Il 9 ottobre scorso ci ha lasciati Bruno Latour. In novembre è uscito, postumo, Trilogie terrestre, pubblicato dalle Éditions B42. Un volume che raccoglie la trascrizione di tre spettacoli teatrali realizzati insieme a Frédérique Aït-Touati, ricercatrice al CNRS, studiosa di letterature comparate, storica della scienza e regista. Si tratta degli ultimi progetti teatrali ai quali il filosofo francese stava lavorando ormai da diversi anni. Un legame, quello di Latour con il teatro, che risale al 2007, e a un primo lavoro teatrale sul clima, Cosmocolosse (2009), realizzato sempre in collaborazione con Aït-Touati e Chloé Latour. Attraverso il teatro Latour ha esplorato e messo in scena una nuova cosmologia che è già entrata a far parte delle nostre vite, ma della quale fatichiamo a prendere atto. A partire da Cosmocolosse – una tragicommedia climatica e globale, che era anche il titolo originario di quel libro importante che sarebbe diventato Face à Gaia. Huit conférences sur le nouveau régime climatique (tradotto in italiano per Meltemi con il titolo La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico) e nato dal ciclo di conferenze Gifford Lectures di Edimburgo – entra in scena un nuovo protagonista: Gaia, l’ipotesi di Lovelock sulla quale torneremo più avanti. Ma, soprattutto, Cosmocolosse è l’allegoria vivente dell’Antropocene, è la prima rappresentazione di un nuovo oggetto che entra in scena e che da sfondo si fa protagonista e occupa la scena. È la macchina infernale che non riusciamo a fermare, è l’effetto serra, è il Jantar Mantar, è l’osservatorio di Mauna Loa alle Hawaii, è la realtà che abitiamo, è un’entità mitologica vivente, una nuova era che entra prepotentemente nelle nostre menti. E che richiede nuove rappresentazioni, nuovi linguaggi e nuove mitologie. Da Cosmocolosse si svilupperà poi un altro spettacolo teatrale scritto, questa volta, da Pierre Daubigny, Gaia Global Circus, che rappresenta piuttosto le reazioni provocate da questa nuova entità. Seguiranno altre rappresentazioni che continueranno il lavoro di esplorazione e messa in scena di questa nuova era che abitiamo e che include altre entità oltre a quelle umane, come ci mostra Le Théatre des négociation/Make it work, realizzato da Latour e Aït-Touati nel 2015. Il 29, 30 e 31 maggio 2015 al teatro di Nanterre-Amandier 200 studenti provenienti da ogni parte del mondo hanno simulato gli incontri della Cop21 di Parigi, che avrebbe avuto luogo alla fine di novembre dello stesso anno, in una serie di dibattiti che si situavano ai confini tra arte e azione politica. Gli incontri erano aperti al pubblico e provavano a intercettare il fallimento delle reali Conferenze Internazionali per il Clima tenutesi fino a quel momento, nella convinzione che, alla base dei fallimenti e dei ritardi nell’azione politica, ci fosse un’errata rappresentazione della collettività umana e non umana che popola il Pianeta.

Bruno Latour, Trologie terrestre

Dopo l’esplorazione sulle popolazioni che abitano la Terra, con lo spettacolo Inside (2016), Latour e Aït-Touati tracciano una nuova rappresentazione del Pianeta che abitiamo. In Moving Earths (2019) si tratta, invece, di comprendere in che senso la Terra si muove e qual è il Pianeta sul quale dobbiamo atterrare e, infine, in Viral (2021) Latour esplora la consistenza della Terra e i legami tra i viventi. Sono questi ultimi tre spettacoli ad essere raccolti nel volume Trilogie Terrestre.

Prima di addentrarci nei testi della trilogia e nella ricca eredità latouriana, è utile ripercorrere brevemente il percorso del filosofo, se non altro per meglio comprendere questo suo interesse per l’arte e il teatro. Il teatro entra nell’opera di Latour sia per il tramite della rappresentazione che per quello della messa in scena e lo fa dagli albori della sua produzione, a partire da quel testo di stampo antropologico che è Laboratory Life : The Social Construction of Scientific Facts, scritto nel 1979 insieme a Steve Woolgar e ripubblicato in francese con il titolo La vie de Laboratoire. La production des faits scientifiques. La novità assoluta di questa ricerca era nel mostrare il lavoro degli scienziati come un insieme di fatti, aneddoti, eventi concatenati e nel rivelare dunque quanto la ricerca scientifica proceda per esitazioni e sia costituita di persone che hanno vite complesse. La pratica della descrizione, che Latour e Woolgar esercitano per due anni in un laboratorio dell’Istituto Salk di San Diego, rappresenta la vita in un laboratorio scientifico e la produzione scientifica come un evento ricco di moltitudini, di variabili, prove ed errori. La rappresentazione passa innanzitutto attraverso la pratica della descrizione che, da sola, mostra la molteplicità del lavoro scientifico e lo cala nel mondo sociale, nell’intento di accorciare quella distanza che ancora oggi continua a separare il sapere scientifico dagli altri saperi, producendo non pochi danni. Questo tentativo di ricucire i saperi è, tra l’altro, una delle caratteristiche maggiori dell’opera latouriana e un’azione necessaria nell’era antropocenica.

Con ancor più evidenza la metafora teatrale comparirà nelle ricerche su Louis Pasteur, pioniere della microbiologia. Nel saggio del 1984 e ristampato nel 2011, dal titolo Pasteur: guerre et paix des microbes, Latour analizza quanto le scoperte del biologo francese siano andate di pari passo con i cambiamenti sociali e siano dunque profondamente legate alla società. È qui che il filosofo parla per la prima volta di «théâtre de la preuve», ovvero della drammatizzazione che caratterizza la prova scientifica. Dagli albori della scienza moderna, legata appunto ad esperimenti, prove ed errori, la dimostrazione è la modalità con la quale si convince la società di una verità scientifica, e la dimostrazione equivale alla messa in scena di un evento, con testimoni oculari, di un procedimento per dimostrarne la veridicità.

Vedremo che, mentre il procedimento della descrizione continua fino alle ultime pratiche filosofiche di Latour (si tratta di una vera e propria filosofia pratica quella di Latour, che, del resto, si definiva un philosophe de terrain),(1) il teatro che Latour e Aït-Touati sviluppano non si limiterà affatto a un teatro pedagogico della dimostrazione, ma sceglierà di farsi esperienza incarnata e vissuta dagli spettatori stessi. Consapevole della storia della scienza moderna, Latour non si limita a imitarne il funzionamento, ma cerca di adeguare la comunicazione scientifica all’oggi, attraverso pratiche di partecipazione alle quali, tra l’altro, siamo ormai poco abituati e che risultano spiazzanti a un primo approccio.

Latour è dunque un filosofo che si interessa di scienza, ma lo fa con un approccio sociologico attraverso il quale arriverà a fondare la sociologia della scienza come disciplina. Scrive libri di stampo antropologico, del resto il suo interesse per l’antropologia è maggiore, e inizia a interessarsi di ecologia politica piuttosto presto. Lavora in Africa e negli Stati Uniti e, per questo suo approccio innovativo nei confronti della scienza, fatica a trovare spazio nell’università francese nella quale entrerà tardi: è nominato professore a Science Po solo nel 2006, insegnando prima per qualche anno a l’École des mines di Parigi, un’università che forma ingegneri, dunque dei tecnici. L’apertura che caratterizza il suo approccio e che si potrebbe avvicinare al pragmatismo speculativo di cui parla Isabelle Stengers, amica e collega di Latour, lo porta a utilizzare con disinvoltura il teatro per immergere lo spettatore nell’incertezza che caratterizza i mondi del possibile, proprio per insistere sulle pratiche che apre la possibilità, invece che sui compartimenti stagni e sulle chiusure.

Il teatro di Latour è dunque un «teatro-laboratorio»,(2) come lo definisce Aït-Touati nell’introduzione a Trilogie Terrestre, nel quale ritroviamo la pratica della descrizione attraverso nuove rappresentazioni del mondo che abitiamo, la messa in scena della pratica scientifica con l’illustrazione dell’ipotesi di Gaia di James Lovelock e della nuova cosmologia che essa delinea e, infine, il tentativo di prendere in considerazione tutto il vivente, senza lasciare materia inerte.

Ogni spettacolo della trilogia rappresenta ognuna di queste problematiche, a partire da Inside, realizzato nel 2016, nel quale viene messa in discussione la rappresentazione del mondo come globo. Latour, infatti, sostiene che non abitiamo su un globo, ma dentro quella che i geologi chiamano «zona critica», ovvero uno strato sottile nel quale prolifera la vita. Il National Research Council definisce così la zona critica:

«It is a living, breathing, constantly evolving boundary layer where rock, soil, water, air, and living organisms interact. These complex interactions regulate the natural habitat and determine the availability of life-sustaining resources, including our food production and water quality».

In pratica la vita è possibile solo in questo sottile strato tra la Terra e l’atmosfera, qui e non altrove. E questo implica che la rappresentazione del cosmo nata intorno al XVII secolo e che ha disegnato e designato un nuovo mondo, in particolare quello delle conquiste coloniali, oggi non è più funzionale ai problemi che caratterizzano la nostra epoca, problemi che mettono a rischio la vita stessa all’interno di questo spazio che è il solo spazio abitabile che abbiamo a disposizione. Se fino ad oggi quello che vedevamo era considerato “il fuori”, un panorama da guardare, da ammirare persino, in comodi istanti di sublime meraviglia, oggi il sublime scompare dietro alla consapevolezza di un ghiacciaio che si scioglie, come racconta Latour all’inizio della pièce, narrando di un episodio che lo vede protagonista mentre sorvola il Canada in aereo. Al posto di quella sensazione di meraviglia che aveva sempre provato guardando la Terra dal finestrino di un aereo, il filosofo questa volta ha visto emergere, tra i ghiacci, un volto che gli ha ricordato l’Urlo di Munch. La meraviglia lascia spazio all’inquietudine per questo spazio che sta mutando a una velocità mai vista prima.

Rimettendo in discussione il mito della caverna di Platone, nel quale il filosofo era colui che usciva dal buio del sottosuolo e arrivava alla conoscenza soltanto stando fuori, guardando da fuori e invitando gli altri a fare altrettanto, Latour, al contrario, invita a restare à l’intérieur e a dismettere questa visione profondamente radicata in Occidente di un fuori come forma di controllo e dominazione. E così l’immagine che la NASA rileva il 7 dicembre 1972 dall’equipaggio dell’Apollo 17 e conosciuta come The Blue Marble, non fa che iscriversi nella serie di miti occidentali che dal globo dell’impero romano passano per il globo dei papi, quello di Carlomagno e quello dei coloni spagnoli e olandesi. Una visione dall’esterno che non rileva un fatto quantomeno cruciale: dove abitiamo, dove siamo. Due questioni che Latour ha esposto molto bene in due libri pubblicati a qualche anno di distanza, ma che sono uno la continuazione dell’altro: Où atterir? Comment s’orienter en politique? (tradotto in italiano per Raffaello Cortina editore con il titolo Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica) e Où suis-je? Leçons du confinement à l’usage des terrestres (tradotto in italiano per Einaudi con il titolo Dove sono?).

Innanzitutto, atterrare e «redevenir terrestre». Poi cercare di comprendere dove ci troviamo, ridisegnando le carte e le mappe del mondo. Perché le rappresentazioni classiche che abbiamo a disposizione non dicono più il mondo che attraversiamo, un mondo nel quale: «gli scienziati insistono e affermano che ormai gli umani e la Terra sono, in termini di energia, in termini di erosione, in termini di trasformazione del ciclo geotermico, circa della stessa taglia» (Trilogie terrestre, Inside, p. 25). Le scale alle quali eravamo abituati non funzionano più, il microscopico e lo smisurato si confondono rendendo difficile una qualche forma di orientamento, e il disorientamento ha ormai prodotto un immobilismo politico dal quale fatichiamo a uscire. Latour individua alcune categorie che abitano oggi il pianeta, che sono più che altro delle reazioni all’iperoggetto Antropocene. Troviamo coloro che ancora credono alla narrazione della Globalizzazione, rappresentati molto bene dagli Stati Uniti che escono dall’accordo di Parigi; i pochissimi che preparano bunker, ibernazioni e viaggi spaziali, e i molti che, arretrando, si ricacciano dietro nazionalismi e compartimenti stagni. I terrestri, dal canto loro, una nuova specie in via di formazione, ricercano altri modi di abitare e di allacciare relazioni.

Ed è proprio per cercare di sciogliere questo immobilismo che entrano in gioco l’arte e il teatro. Nella possibilità di disegnare «nuove scenografie» (p. 29) perché occorre «trovare un altro stile, un’altra estetica che ci permetta di visualizzare le cose dall’interno e non dallo spazio (…) per captare l’originalità di questa Terra che non è un globo» (p. 29).

Le immagini presenti nel testo sono un tentativo di rappresentare graficamente la zona critica e prendono spunto dalle rappresentazioni che troviamo in un libro sorprendente uscito nel 2019 sempre per le Éditions B42, Terra Forma. Manuel de cartographie potentielle, scritto da Aït-Touati e disegnato da due architette, Alexandra Arènes et Axelle Grégoire.

Terra Forma propone dei modelli che presentano un terreno vivente e abitato da molteplici forme di vita. «Sol», «Point de vie», «Paysages vivants», «Frontières», «Espace-temps», «(Re)sources» e «Mémories» sono i modelli-capitoli del libro, ma sono, soprattutto, una mise en action che disegna futuri potenziali. Ogni modello rivolta come un guanto la visione alla quale siamo abituati arricchendo carte che solitamente sono abitate da linee e direzioni, ma vuote di vita vivente.

Frédérique Aït-Touati, Terra Forma

«Questa cartografia del vivente cerca di trascrivere i viventi e le loro tracce, di generare delle carte a partire dai corpi piuttosto che a partire da rilievi, frontiere e limiti dei territori».(3)

È un nuovo mondo quello che si dipana attraverso la narrazione di Latour in Inside. Non nuovo in estensione, ma in intensità, nell’esplorazione di questa zona critica nella quale siamo immersi, ma che conosciamo solo in parte. Un mondo esplorato attraverso nuove narrazioni che riallacciano scienza e letteratura in nuove modalità espressive: «è interessante vedere come gli affetti che sono stati modificati dal nuovo regime climatico sono oggi esplorati dalla poesia, dal teatro, o dalle arti visive». (Trilogie terrestre, p. 49)

Il secondo spettacolo della trilogia, Moving Earths, realizzato nel 2019, è una conferenza-spettacolo nella quale Latour e Aït-Touati mettono in scena un parallelo tra Galileo e gli scienziati James Lovelock e Lynn Margulis, ideatori dell’ipotesi di Gaia. A partire dalle manifestazioni dei giovani per il clima e da una società in fermento, viene ripresa la scena del carnevale nel film Galileo (1975) di Joseph Losey che mostra in maniera molto efficace come l’ordine sociale e l’ordine cosmico si trasformino di pari passo. E l’ordine cosmico attuale, secondo ciò che delinea Latour, è modificato dalla scoperta di due scienziati che, insieme, hanno formulato un’ipotesi la cui portata è pari alla rivoluzione scientifica galileiana: l’ipotesi di Gaia.

Nel 1979 Lovelock pubblica A new life on Earth (uscito in italiano per Bollati Boringhieri con il titolo Gaia. Nuove idee sull’ecologia), in cui espone per la prima volta la teoria che aveva elaborato lavorando nel Jet Propulsion Laboratory di Pasadena negli anni Sessanta. Chiamato a verificare se ci fosse vita su Marte, Lovelock, inventore di uno strumento di rilevazione delle particelle, delude le aspettative dei colleghi formulando un ragionamento: non c’è bisogno di andare su Marte per sapere se ci siano o meno tracce di vita, basta osservare con un telescopio e verificare se ci sia equilibrio chimico o meno. Se l’equilibrio c’è, allora non c’è vita. A partire da questa intuizione, lo scienziato prosegue il ragionamento immaginando che qualcuno osservi il Pianeta Terra da Marte. Quello che l’osservatore vedrebbe è un pianeta in disequilibrio chimico, tenuto assieme da esseri viventi e che dipende da questa relazione di composizione. E il fatto che questa relazione si mantenga nel corso di diverse ere geologiche presuppone l’esistenza di un qualche fattore di autoregolazione. Questo sistema è quello degli organismi viventi. «Gaia inizia quando, invece di essere passivamente sottomessa alla situazione che il sole e la geologia le danno, modifica attraverso i batteri l’ambiente nel quale si trova» (Trilogie Terrestre, p. 77). Mentre il resto del mondo occidentale era in piena conquista dello Spazio, James Lovelock concepisce un nuovo modo di guardare la Terra e, su suggerimento dello scrittore William Golding, la chiama Gaia, come l’antica divinità primordiale.

La Terra «si muove perché i viventi la fanno muovere ed essa si controlla da sola, mantiene l’ossigeno per milioni di anni, è qualcosa che si regola, un’autoregolazione. C’è un essere molteplice, un essere enigmatico, un essere avvenimento, un essere che si mantiene vivo per milioni di anni e che mantiene le condizioni che vi permettono qui di respirare» (Trilogie terrestre, p. 68). E questo essere enigmatico non ci permette di uscire fuori, è un essere di relazione. È su questa teoria che si inseriscono le scoperte della microbiologa Lynn Margulis, la quale studiando i microorganismi si accorge che tutti gli organismi complessi sono composti di organismi più semplici che vivono in simbiosi con loro. Mentre Lovelock ipotizza Gaia nel macroscopico mondo dei Pianeti, Margulis osserva il mondo microscopico e, insieme, queste scale di grandezza formano l’ipotesi di Gaia: un fenomeno unico nel suo genere. «È esattamente l’opposto della scoperta di Galileo. Galileo scopre che la Terra è un pianeta come tutti gli altri, cosa che ci fa entrare nell’infinito, mentre Margulis scopre il carattere assolutamente singolare di questa storia lunga 4 milioni di anni» (Trilogie terrestre p. 76).

Questo sistema autoregolato può, naturalmente, sregolarsi. Ed è quello che sta accadendo per effetto dell’azione degli uomini ed è anche quello che fa scendere in piazza milioni di studenti di tutto il mondo.

Il mondo dell’infinitamente piccolo e quello dell’infinitamente grande sono ripresi nell’ultima pièce della trilogia, Viral (2021), scritta da Latour, Nikolaj Schultz e Emanuele Coccia. A partire da un viaggio su Marte e dalla storia della conquista spaziale di un «pianeta morto e dunque controllabile» la «cosmologia terrestre» di Lynn Margulis si oppone a questi tentativi di fuga e di conquista. Una nuova cosmologia che si occupa dell’infinitamente piccolo, dell’andare in profondità invece che in estensione, consapevole che gli organismi non sono isolati, ma sono olobionti, «unità biologiche composte da un ospite (pianta o animale) e dai suoi microbi».(4) Questa nuova cosmologia ci è altresì suggerita dall’esperienza di Covid-19, un virus che ci racconta l’interdipendenza, l’interrelazione che ci attraversa e che ci dice molto più di quanto non vogliamo ammettere. «Abbiamo visto la Terra come uno spazio vuoto, calcolabile, mentre si trattava di uno spazio pieno, riempito di viventi che si sovrappongono. È questa sovrapposizione dei viventi intrecciati che fa si che noi esistiamo. Ci sono dei virus nei virus, i batteri, gli organismi; si muovono costantemente in questo mondo che è il nostro e lo costituiscono» (Trilogie terrestre, p. 108).

Gli scenari che il teatro e la filosofia latouriana hanno aperto sono enormi e ancora tutti da esplorare. L’eredità che il filosofo ci ha lasciati è costituita da molteplici punti di incominciamento attraverso i quali giungere a un pensiero politico efficace e pratico. È questo in fondo che cercava Latour, una nuova capacità di azione politica la quale, però, deve passare attraverso una ridefinizione degli attori politici, che non sono solo e necessariamente umani, del mondo che abitiamo e di ciò da cui dipendiamo per vivere. La creazione di una nuova «classe ecologica», che è ciò di cui si occupa un memorandum scritto da Latour insieme a Nikolaj Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, presuppone un lavoro di ridefinizione culturale e filosofico paragonabile a quello che alla fine del ’600 vide la nascita della classe borghese e delle recinzioni delle common land in Inghilterra. Una ridefinizione che dovrà cambiare molte cose.

«La definizione degli interessi, limitata sino a qui dalla dominazione economica, può essere liberata dal cambiamento cosmologico in corso. Cambiate la definizione di territorio, dei suoi componenti, dei suoi organismi, di ciò che permette le pratiche di allevamento, e cambiate anche la definizione di interessi così come le forme di terreno che abitate. Il vostro territorio è ciò da cui dipendete, quanto basta per farvi sentire vi trattiene».(5)

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Note:

1) Tratto da Conversation avec Bruno Latour, Zadig, n. 13, marzo 2022, p. 19.
2) Frédérique Aït-Touati, Bruno Latour, Trilogie terrestre, Éditions B42, Montreuil, 2022, p. 4.
3) Liberamente tradotto da, F. Aït-Touati, A. Arènes, A. Grégoire, Terra Forma. Manuel de cartographie potentielle, Éditions B42, Paris, 2021, p. 4.
4) Liberamente tradotto da, Marc-André Selosse, Jamais seul. Ces microbes qui construisent les plantes, les animaux et les civilisations, Actes Sud, 2017, p. 355.
5) Bruno Latour, Nikolaj Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, La découverte, Paris, 2022, p. 87.

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Immagine di copertina:
Bruno Latour in La trilogie terrestre | Inside, conférence-performance, 2016, Théâtre Nanterre-Amandiers (foto © Patrick Laffont de Lojo)