Negli ultimi tempi la filosofia italiana, nella figura di Carlo Michelstaedter, ha sollevato un ampio dibattito fra i cugini tedeschi. Il pensiero del giovane di Gorizia è stato addirittura giudicato un possibile precursore di Heidegger: non solo, pare che il pensatore germanico abbia trovato ispirazione dalla conoscenza del lavoro del goriziano.1 La dimensione internazionale del suo pensiero evidentemente è ormai indiscutibile. D’altra parte, notevoli studiosi e critici ne avevano negli anni già sottolineato la potenza evocativa, la complessità d’analisi, la vivacità di una prosa mai statica ma sempre fluida, ardente come i ragionamenti che il giovane Carlo gettava su carta mentre commentava la vita intorno a sé.

La sua biografia ha trovato commentatori autorevoli e testi estremamente dettagliati. Oggi, dopo oltre un ventennio, la casa editrice goriziana LEG ripropone la biografia scritta da Alessandro Arbo nel 1996. La scelta editoriale non può che far piacere, perché si tratta di uno dei lavori di maggior acume investigativo sull’argomento. Non è un caso che l’anno successivo alla pubblicazione questo studio vinse il premio letterario Comisso.

Alessandro Arbo, Carlo Michelstaedter

L’opera di Arbo, professore di musicologia all’università di Strasburgo e autore di molti studi,2 affronta l’intero arco della vita di Michelstaedter coniugando all’obiettività dello sguardo del ricercatore la volontà di non astenersi dal proporre interpretazioni, chiavi di lettura, opinioni esegetiche. Quando si affronta un autore come Michelstaedter, d’altra parte, è necessario. Nell’ottobre 1910, il giorno 17, il filosofo decide di togliersi la vita sparandosi con la pistola sottratta un anno prima all’amico Enrico, il quale sembrava avesse mostrato cedimenti a tal proposito.

Questo gesto drammatico – e sia chiaro: sempre imponderabile nelle sue ragioni – ha tuttavia stabilito una linea interpretativa, inevitabilmente. L’intera biografia ha dovuto confrontarsi con quel terribile singolo attimo ogni qual volta gli studiosi si siano soffermati a chiedersi chi fosse Carlo Michelstaedter, e le ragioni di una morte a soli ventitré anni.

Arbo comincia giustamente a parlarne partendo dagli anni del Gymnasium, dal giovanotto ancora ingenuo e pieno di ideali, per arrivare infine ai giorni dell’università e dei «sovrumani dolori»: la morte del fratello Gino (ormai è quasi certo anch’egli per suicidio); la fine dell’amica Nadia Baraden (suicidatasi in piazza con un colpo di pistola); la rottura definitiva, edipica, con la figura paterna e persino con la dolcissima madre, a cui lo legò un rapporto controverso.

L’indagine, dettagliata e precisa come poche, scandaglia i meandri della vita del giovane di Gorizia, le sue amicizie e la travolgente volontà di vita, definita da una semplice quanto inquietante sentenza: «La lampada si spegne per mancanza d’olio, io mi spensi per traboccante sovrabbondanza». Una confessione che è anche la sintesi di un’avventura terrena, spirituale, speculativa in cui è evidente quanto quell’impulso a vivere, così energicamente chiaro in ogni suo scritto, lo abbia condizionato fino all’ultimo, e sia la pietra angolare con cui misurarsi. Arbo ne sente tutta la potenza, e riesce a riportarla in un lavoro mai monotono o pedante, ma sempre vivace, quasi musicale nella stesura, capace di restituire al lettore la drammaticità di una vita appesa tra persuasione e paura di sprofondare nella retorica.

Sono questi i due orizzonti che coinvolgono Michelstaedter, l’alfa e l’omega con i quali giudica sé stesso. Nella sua opera più famosa, la tesi di laurea mai discussa intitolata appunto La persuasione e la rettorica, sintetizza quali siano i principali impulsi guida dell’umanità. Da una parte l’omologazione, la vita coatta, uguale in ogni istante, assuefatta alla consuetudine dei ritmi lavorativi alienanti, la vita mendace e priva di slancio; dall’altra la persuasione, che è… impossibile, ovvero non si dà come possibilità, non è una strada da imboccare ma il sentiero che ognuno si deve tracciare affinché «faccia di se stesso fiamma». L’analisi dei concetti di Persuasione e rettorica si accompagnano alle altre argomentazioni sviluppate nel Dialogo della salute e nei numerosi scritti vari lasciati in eredità ai posteri: Arbo traccia una linea ben precisa nel percorre la storia di un pensiero a cui facilmente si possa attribuire il «sostegno logico-ontologico» del suicidio del suo autore, ma non cade nel tranello di facili conclusioni. Se la critica ha intrapreso due sentieri diversi, uno di esegesi psicologica (collegare la biografia all’opera) uno più filologico storico (trattare la produzione michelstaedteriana a prescindere dal suicidio), ci sembra opportuno considerare una terza via il percorso migliore per avventurarsi a formulare dei giudizi, se richiesti. Nell’opera di Arbo c’è proprio quell’equilibrio consigliabile al fine di non cedere a comode suggestioni e esercizi retorici. D’altra parte, lo studio su Michelstaedter non si ferma, e nuove carte emergono continuamente, ipotesi capaci di scuotere alle fondamenta certezze consolidate, ipotesi che, se confermate, non potranno se non arricchire ulteriormente la bibliografia sul goriziano.3

Il lavoro di Alessandro Arbo iscrive definitivamente, ieri come oggi, Michelstaedter nel novero dei grandi pensatori europei: un filosofo che è tale per aver pensato la filosofia come fuga dal sapere insipido di molte aule universitarie, ma gesto «cosmico» di ricerca interiore, di liberazione, secondo la lezione degli antichi greci. «Guerra alle parole con le parole» affinché sia la vita a vincere, e non l’erudizione sulla vita. Lontano da qualsiasi forma di estetismo dannunziano, ma più vicino al Cristo, ai personaggi di Ibsen, a Tolstoj, il giovane Carlo Michelstaedter reclama una esistenza autentica, lontana dalla chiacchiera heideggeriana, e capace di restituire all’uomo l’unico valore in grado di rendere la propria esistenza vera: la libertà di forgiarsi e di essere autenticamente liberi. Così scrive nel 1910, in una sua poesia:

«il coraggio di sopportare
tutto il peso del dolore,
il coraggio di navigare
verso il nostro libero mare,
il coraggio di non sostare
nella cura dell’avvenire;
il coraggio di non languire
per godere le cose care».
4

Un coraggio esercitato a caro prezzo, e a cui ognuno, singolarmente, deve pagar tributo. La biografia scritta da Arbo riesce a far vibrare la tensione di una vita che fino all’ultimo giorno ha cercato di non cedere ai compromessi di una società il cui unico fine pare sia riempirsi la pancia e illudersi di vivere.

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Note:

1) A tal proposito, si rimanda all’articolo qui pubblicato: https://www.ibridamenti.com/2021/09/10/michelstaedter-reinassance/
2) A. Arbo, Il suono instabile. Saggi sulla filosofia della musica del Novecento (NeoClassica, 2017); Entendre comme: Wittgenstein et l’esthétique musicale (Hermann, 2013).
3) In 110. Carlo Michelstaedter e il tempo della verità (Ensemble, 2020), Chiara Pradella sostiene che Michelstaedter fosse sifilitico, e che la malattia l’avesse portato a compiere il gesto estremo. Questa ipotesi ha un forte impatto sull’esegesi interpretativa. La studiosa si interroga inoltre sul rapporto di Carlo con la madre e Rico, l’amico fraterno, sollevando domande ancora prive di risposte.
4) C. Michelstaedter, Poesie, Adelphi, 1987.

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Immagine di copertina:
Carlo Michelstaedter (a destra) e Gaetano Chiavacci a Boboli, Firenze, con alle spalle la statua di Scipione l’Africano, circa 1906.