«Ci fu un tempo in cui per gli uomini la natura non esisteva; e noi viviamo ora all’alba di un’altra epoca in cui la natura cesserà probabilmente di esistere».1

Una sera dell’aprile 1974, nel pieno della campagna presidenziale francese, tra uno spot pubblicitario e il telegiornale compare in televisione un signore dai capelli bianchi, occhiali e maglione rosso, che fissa la telecamera e beve un bicchier d’acqua. «Presto ci mancherà l’acqua, ed è per questo che bevo davanti a voi un bicchiere di preziosa acqua perché, entro la fine del secolo, se continueremo con tali eccessi, mancherà…» (l’OBS Hors-série n. 111, juin 2022). Con queste parole René Dumont, settant’anni, professore di agronomia comparata all’Agro, si presenta alla Francia come primo candidato ecologista del Paese per il partito Les Amis de la Terre. La sua entrata in scena suscita grande stupore tra i telespettatori e, anche se il risultato elettorale non sarà strepitoso, 1,32% dei voti, si capisce che qualcosa è cambiato e che, da quel momento, nessuno potrà più ignorare che la Grande Accelerazione del dopoguerra porta con sé un’enormità di problemi che sembrano destinati ad aggravarsi.

René Dumont

Prima di diventare ecologista e portare nel dibattito pubblico nuove tematiche, formando schiere di studenti che ancora oggi fanno dell’Agro un polo di dibattiti e riflessione critica sulle questioni dell’agricoltura, negli anni Sessanta René Dumont fu promotore dell’uso di pesticidi e delle nuove tecnologie per aumentare la produzione; venne inviato in Vietnam a insegnare ai vietnamiti a coltivare riso secondo la tradizione coloniale. Furono le nuove scoperte scientifiche dei primi anni Settanta a fargli cambiare idea. In particolare il rapporto Meadows del Club di Roma e il libro di Rachel Carson, Silent Spring (pubblicato in italiano da Feltrinelli con il titolo Primavera silenziosa). Da quel momento le critiche contro un sistema che porta alla distruzione e la volontà di informare il grande pubblico dei rischi che una produzione senza controllo stava materializzando, lo porterà ad accettare di candidarsi alle elezioni presidenziali e ad entrare di fatto nel dibattito pubblico vero e proprio.

Poco meno di quarant’anni dopo, il dibattito pubblico francese sull’ecologia, nonostante l’evidente fallimento dei partiti politici ecologisti qui come nel resto del mondo, continua ad essere vivo e accessibile al grande pubblico, il quale sembra essere molto interessato al tema. Il libro più venduto del 2022 (500.000 copie) è stato, infatti, un fumetto intitolato Le monde sans fin (Dargaud, 2021) scritto dal controverso Jean-Marc Jacovici e disegnato da Christophe Blain. Al netto delle polemiche che accompagnano le posizioni dell’ingegnere e studioso dell’energia Jacovici, fervente difensore del nucleare e critico feroce delle energie rinnovabili, il libro ha il merito di illustrare precisamente la catena di dipendenze che ormai ci lega all’uso dell’energia e di mostrare, a un pubblico ampio, il mondo che abitiamo e che abbiamo costruito.

Jancovici-Blain, Le monde sans fin

Tra gli anni Settanta e il 2022 in Francia sono stati molti i protagonisti che hanno animato e continuano ad animare il dibattito sull’ecologia e che lo arricchiscono di sempre nuove e diverse sfaccettature, facendolo uscire dal ristretto campo delle scienze, per allargarlo alla filosofia, all’arte, alla letteratura. Basti pensare ai filosofi Bruno Latour e Baptiste Morizot, i quali indagano nuove relazioni tra umano e non umano, all’antropologo Philippe Descola, il quale ha rimesso completamente in discussione il rapporto tra natura e cultura, al collassologo Pablo Servigne, che indaga le leggi dell’entraide (il mutuo aiuto) dimostrando quanto le società umane si basino sul mutuo appoggio e non sulla competizione, o al romanziere Pierre Ducrozet che ha scritto romanzi intrisi delle questioni che più interessano l’epoca antropocenica che viviamo.

Se in Francia questo dibattito riesce a essere così vitale è anche grazie a numerosi pionieri che a partire dagli anni Settanta, ma come vedremo anche da molto prima, hanno ascoltato i campanelli d’allarme che venivano dalle ricerche scientifiche, hanno osservato il mondo intorno a loro trasformarsi completamente e hanno ritenuto che questi cambiamenti non fossero sempre per il meglio, andando spesso a toccare temi che oggi iniziano a sembrarci ovvi, ma che all’epoca non lo erano affatto. Oltre a René Dumont troviamo, infatti, Françoise d’Eaubonne teorica dell’ecofemminismo (è stato recentemente tradotto in Italia per Prosepero Editore il suo Il femminismo o la morte. Il manifesto dell’ecofemminismo) e quella che un recente articolo dell’OBS ha definito «la santa trinità», composta da Jacques Ellul, Ivan Illich e André Gorz, tre pensatori che, pur provenendo da orizzonti e latitudini diverse hanno intrecciato idee e critiche radicali al sistema capitalista e fornito una base filosofica all’ecologia. Accanto a questi nomi molto noti troviamo, in quegli anni, un altro pensatore atipico, Bernard Charbonneau, il quale può iscriversi senz’altro nella stessa linea di pensiero radicale e la cui riscoperta è recente anche in Francia. In Italia è da poco stato pubblicato per la collana Ossidiana delle Edizioni degli animali il suo Il giardino di Babilonia, a cura di Daniel Cérézuelle e basato sull’edizione francese dell’Éditions de l’Encyclopedie Des Nuisances del 2002.

Bernard Charbonneau nasce nel 1930 a Bordeaux in una famiglia agiata della borghesia lot-et-garonnaise. Studia letteratura, si laurea in storia e geografia e ottiene la cattedra nel 1935. Insofferente alla vita cittadina, decide di farsi inviare come insegnante in un piccolo comune dei Pirenei, dove rimarrà fino al pensionamento. Insieme a Jaques Ellul, conosciuto durante gli studi a Bordeaux, negli anni Trenta animerà la rivista Esprit aderendo al movimento del personalismo comunitario. È proprio nel circolo di lettori della rivista Esprit che nasce quello che, molto più tardi, diventerà Il giardino di Babilonia, pubblicato una prima volta da Gallimard solo nel 1969.

Charboneau, Il giardino di Babilonia

Il nucleo originario di questo libro nasce come una sorta di manifesto per la costituzione di una Federazione degli Amici della Natura, con il titolo Le sentiment de la nature, force révolutionnaire, un progetto che non vedrà mai la luce perché interrotto dalla guerra. In quegli anni Charbonneau riprende il testo e allarga la sua analisi terminandolo nel 1944 con il titolo La morte di Pan. Il sentimento della natura di cui parla l’autore negli anni Trenta è la necessità da lui individuata di mettere al centro del discorso politico la natura. E questa volontà nasce da subito come questione non teorica, ma pratica. Una caratteristica, quella della messa in pratica, che contraddistinguerà sempre Charbonneau, il quale non si limita a delineare nuove teorie, ma a partire dal suo modo di vita lontano dalla città e immerso nella campagna pratica modi di esistenza altri. È nell’allontanamento dell’uomo dalla natura, acceleratosi nella modernità, che l’autore individua un problema di fondo. L’artificializzazione sempre più evidente e sempre più totalizzante della vita umana impedisce lo stabilirsi di un rapporto equilibrato con la natura; rapporto necessario all’umano, poiché senza la natura non potrebbe vivere. Inoltre, la tecnologizzazione dell’esistenza aumenta la necessità di organizzazione della vita umana e questa organizzazione sempre più serrata limita la libertà dell’uomo. Il nucleo del pensiero di Charbonneau è già tutto qui, in questo legame cruciale tra la terra e la libertà:
«La libertà dell’uomo un tempo era insita nella natura, ora ne è separata, ma deriva pur sempre da essa. Oggi che la natura dev’essere conquistata e difesa, chi dice libertà, dice natura: spontaneità. La spontaneità non è più al di qua, ma al di là della nostra civiltà. E la nostra stessa civiltà porterà a frutti duraturi solo se penetrerà abbastanza profondamente in noi da diventare natura» (Il giardino di Babilonia, p. 65).

Attraverso un’esperienza pratica e umana, una testimonianza inframmezzata da trenodie che individuano i cadaveri accumulati dietro la scia lasciata dalla potenza umana, l’autore descrive, osserva, percorre territori che cambiano pelle e traccia, in oltre venti libri, un quadro di quella che definisce La Grande Mue, la grande mutazione. Secondo lui questa mutazione, caratterizzata da una forte accelerazione del potere acquisito dagli esseri umani e dalla spinta totalizzante alla quale porta la tecnologia, è paragonabile alla rivoluzione neolitica e sta creando una nuova civiltà. La preoccupazione di Charbonneau è che questa mutazione porti alla fine della natura e di conseguenza alla fine della libertà. Per lo studioso francese il sentimento della natura non è qualcosa di astratto o romantico, non è un ritorno a una presunta età dell’Eden, ma è la consapevolezza che questo sentimento nasce nel momento stesso in cui l’uomo si è allontanato da essa e l’ha perduta. Charbonneau denuncia la direzione presa da una civiltà che rischia di schiantarsi contro la sua stessa fine e questa denuncia passa, come sostiene Daniel Cérézuelle, per «l’affermazione del senso della Terra» (Il Giardino di Babilonia, p. 23).

«Di fronte alla possibilità storica della fine della terra e della libertà, non è il senso dell’azzurro, dell’ideale, ma piuttosto il senso della terra che Charbonneau ci invita a coltivare. Contro l’ossessione tipicamente adolescenziale di una libertà radicale ma disincarnata, Charbonneau riscopre molto presto l’intuizione fondamentale di Nietzsche che, in Così parlò Zarathustra, si scagliava contro il culto alienante dell’ideale disincarnato e proclamava: “vi insegno il senso della terra”» (pp. 23-24).

Il giardino di Babilonia è diviso in quattro parti: La città nella campagna, Verso la città totale, Il sentimento della natura”, un prodotto dell’industria, Il fallimento del “sentimento della natura”. Nella prima parte l’autore descrive la trasformazione delle campagne e dei modi di vita contadini, la divisione tra città e campagna, il territorio delle province (una divisione che in Francia è molto netta, quella tra la capitale e le province). Nella seconda parte è il mondo urbano ad essere al centro dell’analisi di Charbonneau che, con grande lucidità, prevede l’espandersi senza confini delle megalopoli in una sorta di paesaggio totale e totalizzante. È da questo genere di paesaggio che si genera un «sentimento della natura», descritto nelle ultime due parti del libro, che porta alla nascita di pratiche naturiste, di turismo in luoghi che a lungo andare diventano protetti, naturali, ma anche prediletti e dunque costosi. Natura diventa dunque un’industria del turismo che promuove luoghi e paradisi artificiali “vista mare”.

L’analisi di Charbonneau, oltre ad essere in anticipo sui tempi, resta oggi uno strumento prezioso per evitare di sbandare contro le tante operazioni di green washing che tentano di mascherare solite predazioni. Ci mette anche in guardia dalle varie salvaguardie della natura che, se non adeguatamente misurate, rischiano di diventare un ennesimo organismo di controllo e di esclusione. Infine, questa analisi fa parte di qualcosa del quale ancora molti faticano a prendere atto, ovvero l’epoca di stravolgimenti che stiamo attraversando perlopiù inconsapevoli delle conseguenze che lasciamo sulla terra in eredità a coloro che verranno dopo di noi. Questa inconsapevolezza è la colpa più grande perché, «la vera sconfitta è rifiutare di prendere atto dello stato attuale delle cose. Per il resto, il futuro è nelle nostre mani» (Il giardino di Babilonia, p. 351).

———

Note:

1) Bernard Charbonneau, Il giardino di Babilonia, Edizioni degli Animali, Milano, 2022, p. 39.

———

Immagine di copertina:
Giardini Botanici Hanbury, La Mortola, Ventimiglia, foto di Elisa Veronesi.