci mettono mezz’ora per sbugiardare quelli. Un mondo a-conflittuale, appunto, perché nulla si contamina e viene a contatto. Solo una grande battaglia fra la luce e il buio, che del conflitto è una caricatura anche piuttosto ripetitiva.

complo1E però: denunciare l’inattendibilità delle tesi complottiste significa che il mondo è effettivamente quello che si vede dai mezzi di comunicazione, che le cose stanno sempre come ci vengono raccontate, che i processi che ci governano sono spalancati davanti ai nostri occhi? Significa che i giornali ci aiutano veramente a capire il mondo, e che ce ne danno un resoconto affidabile e disinteressato? Vuol dire che non è mai successo che qualcuno usasse il proprio potere per impedirci di conoscere la verità su fatti tragici della nostra storia? Anche sostenere questo sarebbe quanto mai ingenuo. Eppure, quando vedo dileggiate le ingenuità complottiste, non riesco a liberarmi dalla sensazione che l’effetto sia altrettanto semplificante: cosa vi inventate, cosa andate a cercare, se le cose stanno esattamente come è evidente che stiano? Come se la reazione a quella congerie di spiegazioni fantasiose consistesse nel rinsaldare la sicurezza e la fiducia in quello che vediamo.
Ma l’errore non sta nel fatto di domandarci se qualcuno ci inganni. Sta nel pensare che questo accada invariabilmente, tanto da spiegare, da solo, qualunque cosa. Sta nel prendere questa spiegazione come risposta universale, invariabile e precostituita che non ha bisogno di verifica.

Una questione importante, oggi, è che stiamo male senza sapere perché. Ci scopriamo più poveri e possiamo comprarci meno cose, ma in che punto esattamente qualcuno ci ha sfilato i soldi dalle tasche? E chi è stato, poi? Quasi nessuno di noi ha le competenze, ad esempio, di economia che servirebbero a capire quello che ci accade. Naturalmente c’è chi quelle competenze le ha, e possiamo decidere a chi di loro dare ascolto, ma decidere chi sia più affidabile, fra due o più economisti, richiede a sua volta delle competenze.
Credo che molti di noi vivano nell’esperienza di sentire le proprie esistenze guidate da agenti non identificabili.
Quando ci annunciano che dovremo affrontare qualche nuovo sacrificio, ci spiegano che “ce lo chiede l’Europa”. E questo aumenta la nostra percezione che le nostre vite siano dominate da un soggetto astratto e lontano, che certo non è un interlocutore né qualcuno con cui prendercela, mentre quelli più vicini, che un nome e una faccia ce l’hanno, danno la colpa a quello.

La complessità di un mondo interconnesso e la stessa economia di mercato creano un sistema in cui la responsabilità è diffusa e frammentata. Chi ha allevato il pollo che ho mangiato ieri sera? Chi ha prodotto il mangime che l’ha cresciuto? Chi l’ha macellato? Chi l’ha trasportato? Chi l’ha conservato? Chi l’ha confezionato? Chi ha fatto le leggi che regolano tutto questo? E se mi becco un’intossicazione alimentare, con chi me la prendo?
Quello che sperimentiamo un po’ tutti, insomma, è che delle cose che ci riguardano sappiamo sempre meno. Ciò che condiziona la nostra vita è una rete di processi complessi, e da questi processi ci sentiamo sempre più sconnessi.

scie-chimiche-1-640x512-2Ora, a dispetto del nostro bisogno di pensarla ordinata e coerente, la realtà è caotica. Non sempre le cose succedono perché qualcuno le ha ordite: spesso accadono perché sono il prodotto di lunghe catene causali non sempre e non necessariamente intenzionali. Cambiamenti nel clima e odi fra diverse popolazioni non hanno bisogno di una cabina di regia qui ed ora: sono risultati molto concreti di processi storici che vengono da più lontano di quanto riusciamo a vedere. Ma non vedere le cause di quello che ci capita è un’esperienza sommamente disturbante.

Mi è capitato a volte di avere a che fare con pazienti psichiatrici che assumevano farmaci senza saperlo. Qualche medico aveva deciso che qualcuno, nella struttura o a casa, avrebbe dovuto somministrarglieli di nascosto nel cibo o nelle bevande.
Se prendi un antipsicotico potrai valutarne le conseguenze sul tuo umore, la riduzione delle allucinazioni, magari qualche effetto indesiderato sulle prestazioni sessuali, e così via. Se lo prendi senza saperlo, però, ti potrebbe succedere di sentire il tuo corpo dirti delle cose che non capisci. Se ti sentirai rallentato o impedito in certe attività senza una ragione apparente, potresti cominciare a pensare che qualcosa o qualcuno controlli la tua mente e il tuo corpo. E così potresti cominciare a sentirti non proprio ben disposto verso le persone che hai intorno, e l’infermiere che ti scioglie l’olanzapina nella minestra potrebbe pensare che sei così ostile e diffidente che hai davvero bisogno urgente di quelle medicine.

Lo psicoanalista Fausto Petrella ha dato a questa situazione il nome di “sindrome di Notorious”, dal film di Hitchcock in cui la protagonista viene avvelenata quotidianamente, a piccole dosi, dal marito attraverso il caffè – lui è un agente segreto, ma questo non lo sa nessuno. La poveretta si troverà sempre più ammalata e debilitata giorno dopo giorno, e questo genererà il crescendo di dramma e angoscia che si scioglierà nel finale.
Nel caso del paziente, la percezione inspiegabile di inganno e falsità rompe quella possibilità di syn-ballein, di mettere insieme in una relazione che sia matrice di senso il paziente e le figure coinvolte nella sua cura (ne parla bene Angelo Malinconico in “Vecchi e nuovi sacerdoti nell’approccio comunitario alle psicosi”, pubblicato sulla Rivista di Psicologia Analitica, 2002/2).

Sentirci sconnessi dai processi che regolano le nostre esistenze è una delle nuove forme di sofferenza. Credo che questo finisca anche per minare in modo pericoloso i rapporti fra le persone.
Credo che mai abbiamo avuto una simile percezione che il mondo è così grande e allo stesso tempo così indecifrabile. Per molti di noi, una distanza percepita come inaccettabile non è più quella fra ricchi e poveri, fra chi comanda e chi è sfruttato, ma fra quelli che sanno le cose (i professoroni, no?) e quelli a cui sono nascoste. Non so se ve ne siete accorti, ma tanto diffuso è l’odio verso quelli che sanno le cose, che la pubblicità ne sta facendo una merce. Nelle inserzioni online sui siti che navigate, trovate sempre di più annunci del tipo: “vuoi dimagrire? Prova l’intruglio che ha fatto infuriare i medici“. “Perdi i capelli? Ecco la soluzione che gli esperti osteggiano“. E così via. Il problema non è che vivi male col tuo girovita o con la calvizie, è che c’è qualcuno che conosce la ragione per cui sei stempiato, ma non te la dice. E i buoni (i buoni? Ti stanno chiedendo denaro! E per una sbobba, perdipiù!) sono quelli che ti vendono non una soluzione più o meno utile per un problema, ma la verità che ti era occultata.

Se quello che sto dicendo ha senso, appare davvero mostruoso che una informazione che ci aiuti a orientarci nel mondo sia così rara, e che per lo più la stampa sia impegnata nel portare acqua a qualche genere di mulino, che non è quello di una migliore e più diffusa comprensione della realtà. Eppure una informazione decente, oggi come oggi, è necessaria persino alla nostra salute mentale.

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