[Proseguiamo nella ripubblicazione, con cadenza settimanale, del libro collettivo “A sé e agli altri. Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di S. Servolo”. Qui per altri dettagli e per la Prefazione al volume].

Morons

Morocomio femminile. Questo il termine usato fino al 1873 a Venezia, quando fu istituito il Manicomio femminile a San Clemente. Prima del Morocomio uomini e donne erano reclusi a San Servolo. Dopo lo spostamento le donne vennero concentrate nel Morocomio femminile dell’Ospedale civile. Là entra il 12 luglio 1870 Carlotta Grigoletto. Dalla provincia di Treviso.
Così recitano le sue dimissioni quindici anni dopo:

«Grigoletto Carlotta di Francesco e di Filiputti Paola d’anni 29, nata e domiciliata in Treviso (Campo Bernardo) cattolica, villica, nubile. Entrò in questo manicomio il 12 luglio 1873 proveniente dall’ospedale civile di San Giovanni e Paolo, dove era stata passata da quello di Treviso fino dal Gennaio 1867 e in quest’ultimo esisteva dal 1862.
Idiozia, sempre, naturalmente, stazionaria, di rado impulsiva ma non affatto di serio pericolo.
Uscì oggi 12 settembre 1885».

Nel 1885 Carlotta ha 29 anni. Entra all’ospedale di Treviso nel 1862, a 6 anni, e ci rimane fino al 1867. Età: 11 anni. Dal 1867 al 1870 non si capisce se fosse in libertà, fino a 14 anni, oppure dove esattamente fosse. Sicché nel 1870 entra al Morocomio femminile di Venezia e tre anni dopo passa a San Clemente. Da là viene dimessa il 12 settembre 1885. La cartella clinica recita: «Nell’agosto 1866 fu colta da un eccesso di follia con furore». All’età di dieci anni.
Diagnosi: Idiozia stazionaria (di rado impulsiva ma non pericolosa). Ventitré anni di internamento, senza efficacia, né risultato. Situazione giudicata naturale dal medico che firma le dimissioni.
Ma di che natura si tratta, se Carlotta Grigoletto è istituzionalizzata da 23 anni?
L’anamnesi all’esame obiettivo della fisionomia della paziente propone un’ipotesi fisiatrica: «Molto probabilmente causa le rachidive sofferte la tecca cranica non poté sufficientemente svilupparsi, il suo cervello ne rimase compresso e da allora è idiota e nel 1862 si avvertirono gli impulsi irresistibili così frequenti a notarsi in questa forma morbosa».
Per quanto la scrittura sia oscura, il termine sembra essere rachidive. È ipotizzabile la derivazione da rachide, l’innesto dell’asse di sostegno della testa e del tronco. Quest’asse nell’essere umano è verticale, nell’animale quadrupede orizzontale. È un asse che, nell’evoluzione dei mammiferi da quadrupedi a bipedi, si sposta, tendenzialmente da orizzontale inclinato nelle scimmie e, nel corso dell’evoluzione, a verticale nell’uomo, permettendo alla scatola cranica di allargarsi verso l’area occipitale, che crea spazio per la crescita progressiva interna delle aree corticali e alla liberazione degli arti superiori dal vincolo di sostenere il corpo durante la deambulazione.
L’altro termine controverso è tecca. Potrebbe essere teca (recipiente), in questo caso indicherebbe la scatola cranica e si riferirebbe a un imperfetto innesto del tronco nella scatola cranica, che impedirebbe al cervello di svilupparsi come un essere umano. Oppure tecca (teccola), derivante da toccare ma anche indicante l’esser tocco, cioè folle. Seguendo la prima ipotesi, l’oscuro linguaggio medico sta a indicare che Carlotta avrebbe un innesto tronco/scatola cranica imperfetta, un po’ scimmiesco, che ha impedito al cervello di svilupparsi. Causa fisiopatologica della sua follia, ma anche ipotesi antropologica inquietante: la donna scimmia, selvaggia, che a dieci anni ha il primo accesso di follia con furore.
Morocomio: dal greco attico moron, neutrale di moros: folle, stupido. Probabile derivazione dal sanscrito murah, idiota, latino morus, folle, termine mutuato dal greco. Linneo introduce una congiunzione tra moron e idiota, definisce l’idiozia: morosis, e indica il luogo dell’idiota fuori dall’albero delle specie create. L’idiota, nell’albero di Porfirio, ha una collocazione fuori specie nella partizione dell’animale. Non è animale razionale, e tuttavia non è neppure membro delle altre specie animali. Somiglia per aspetto all’uomo (animale razionale), ma non ne possiede il proprio, la sua umanità è un accidente. L’idiota rappresenta un collasso del Cosmos.
In Grecia Cosmos e Polis hanno la medesima forma e idios è il cittadino privato, che non ha diritto a partecipare alla polis: lo straniero. Per il lessico naturale indica un’alterità inclassificabile. Un buco nel linguaggio naturalistico, un salto. Ma, per Linneo: Natura non facit saltus.
Al volgere del secolo Venti i morons, negli Stati Uniti, vengono individuati tra coloro che hanno un’età mentale tra gli otto e i dodici anni. Attualmente si chiama ritardo mentale, il Quoziente Intellettivo (Q.I.) sta sotto il punteggio di settanta. Nel volume di A. L. Kroeber Antropologia, apparso in una nuova edizione nel 1948, al capitolo “Problemi posti dalle differenze tra le razze”, si racconta la storia dei test Q.I. usati per misurare l’intelligenza di gruppi umani, valutare la superiorità bianca, in particolare nella versione germanico-anglosassone protestante, e per decidere la vita di migliaia di bambini, donne e uomini in termini di:
– incarichi da attribuire nell’esercito;
– assunzioni sul lavoro;
– tipo di mansioni da svolgere in azienda;
– assegnazione del permesso di immigrare;
– assegnazione del tipo di scuola da frequentare;
– eventuali procedure di sterilizzazione.
Il razzismo e l’eugenetica degli inizi del Novecento trovano un supporto nei test intellettivi, bisognava difendere il territorio, un problema d’immigrazione. L’idea che l’intelligenza fosse genetica è stata difesa da un gruppo di psicologi a partire da Godard e Terman nella seconda decade del Novecento, fino al volume The Bell Curve di Hernstein e Murray, di Harvard: 1994. L’opinione di Francis Walker, presidente del Massachusetts Institute of Technology, agli inizi del Novecento, esprimeva un plauso a favore delle restrizioni immigratorie usando questi argomenti:

«Questi immigranti sono uomini battuti di razze battute, rappresentano i peggiori fallimenti nella lotta per l’esistenza. L’Europa sta permettendo ai suoi bassifondi e alle riserve più stagnanti della sua campagna degradata di essere espulse qui, sul nostro suolo» (Ayres, 1909).

Nel 1917 iniziano le pratiche di somministrazione di massa dei test intellettivi a coloro che cercano di immigrare e nel 1922, Carl Brigham, nel saggio divulgativo A study of American intelligence, scriveva a proposito dei luoghi e dei climi di provenienza degli immigrati negli Stati Uniti:1

«L’immigrazione delle razze alpine e mediterranee è cresciuta a una tale estensione negli ultimi trenta o quarant’anni che questo sangue ora costituisce il 70-75% del totale degli immigrati. Le rappresentative razziali alpine e mediterranee nella nostra immigrazione sono intellettualmente inferiori delle razze nordiche che prima avevano costituito il 50% della nostra immigrazione».

Carlotta Grigoletto avrebbe potuto essere parte di questa ondata ematica, e anche il suo psichiatra: razza alpina, Nord Italia, brachicefali. Ironia della sorte. Da Linneo in poi, il creazionismo non è solo una concezione delle scienze biologiche, è anche una macchina distruttiva che ingoia i propri stessi adepti e seguaci.

Elenchi: il linguaggio della degenerazione

Elenco viene dal greco elegchos: registro, catalogo. Sostantivazione del verbo elegcho: investigo, esamino, allude a un rito, una ripetizione, una classificazione, ma anche a un’intrusività. L’elenco del ritardo mentale era: moron, lieve, idiota, medio, imbecille, grave. Mongoloide, di uso corrente per definire la trisomia 21, ha a che fare con la classificazione di Blumenbach che indica nella razza mogol un effetto della degenerazione (Blumenbach, 1830). Un elenco richiama l’altro.
Blumenbach scrive nel secolo dei Lumi (la classificazione risale al 1775) e insegna all’Università di Gottinga, fondata nel 1734. Università nuova, libera dagli impacci ideologici e feudali delle università medievali, d’influenza britannica, dove si studiavano le idee degli illuministi inglesi. Il razzismo attraversa l’illuminismo, lo rende più incerto, meno salvifico. Anche Blumenbach gli appartiene, catalogatore che raccoglie la lezione di Linneo.
Per gli elenchi e le catalogazioni sistematiche, la differenza accidentale è perturbante: contraddice il cammino della scienza, appartiene al lessico della degenerazione. I testi di Linneo erano elenchi inseriti in quadri predisposti, definiti dalle specificità del genere prossimo. Linneo, quando la differenza specifica non si dà (per esempio la razionalità dell’animale razionale), ascrive l’episodio a un fenomeno degenerativo che corrisponde a un vuoto di substantia. Sono presenti bensì attributi caratteristici (bipede, eretto, parlante, ecc.), ma non la proprietà che definisce la differentia specifica.
Con Blumenbach abbiamo due tipi di sottoclassificazione degenerativa. In primo luogo la razza bianca – uomo, animale razionale, specie eletta, originaria del Caucaso – si deteriora nel tempo. Le degenerazioni danno vita a razze inferiori per razionalità. Animali semi-razionali, pseudo-razionali, classificazioni divergenti, decadenti. La razza media originaria sarebbe scaduta da un lato nella razza americana e, più giù, in quella mogol, e dall’altro nella razza malese e, più giù, in quella etiope.
A questa prima classificazione gerarchica Blumenbach aggiunge un elenco di elementi residuali inclassificabili:
– i Giganti Patagoni, che dall’epoca di Magellano ai tempi di Blumenbach si sono abbassati;
– i Quimesi del Madagascar, una razza di cretini, simili a quelli diffusi anche – così l’autore – in Piemonte e nel Salisburghese;
– i Blafardi Albini o Negri Bianchi, descritti anche da Linneo nei termini di Homo Troglodytes, creature definite disgraziate;
– infine i Fanciulli Selvaggi, dei quali nel Settecento a lungo si parlava in relazione all’episodio francese del medico Itard che aveva tentato di educare il ragazzo selvaggio dei boschi dell’Aveyron.
Con Blumenbach la teratologia di cui parla Foucault negli Anormali si raddoppia, vi sono due livelli di specie: quella delle razze degenerate, inferiori e quella degli individui degenerati. L’animale pseudo-razionale e il Socrate degenerato. Il problema dell’eugenetica, in questo delirio scientifico, è segregare le razze inferiori ed eliminare l’individuo degenerato perché diventa parte di un elenco che può dar vita a una nuova razza.
Come si ordina il discorso eugenetico? Come si crea il suo potere egemonico? Una volta definite le razze – superiore e inferiori – e gli individui inferiori che inquinano la razza superiore, si tratta di definirne le caratteristiche salienti. In che consisterebbe la loro inferiorità? Quando si giunge a questo livello descrittivo le razze – superiore e inferiori – sono diventate un dato, un fatto indiscutibile, sono elenchi di elenchi. Per esser tali i loro membri devono avere qualcosa in comune. La cosa che non si può più discutere è che, una volta compilato l’elenco, esso diventa composto da elementi comuni, la loro sub-stantia è espressione della verità delle razze. Reificazione: l’elenco è una classe, nella pura concettualista categoriale, un Reale.
Tzvetan Todorov (Todorov, 1991) osserva come questa operazione costituisca la verità scientifica della classe. Le considerazioni sulle razze vengono date per scontate persino da pensatori lontani da questo sospetto. Renan nel 1882 aveva tenuto alla Sorbona quell’importante conferenza su Che cos’è una nazione? In cui negava ogni «determinismo naturalistico», ponendo una questione tuttora all’attenzione degli studiosi (Gellner, 1992). Lo stesso Renan, in una lettera privata, si complimenta con Gobineau per avere scritto il saggio Sull’ineguaglianza delle razze, ritenendolo «pieno di vigore e di originalità di spirito».2 Non è un caso isolato, ma un clima culturale. Gobineau scrisse, a proposito delle “razze gialle”:

«… hanno scarso vigore fisico e tendono all’apatia…ad avere desideri tenui, una volontà che è ostinata piuttosto che estrema…In tutto tendono alla mediocrità. Capiscono facilmente ciò che non è troppo elevato o troppo profondo… I gialli sono gente pratica nel senso stretto della parola. Non sognano e non apprezzano le teorie. Inventano poco, ma sono capaci di apprezzare e adottare ciò che sanno usare…».

e delle “razze nere”

«… la varietà negra è la più bassa e si colloca al fondo della scala. Il carattere animale delle sue forme fondamentali ne determina il destino sin dal momento del concepimento. Essa non si discosta mai dagli ambiti intellettuali più limitati…» (Gobineau, 1893).

Questo per le razze, elenco di elenchi d’individui, elenco di proprietà che appartengono ai singoli individui di una categoria: scarso vigore fisico, apatia, ostinazione, mediocrità, carattere animale, limitazioni intellettuali, ecc. Il discorso sulla degenerazione non rispetta la teoria dei tipi logici di Bertrand Russell, parla di individui e di classi di individui usando il medesimo linguaggio. Il paradosso che ne consegue è che gli individui degenerati possono esistere solo dentro la razza superiore. Le altre sono razze degenerate, altro capitolo. Biologia da una parte, psichiatria, psicologia e pedagogia dall’altra.
Gli individui degenerati della razza superiore dove vanno collocati? Una volta definita superiore, la razza caucasica deve far partire l’eugenetica come garanzia di mantenimento della superiorità. Da sterilizzare non sono i figli dei neri o dei gialli, sono i nostri figli. Solo loro sono autenticamente idioti, perché vengono dalla razza eletta. Paradosso dell’eugenetica.
Gli psichiatri della degenerazione si occuperanno di questi sottoelenchi, li ordineranno in categorie diagnostiche, mostreranno, contro ogni evidenza, la convergenza tra i mala tempora e le degenerazioni biologiche, confonderanno la storia con la biologia. Sull’uso del termine degenerazione in psichiatria ci sono recenti studi (Barbetta, 2004, 2008, Valtellina, 2011) che hanno indicato la polisemia del termine e hanno analizzato l’orizzonte discorsivo psichiatrico che lo mutua dalla biologia. Si tratta dell’intera società, delle abitudini e della vita quotidiana, riguarda: cambiamenti sociali e culturali, urbanesimi (Morel), forme d’arte, letterature, crisi delle ragioni filosofiche (Nordau), rivolte operaie, criminalità diffuse (Lombroso), sessualità (Krafft-Ebing, Mantegazza), isterie, disturbi neurologici (Charcot), neuro sifilidi, ritardi cognitivi, demenze.
Abbiamo tratto tutte le conclusioni per definire Carlotta Grigoletto alla maniera in cui la differenza specifica definisce l’individuo Socrate. Socrate è un esemplare individuale di animale razionale di razza superiore. Di seguito, Confucio: animale razionale di razza inferiore, Cleopatra: animale razionale di razza e genere inferiore, Carlotta Grigoletto: animale degenerato di genere inferiore e di razza superiore. L’albero della degenerazione si ramifica, ma il tronco è ben piantato: maschio bianco, eterosessuale, caucasico (poi ariano), normodotato (ora neurotipico): il genere che addusse lutti al mondo più di qualunque altro, come profetizzato dal noto stasimo dell’Antigone. Rispetto a quest’ordine assiale, Carlotta è una bambina selvaggia.
Selvaggio è un altro termine di questa nomenclatura. Però selvaggio connota la parte attiva, ribelle, come nei romanzi di Conrad: il mondo altro, inquietante dei bambini selvaggi, descritti come esseri intermedi tra l’uomo e l’animale. Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, è un bambino allevato dai lupi, un bambino lupo. Nell’iconografia lo si rappresenta a quattro zampe, con un innesto orizzontale del tronco nella tecca cranica, malformazione fisiologica che danneggia il cervello. Bambina/donna scimmia, bambino/uomo lupo.
Alcuni studi storico-clinici più recenti (Firth, 1989) a proposito di Victor e di Kaspar Hauser, mostrano come si tratti di bambini autistici abbandonati. Il fatto che i genitori li abbandonassero era conseguenza della vergogna e del peso per una famiglia che faticava a sopravvivere tra persone normali, in grado di lavorare. I più, abbandonati, morivano. I sopravvissuti come Victor stimolavano le fantasie degli intellettuali illuministi. Nel 1846 Edouard Seguin scrive un lungo trattato sull’Idiozia, che ritiene essere una malattia nervosa che sottrae al bambino, e poi all’adulto, la facoltà della volontà, rendendolo istintuale e immorale. Una persona senza Super Ego, in preda all’Es, avrebbe detto la psicoanalisi.
Torniamo agli elenchi, con questa novità: i degenerati sono anche selvaggi. Gli elenchi sono un filo conduttore, servono a classificare e, prima ancora, a raccogliere individui da discriminare, o da infilare in una categoria. Ma sono pieni di ambiguità:
– l’individuo bianco che sta nel reparto del treno riservato, ma sembra un nero;
– il Presidente della Corte d’Appello di Dresda che impazzisce;
– lo psichiatra esperto di feticismo, che è feticista;
– il figlio di una donna ariana e di un uomo ebreo.
Casi indefinibili, degenerazioni incerte, ribelli alla partizione, da elencare. Una scienza che procede per elenchi, indagini, catalogazioni, schedature, per tenere il mondo sotto controllo, deve tenere conto delle porosità, delle anomalie di secondo livello, di terzo livello. Primo livello, la partizione di razza: inferiore/superiore; secondo: la partizione dentro la razza superiore: degenerato/specie specifico; terzo: la partizione docile/selvaggio. Il docile può diventare selvaggio, il degenerato si può ribellare, infine un individuo apparentemente superiore può rivelare tratti degenerativi.
La psichiatria non deve solo separare i degenerati, soprattutto li deve tenere sotto controllo. Carlotta Grigoletto viene definita dalle persone che la curavano: insolente, impulsiva, violenta, laceratrice, esaltata, pericolosa, idiota molto impulsiva, sudicia, oziosa, incurabile, ineducabile.
La diagnosi di Carlotta Grigoletto è Idiotismo (Idiozia). Così recita la cartella clinica:

«Si ignora affatto se vi sia predisposizione ereditaria.
Il documento che nel Gennaio 1867 l’accompagnava dall’ospedale di Treviso al manicomio di Venezia la diceva: “sin dal 1862 affetta da cerebropatia” e non precisa la forma, allora fu curata all’ospedale di Treviso dove uscì poco tempo dopo ma tratto tratto diede segni palesi di follia».

Alla nascita qualcuno osserva che Carlotta è una bambina strana, non risponde allo stesso modo degli altri bimbi, a sei anni viene ricoverata a Treviso, ma presto dimessa, a dieci è furiosa. Probabilmente i medici hanno già visto bambini strani come lei, ma non sanno che fare, così Carlotta cresce e viene di nuovo ricoverata quando una bambina poteva essere pronta per il lavoro in campagna, o forse in fabbrica. Si può immaginare che Carlotta fosse distratta da altre cose, poco incline a seguire ordini, incuriosita da strane sfumature e aspetti che gli adulti non vedevano e lasciata da parte nei giochi dagli altri bambini, che già lavoravano. Tratto tratto, dà segni palesi di follia. Come c’insegna Foucault (2004) questo è l’elemento chiave, la diagnosi assoluta. Non importa ancora la diagnosi differenziale – che tipo di follia? – ma la grande partizione: «tratto tratto diede segni di follia».
Carlotta era forse una bambina autistica, come nell’ipotesi di Uta Frith riguardo a Victor. Con il freddo il ragazzo selvaggio si avvicina alle case per trovare qualcosa da mangiare e viene facilmente catturato. Il medico Itard lo porta a casa sua, cerca di educarlo e ottiene risultati. Il film di Truffaut, del 1969, immagina la controversa relazione affettiva del medico verso il ragazzo. Victor risponde positivamente, si crea una sorta di transfert ante litteram e Itard, intellettuale illuminista, ne trae spunto per uno studio clinico. Il bambino era misteriosamente sopravvissuto, la diceria popolare accreditava un allevamento da parte dei lupi. Il caso Victor attrae interesse nel mondo illuminista; nel giovane, come dice Itard, vi è intatto il “sentimento morale”. Quel che emerge dall’interazione Itard/Victor è l’osservazione di una sensibilità non convenzionale.
Carlotta nasce settant’anni dopo Victor ma non trova un Itard che si prenda cura della relazione, la famiglia non l’abbandona, ma non sa che fare e, a sette anni, la ricoverano, rimane ricoverata; nel complesso una ventina d’anni. A 29 anni viene dimessa con una diagnosi di: «Idiozia, sempre, naturalmente, stazionaria, di rado impulsiva ma non affatto di serio pericolo». Naturalmente. Lacan diceva che gli avverbi mentono, lo si vede, natural-mente, dal suffisso.
Vediamo l’elenco delle note cliniche. Nel 1876 si descrive la corporatura all’età di vent’anni. Alta 1 metro e 34, pesa 41 chili.

«Febbraio 1874: “sudicia, insolente, cattiva, mestruata regolarmente”, così per tutto l’anno.
Gennaio 1875: “Lacera tutto ciò che le capita tra mano. Insulta le compagne, le pizzica, le percuote.
Non ha alcuna coscienza di sé né delle sue azioni. Vive continuamente-sempre girovaga (?) mestruazioni regolari”. A maggio, oltre a rilevare come sempre la regolarità mestruale, si annota: “A tratti è violenta e traditrice”.
1877: “Nessuna modificazione”. Questo il resoconto dell’intero anno.
Gennaio 1878: “sempre colta da impulsi pericolosi specialmente nel periodo mestruale” poi un idem per tutto l’anno.
Gennaio 1879: “l’esaltamento del senso intimo continua, da qui le grida e canti bestiali [ragazza selvaggia]. Gli impulsi specialmente nel periodo mestruale”, poi idem per tutto l’anno».

Gli appunti per gli anni a seguire diventano sempre più scarni. Nel 1881 si parla di esagerazioni connesse ai periodi mestruali, nel 1882 si annota «pericolosa per i suoi impulsi», nel 1883: «È agitatissima, e isolata» poi nel marzo dello stesso anno si scrive che è alquanto meno agitata e impulsiva. Viene il sospetto di un cambio del medico curante, che oltre a occuparsi di lei anche a marzo, osserva dei cambiamenti; e di nuovo a ottobre marca «tranquilla, fisico buono». Nel 1884 si annotano modificazioni apprezzabili, ma poi: «è un’idiota molto pericolosa». Che sia tornato il medico precedente?
Infine nel 1885 deve averla colta una malattia descritta nei termini di una comparsa di puntini su tutto il corpo, viene trasferita al Lazzaretto. Nel giugno dello stesso anno torna a San Clemente e di nuovo si scrive: «Idiota, molto impulsiva, sudicia, oziosa sempre, incurabile e ineducabile, fisico bene». Infine il 12 settembre la diagnosi di dimissione che ho riportato sopra e che ripeto: «Idiozia, sempre, naturalmente [che menzogna!], stazionaria, di rado impulsiva ma non affatto di serio pericolo». Dunque Carlotta è pericolosa dal 1875 al 1885, giugno. Poi tutt’a un tratto, a settembre, non lo è più affatto. Natura facit saltus.
La contraddittorietà, la superficialità, il disprezzo di queste scarne annotazioni mostrano la disattenzione, la mancanza di relazione, la violenza verbale che cela la violenza reale. Meglio abbandonata ai lupi. In tutti quegli anni di ricovero si scrive di condotte aggressive, disobbedienti, violente alternate a rari momenti di quiete, alle dimissioni si scrive naturalmente stazionaria, che cosa? L’idiozia? È evidente che la ribellione di Carlotta è segno d’intelligenza, sensibilità, rifiuto ad assoggettarsi, a diventare corpo docile. Piuttosto disposta a sopportare le reazioni repressive che immaginiamo. Quante volte sarà stata malmenata, legata, sedata, mortificata. Quante volte la sua dignità sarà stata calpestata. Colpisce la congiunzione tra questo disprezzo e l’ostinazione a tenerla rinchiusa.
Carlotta non è un caso isolato, né San Clemente un manicomio speciale. Si tratta di ordinaria amministrazione in tutta Europa. Il disprezzo per la persona ricoverata, la disattenzione e l’abbandono in cui veniva lasciata trovava giustificazioni cliniche diverse: per questi pazienti non c’era niente da fare, erano là, nel migliore dei casi, a morire, in modo tale che finalmente i medici si occupassero di loro studiando il tessuto cerebrale. Non ci sono persone crudeli in manicomio, il manicomio rende le persone crudeli.
Il dispositivo psichiatrico può essere distinto in macchinario di assoggettamento psichiatrico e macchinario psichiatrico di assoggettamento. Il primo si riferisce all’azione del dispositivo in generale. Macchine psichiatriche manicomiali. Della macchina di assoggettamento psichiatrico fanno parte anche gli operatori. Le pratiche diventano normali, il contesto crea una cultura collettiva, così fan tutti. Il Castello di Silling, visto da dentro è un mondo ovvio, non necessita di alcuna riduzione fenomenologica. Banalità del male, nel senso che ognuno, dentro quel dispositivo, diventa macchina banale, acefala. Il secondo riguarda il singolo paziente, che riceve la diagnosi e diventa l’oggetto che la diagnosi e le procedure d’intervento psichiatrico gli impongono di diventare.
L’elenco degli elenchi di tutti quegli individui residuali alla razza è il manicomio, posto in cui vengono raccolti gli individui inclassificabili. Più si ribellano, più sono selvaggi, peggio è. Più si assoggettano più mostrano la loro indolenza e la necessità del loro internamento riabilitativo. Sono di razza bianca, ma fuori genere: degenerati.
Dobbiamo fare una distinzione tra diverse tipologie di manicomi, a seconda dell’orientamento psichiatrico prevalente nel secolo XIX e nella prima metà del XX. Ci sono ospedali a prevalente orientamento biologico, dove la malattia mentale è malattia del cervello. Concezione dominante degli ospedali tedeschi a partire da Griesinger. In questi centri lo psichiatra raramente interviene, lascia ogni contatto con i malati agli infermieri.
Altri ospedali hanno orientamenti curativi, come la Salpêtrière di Charcot, coeva con San Clemente dell’epoca di Carlotta Grigoletto. La cura proposta, in questi casi, era psichica, da lì nasce la psicoterapia nella forma della suggestione ipnotica. Sulle orme delle esperienze francesi e sotto l’influenza della psicoanalisi, Eugen Bleuler introdurrà nuovi metodi di cura psicoterapeutici all’ospedale Burghölzli di Zurigo, dove lavoravano Jung, Abraham, Binswanger.
Poi c’erano gli ospedali a orientamento farmacologico. San Servolo e San Clemente avevano questo orientamento perché fondati dai Fatebenfratelli, frati speziali. In questo caso conta la prova terapeutica ex adiuvantibus. Si osservano gli effetti di una sostanza farmacologica, un virus o altra sostanza chimica, sui sintomi del paziente. Al museo di San Servolo si possono vedere i macchinari con i quali si iniettava il virus della malaria, ritenuto curativo di certe forme deliranti. Ma dalla cartella clinica di Carlotta Grigoletto non emergono neppure le usuali “attenzioni farmacologiche”, riservate agli altri folli. Questo ci fa pensare che Carlotta non delirasse, né avesse allucinazioni.

Idiotismo/oligofrenia

Abbiamo scritto: idiota, da idiotes (Rubinstein, 1998): chi non può esercitare la libera opinione, non può parlare francamente, pubblicamente. Foucault ricorda lo Ione di Euripide (Foucault, 1969) Ione vuole sapere chi è sua madre: «Non soltanto vuole sapere chi è, ma vorrebbe che lei fosse ateniese, in modo da acquisire, dal lato materno (mētrothen) il diritto alla parola libera, diritto alla parrēsia». Così Foucault traduce Euripide: «In una città di purissima schiatta, lo straniero ha un bel diventare cittadino, la sua lingua resta quella di uno schiavo [la sua bocca resterà schiava, stoma doulon; MF], senza libertà di parola [egli non ha la parrēsia; MF]» (Foucault, 1969: 80).
Ione rimane idios finché non trova le sue origini materne. Idios indica la persona che non ha voce in capitolo, le cui parole sono insignificanti. Un significante che, attribuito, nega la significatività di ogni altro significante. La bocca schiava, stoma doulon, è unita all’abbandono della relazione con la madre, la lingua madre: chi non può parlare la lingua madre. Chi non parla la lingua madre è un barbaro, un balbuziente. La lingua madre è la condizione d’inserimento nella comunità, l’idiota è fuori dal riconoscimento. Idiota nelle lingue occidentali è un insulto.
Persona che dice cose insulse, di nessun valore, senza sale, sciocche. Nel suono insulso/insulto si accompagnano. Una diagnosi insultante. Ipotesi confortata dalla lettura della cartella clinica. Come i blafardi albini di Blumenbach, razza di cretini, ma in quel caso si tratta di una razza in via di formazione. Carlotta invece è un individuo minaccioso per la razza.
Diagnosi e insulto si accompagnano, servono a togliere dignità ai pazienti. Enunciato performativo doppio, in una sei diagnosticata e insultata. Eppure Carlotta resiste fino al momento della sua dimissione.
Se Victor, come Ione, riacquista voce grazie al ritrovamento, Carlotta, dopo le dimissioni, scompare dalla scena dalla storia. Bisognerebbe recarsi nei pressi di Treviso per sapere se ne rimane memoria.
Ventisei anni dopo le sue dimissioni Bleuler userà, per primo, il termine autismo, che conia autos -da sé, oppure – con il suffisso -ismo, indicante una condizione di stato o azione: stare in sé, da sé, per sé, con sé, ecc., oppure, agire da sé, per sé. Come tutti i termini circolari e autoriflessivi produce una certa vertigine.
Prima di occuparcene bisogna considerare un altro significante che lambisce l’autismo: oligofrenia. Scarsamente. Lo lambisce per diverse ragioni. In primo luogo nel discorso diagnostico contemporaneo l’autismo grave si può associare al ritardo mentale. Lo spettro autistico, come il fantasma dell’opera, vive un po’ al di sotto e un po’ al di sopra del palcoscenico. L’autismo ad alto funzionamento comporta attività mentali elevate, spesso solo in alcune aree del sapere, con notevoli difficoltà di relazione; il Mild Autistic Disorder, che negli anni a venire (DSM-V) verrà a sostituire la sindrome di Asperger, comporta minori difficoltà di relazione e buone facoltà mentali, l’autismo vero e proprio, senz’altra determinazione, si può accompagnare con il ritardo cognitivo, l’oligofrenia.
Alcuni considerano l’oligofrenia un sintomo, non una diagnosi. Come tale può essere presente nell’autismo più grave, così come in innumerevoli altre forme patologiche. Ma distinguere l’oligofrenia dall’autismo non è facile. L’oligofrenia non è sempre accompagnata da una difficoltà di relazione, in molti casi lo sguardo è differente, meno estatico, più vuoto, le stereotipie dei movimenti, le ritualità sono assenti. Il termine oligofrenia ebbe notevole diffusione anche in pedagogia, connesso a pedagogie speciali: le classi differenziali organizzate da Giuseppe Montesano a Roma, all’epoca dell’assistentato di Maria Montessori, quando la psichiatria in Italia e in Germania si coniugava con la pedagogia speciale. Si parlava, in quelle circostanze, dell’educazione di bambini oligofrenici.
Come già scritto, il caos dell’inconscio psichiatrico può essere colto attraverso l’analisi dei significanti diagnostici. Immaginate una grande discarica, ove sono depositate tutte le parole che il discorso psichiatrico ha abbandonato. Ci avviciniamo alla discarica e troviamo parole che spuntano, riemergono secondo come muoviamo i rifiuti per cercare – come homeless, bricoleur, come cani randagi o ratti – qualcosa d’interessante. Ecco che spunta una parola, è già in superficie: oligofrenia. Attaccati per l’asse sintagmatico al suffisso si trovano frenastenia, frenopatia, schizofrenia, ebefrenia, frenetico, frenologia, freniatria, ecc., per l’asse paradigmatico: debolezza mentale, insufficienza, ritardo intellettivo, deficit, quoziente intellettivo, malformazione cognitiva, ecc.
Ma c’è confusione. L’asse sintagmatico non si rivela solo per il suono, anche per il senso, quest’asse è denotato dal termine fren. Secondo Ippocrate le frenes indicano due parti del corpo: il cervello e il diaframma. Il diaframma è una membrana di separazione delle parti alte, eteree, dalle parti basse, viscerali, del corpo. Il cervello prende il nome di frenes perché le idee vengono dall’aria, uno dei quattro elementi che compongono la materia, il più rarefatto. È fredda, per analogia connessa al flegma, all’inverno e alla morte. Sempre per analogia il diaframma assume aria, dunque anche il cervello. Considerazioni arcaiche, rimandano a Omero, come osserva Shirley Darcus Sullivan (Sullivan, 1988).
L’aria ippocratica è l’aria rarefatta che soffoca il neonato al momento del parto, il taglio del cordone che gli permette un nutrimento protettivo nel liquido amniotico. È così che si origina – negli esercizi spirituali orientali e dei Gesuiti – l’uso della respirazione attraverso il diaframma, per non soffocare nell’angoscia.
La sua funzione, che è altra cosa, è modulare la respirazione. Di qui il discorso medico intorno al soffocamento prenatale o perinatale. La sofferenza fetale che rende idioti, oligofrenici, autistici. Ma, una volta nate, queste persone, sono tuttavia soggetti e la sofferenza fetale non è una colpa. Come spiegare l’accanimento terapeutico loro inferto in tutti questi anni?
Sul piano sintagmatico il suono fren, riguardo al discorso medico e psicologico, si fa paradigmatico: mente. In senso sostantivo indica un oggetto invisibile che dà da pensare ai filosofi (che cos’è la mente?) fino alla lezione di Gregory Bateson intorno all’ecologia della mente.
In senso verbale: è una menzogna. Secondo Anna Maria Corti,3 la radice men di derivazione indoeuropea sta alla base sia dei termini mente, menzione, menzogna. Del nominare, in senso spregiativo e menzognero. Messi insieme fanno l’adulazione, il contrario della parrēsia.
Jean-Paul Sartre, in L’Essere e il nulla, scrive pagine dense sulla mauvaise foi. Uno sforzo di andare oltre l’idea freudiana d’inconscio, di ridefinirla, renderla più sofisticata. La mauvaise foi ha la stessa struttura della menzogna, solo con una differenza: nella menzogna mi rivolgo all’altro, che non conosce il mio pensiero, nella mauvaise foi invece conosco ciò che nascondo, lo nascondo davanti ai miei stessi occhi. Esiste una mauvaise foi comunitaria? Il dispositivo foucaultiano non è altro che mauvaise foi comunitaria.
La comunità accoglie, la comunità discrimina. Spesso accoglie discriminando, non sempre i degenerati trovano macchine di sterminio, come nell’abominio nazista, macchine di purificazione ematica, come nell’eugenetica, macchine di reclusione, come nei manicomi. Esiste anche un’accoglienza discriminante extramanicomiale: se riconosci la tua degenerazione, puoi essere tollerato anche dall’uomo delle scale, dal vicino di casa. L’invenzione dell’oligofrenia sembra avere questo mandato: puoi star qui, senza esser visto; oppure: cerca di comportarti normalmente, che diranno in paese?
Ai giorni nostri una variante dell’eugenetica, ancora largamente nascosta, è la normalizzazione. Se l’idiota non è parte dell’insensata gara per l’eccellenza, almeno rendiamolo normale all’apparenza: ben educato, senza passioni selvagge. Richiesta che, in molti casi, non è senza fondamento. Allora ci sono le istituzioni terapeutiche pronte a mentire, a darsi daffare per far credere che otterranno l’impossibile, il mercato garantisce lo spazio, nessuno dirà mai che l’obiettivo è il profitto, non la salute. Menzogna? Mauvaise foi? Secondo il concetto di meccanismo di soggettivazione psichiatrica si tratta di mauvaise foi. Una mauvaise foi che non è solo struttura del soggetto. Diventa struttura dell’assoggettamento: la forma in cui si presenta la normalità, la banalità del mio lavoro quotidiano come psicologo, psichiatra, medico, infermiere, logopedista, ecc. ecc. L’abbiamo definito inconscio psichiatrico perché è costitutivo della storia della psichiatria.
Asse sintagmatico: oligofrenia-frenastenia-schizofrenia-ebefrenia: poca mente, mente a-stenica (senza forza), mente dissociata, mente giovane (da Hebe, la dea della giovinezza).
Asse paradigmatico: oligofrenia-idiozia-imbecillità-ebefrenia (con Bleuler l’asse diventa qui doppio) -autismo-schizofrenia infantile: termini che hanno una parziale sovrapposizione per indicare il medesimo fenomeno patologico. Si dice anche, nei manuali psichiatrici, che l’autismo, a differenza della sindrome di Asperger, comporta un ritardo mentale.
Veniamo a un esempio contemporaneo, tratto da un sito internet.
Chi scrive è il vicino di casa. Osserviamo il processo di reificazione dell’oligofrenia: il meccanismo di oggettivazione psichiatrica.

«Chiedo un parere per conto di una mia cara vicina di casa che ha una figlia oligofrenica che negli ultimi periodi l’ha ridotta a prendere antidepressivi, Soggetto: donna di 45 anni, con oligofrenia accertata fin dall’infanzia chiamiamola ANNA La famiglia ha sempre cercato di rende Anna “normale” facendola intraprendere anche una carriera lavorativa per molti anni senza alcun problema. Il comportamento della ragazza era docile e remissivo, per cui facilmente gestibile. Verso i 40 anni Anna ha conosciuto un uomo e da quel momento cerca la piena autonomia che la famiglia non ritiene possa essere data, in quanto il “fidanzato” disoccupato la sfrutta per poter vivere dilapidando tutti i soldi guadagnati dalla ragazza. La famiglia ha cercato in tutti i modi di allontanare Anna dal fidanzato senza alcun risultato. Ora la famiglia gestisce lo stipendio della ragazza con sentenza del tribunale. La sorella vista la depressione della madre ha usato mezzi “violenti” per gestire Anna, ora la madre è doppiamente preoccupata un quanto teme che Anna possa ulteriormente legarsi al fidanzato. domanda 1 – la violenza può essere controproducente in un soggetto oligofrenico? 2 – in questa situazione vale la pena che Anna frequenti il fidanzato? se si, solo il tribunale potrebbe sentenziare… grazie per la risposta cordiali saluti».

Ho messo in corsivo le osservazioni che indicano le forme reificate della diagnosi. L’esempio serve per identificare una precisa forma di espressione culturale reificata, posta dal vicino di casa, l’uomo delle scale. Analizziamo il testo:
la cara vicina di casa (tra vicini ci si appella in questo modo inquietante) ha una figlia oligofrenica. Nessun dubbio, la premessa è indiscutibile, già tutto confermato. L’oligofrenia, almeno in Italia, è un fenomeno patologico reale, non è una categoria diagnostica attribuita;
Che l’ha ridotta a prendere antidepressivi. La madre dell’oligofrenica, dal punto di vista oggettivante del vicino di casa, prende gli antidepressivi per conto, per via, della figlia, potremmo dire: per curarla. Chimica delle relazioni;
Il soggetto (ANNA è stata chiamata) ora ha 45 anni, ma l’oligofrenia è stata accertata fin dall’infanzia. Non ci sono dubbi, insiste e conferma l’oggettività della diagnosi, come a sollevare qualche sospetto. Perché non ci sono dubbi? Cosa c’è da nascondere se si sollevasse un dubbio? Che cosa si teme a sollevare un dubbio? Che ci sta dietro? Viene subito da chiederlo. Sembra la porta di Barbablù;
La famiglia ha sempre cercato di rende(re) Anna “normale”. Questo il sogno familiare diurno riportato dal vicino: avere un figlio normale. Qui il vicino di casa è così ardito da mettere la parola tra virgolette. Egli sembra cogliere gli incubi notturni di questa famiglia, le virgolette ce lo indicano, come volesse smascherare la cara vicina: sanno che la “normalità” è impossibile, la chiedono di giorno per coprire gl’incubi notturni. La ricerca della normalità, l’avvicinarsi alla normalità è un desiderio che copre un immaginario ancestrale, lo stigma per la stirpe, la vergogna. Si tratta di nascondersi dall’umanità, come se il figlio fosse segno di una tara originaria, di una caduta;
Sorpresa: per un lungo periodo la normalità si ottiene. La famiglia le fa intraprendere (non è lei che la intraprende) una carriera lavorativa per molti anni senza alcun problema, il comportamento della ragazza era docile e remissivo, per cui facilmente gestibile. Cioè: dalla giovane età ai 40 anni ANNA ha lavorato e si è comportata normalmente, come voleva la famiglia. Nessuna vergogna, nessuna ribellione, un corpo docile, assoggettato, ben educato. Forse anche la diagnosi di oligofrenia, diagnosi che non prevede miglioramento, che definisce una malattia come condizione esistenziale, era stata scordata, o messa sullo sfondo di questa ragazza educata e rispettosa;
Ma verso i quarant’anni la diagnosi si ripresenta come il convitato di pietra di Don Giovanni. Precisamente quando ANNA s’innamora. Anna non ha il diritto di innamorarsi, di provare il desiderio affettivo e sessuale concesso ai non oligofrenici, per l’oligofrenico la sessualità è barrata, emerge insieme al convitato di pietra dell’oligofrenia;
Il resto del discorso è conseguente. Un’oligofrenica non può che innamorarsi di un farabutto che le mangia fuori tutto, come si dice qui a Milano, si tratta d’impedirle di frequentarlo. Il farabutto potrebbe anche, questo non si dice, ma è implicito nel ragionamento del vicino di casa, metterla incinta, di nuovo l’eugenetica;
Infine la domanda: è lecito usare la violenza per reprimere il suo desiderio sessuale e affettivo? Possiamo segregarla? Rinchiuderla? È opportuno? (Ah sarebbe opportuno! Anche perché anch’io come vicino di casa non sentirei tutte queste urla che mi disturbano!).
Il testo è del 2010. Si direbbe che centoventi anni di psicoanalisi, cinquant’anni di antipsichiatria e di psichiatria democratica, i contributi di Bateson, Foucault, Deleuze, Goffman, Basaglia, Laing, e tanti altri non abbiano scalfito il discorso popolare intorno alla malattia mentale, impregnato profondamente dal pensiero eugenetico.

Quando spunta il significante autismo

Se idios designa una discriminazione, autos indica un ritiro. L’idios non ha voce in capitolo: è, per definizione, fuori dalla comunità. L’autos non si dà voce, non è interessato, si colloca attivamente fuori dalla comunità. L’autismo di Beluler non era una categoria diagnostica, ma un sintomo, tipico degli ebefrenici. In questi casi la forma schizofrenica si manifesterebbe con particolari e bizzarre forme di manierismo idiosincratico, in una sorta di azione che denota un pensiero circolare, come rivolto a sé stesso. Negli anni Trenta, senza usare il termine autismo, Melanie Klein aveva descritto la vita originaria del bambino richiamando forme di auto isolamento infantile, estasi, autoerotismi. Forme fisiologiche dello sviluppo dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva, che porta all’elaborazione del proprio riconoscimento individuale. L’autismo è una posizione nel mondo, una condizione dell’esistenza, frena il processo di riconoscimento? Oppure lo indirizza su vie differenti? Vexata quaestio, di questi tempi, fra un gruppo di cognitivisti che pensano di avere scoperto tutto attraverso la teoria della mente, e persone autistiche che rivendicano la differenza piuttosto che il deficit. Che cosa direbbero i siti sulla neurodiversità se scoprissero – proprio loro, che sono contrari alla psicoanalisi – che la prima a definire l’autismo come una condizione umana è stata Melanie Klein?
Furono due psichiatri infantili a usare per primi e contemporaneamente (1943) il termine autismo per definire una diagnosi infantile specifica. Mentre Kanner aveva dato una valutazione di maggiore gravità del disturbo, Asperger lo aveva definito un disturbo con possibilità evolutive. La posizione di Asperger per la prima volta esce dal coro dell’idiozia. Il suo saggio Psicopatia autistica nell’infanzia è contraddittorio ma esprime per la prima volta in modo chiaro, una posizione etica che non si ricordava dai tempi di Itard. Asperger si confronta con le considerazioni di Bleuler. Come abbiamo scritto sopra, Bleuler usa per primo il termine autismo per designare un sintomo specifico del quadro diagnostico della schizofrenia ebefrenica. Asperger fa dell’autismo una diagnosi a sé e sebbene apprezzi alcune considerazioni di Bleuler, ne prende le distanze riguardo a considerare l’autismo una patologia schizofrenica: «A differenza dei pazienti schizofrenici i nostri bambini non mostrano disintegrazione della personalità. Quindi non sono psicotici…».
Nel saggio citato, Asperger presenta alcuni casi clinici. Il primo di questi è Fritz V. inviato alla Clinica psichiatrica universitaria di Vienna dalla scuola all’età di sei anni, considerato ineducabile. Asperger si sofferma a lungo a considerare la famiglia di Fritz. La sua descrizione è fenomenologica, non psicoanalitica. Egli parla di una derivazione familiare di poeti e intellettuali da parte materna, poi descrive le difficoltà di relazione madre/ bambino in relazione a quando la madre lo accompagna:

«Per esempio: molto caratteristiche erano le circostanze in cui madre e bambino si recavano insieme all’ospedale scolastico, ognuno per sé. La madre ciondolava con le mani dietro la schiena, apparentemente fuori dal mondo. Inoltre il ragazzo correva qua e là combinandone di ogni. Davano l’impressione di non avere affatto a che fare l’uno con l’altro. Difficile non pensare che la madre avesse difficoltà non solo con il figlio, ma con le cose pratiche della vita quotidiana».4

Successivamente queste considerazioni, mal interpretate, diedero vita, con Bettelheim, alla nozione di madre frigorifero. Qui però non vediamo una madre frigorifero, vediamo una madre sola, isolata dal mondo, in difficoltà. Oppure vediamo una madre balinese, «plateau continuo d’intensità che non raggiunge mai il climax (Balinese Ch., vedi Tav, 47) e connota queste sequenze interattive come non tipicamente occidentali.
Asperger, come Bateson, non rende colpevole la madre, si limita a osservare un tipo d’interazione. Per Bali, si tratta della formazione del carattere balinese: fatalista, non improntato, come nel caso del carattere occidentale, al raggiungimento di obiettivi. Si tratta di famiglie tutt’affatto diverse da quelle funzionalmente differenziate descritte da Parsons con riferimento agli Stati Uniti. Parsons, nel descrivere la famiglia di classe media nordamericana, ne prescrive anche il modello, influenzato com’è dalla EgoPsycholgy adattazionista. Modello psicoanalitico dominante negli USA durante gli anni Cinquanta. Tra questo tipo di psicoanalisti incontriamo Bruno Bettelheim, che si dedicherà, invero con risultati disastrosi, alla cura dell’autismo. Bettelheim aveva commesso un errore clinico clamoroso confondendo il ritiro dal mondo da parte di persone adulte – che accadeva nei campi di sterminio nazisti – con l’autismo infantile. Aveva accusato i familiari dei bambini autistici di freddezza e crudeltà, confondendo, ancora una volta, la clinica con il moralismo.
Questa volta non è Carlotta Grigoletto la vittima, ma la sua famiglia.
Le osservazioni di Asperger vanno in altra direzione, egli asserisce che, di fronte alla mancanza, anche grave, di relazione con l’altro, il bambino autistico spesso presenta segni d’intelligenza e sensibilità assai elevati che possono venire considerati risorse per un intervento clinico orientato allo sviluppo. Se, in alcuni casi, l’autismo trova riscontro in una difficoltà genitoriale a entrare in relazione, bisogna farsi carico di queste relazioni, che ciò, a gradi più o meno elevati, accade in tutte le circostanze, infine che questo non è necessariamente un danno per il bambino.
Più recentemente Lorna Smith Benjamin ha osservato che l’interazione madre bambino in una madre con una diagnosi di depressione grave può stabilirsi nel contatto oculare stabilito dal piccolo. Non è dimostrabile che un genitore, anche con una grave patologia, sia più dannoso per un bambino piccolo, di un genitore normale o neurotipico.
Io aggiungo alcune considerazioni suppletive a partire dalle ricerche antropologiche di Gregory Bateson e Margaret Mead a Bali: in una società stazionaria, non orientata per obiettivi da raggiungere o, come si dice oggi, a dolce decrescita, l’interazione non orientata al climax è opportuna. Sul piano etico è una società inclusiva, che non esclude chi non lotta per farsi una posizione, per l’arricchimento sfrenato.
A questo punto potremmo delineare alcuni elementi connotativi del desiderio autistico, presente, in misura più o meno grande, in ognuno di noi. Si tratta del desiderio di essere lasciati in pace, di poter scegliere, almeno quanto gli altri, di vivere la propria vita al di fuori del caos interattivo imposto in modo etero-diretto dalla postmodernità, di essere compreso dalle parti non autistiche interne ed esterne, di esser rispettato e incluso per quel che si può dare e fare per la società, com’è accaduto a molte persone con tratti autistici che hanno avuto riconoscimento: Glenn Gould, Wittgenstein, Touring, Gadda, De Chirico, ecc. ecc., di ricevere un’educazione non invasiva, di non essere trattati come esseri deficitarii e di avere riconosciuta la propria teoria della mente, di sondare le proprie risorse e pensare al proprio futuro, di poter scegliere, come gli altri, se fare o meno una psicoterapia senza forzature né nel senso dell’obbligo, né in quello del divieto.
Certamente lo sguardo dell’altro ha un impatto sugli sviluppi dell’autismo, com’è accaduto nei casi, controversi, di Itard con Victor e di Asperger con molti dei suoi casi, è certo anche che l’autismo dei casi più difficili richiede maggiore attenzione e maggiore creatività nel costruire una relazione minima.
Nell’ordine discorsivo diagnostico più recente l’autismo ha subito una profonda metamorfosi a partire dalla terza edizione del DSM, nel 1980. Nelle prime due edizioni l’autismo era considerata una schizofrenia a insorgenza infantile, dal DSM-III in poi l’autismo diventa un disturbo generalizzato dello sviluppo. Il significante non muta, muta il sistema di significati che indica il termine, ma, come avviene usualmente in psichiatria e in psicologia clinica, lo strascico del significante antecedente permane come un’ombra e continua a infestare la nuova categorizzazione in maniera inquietante, anche nelle azioni terapeutiche aggressive e salvifiche promesse da numerosi gruppi che cercano di convincere i familiari e le istituzioni sanitarie di avere la vera visione etiologica e terapeutica – come se etiologia e terapia fossero necessariamente collegate – del problema. Fino al 1980 nel più importante manuale diagnostico autismo è sinonimo di schizofrenia infantile e proprio in quegli anni di dominio della Ego-Psychology americana in psichiatria, Bruno Bettelheim coniava termini come madre figorifero e parentoctomia per sostenere una posizione clinica fortemente ideologizzata contro le madri e colpevolizzante verso le famiglie dei bambini autistici. Si tratta di una posizione che tutt’ora, sebbene sommessamente, alligna tra alcuni dei sostenitori delle teorie dell’attaccamento. Vi è tutt’ora l’idea che bambini sottoposti a forme di attaccamento evitante o disorganizzato siano a rischio di autismo. Queste idee, come gran parte delle teorie patologiche riduzionistiche, sono paradigmatiche di una patologia dell’epistemologia che, entrata in crisi negli anni Settanta, sta riprendendo terreno in virtù dell’impoverimento culturale dei programmi universitari dei corsi di psicologia e di psichiatria; i primi quasi interamente viziati da un cognitivismo riduzionista che sposa una psicoanalisi fondata sul concetto di funzione dell’Io, i secondi quasi interamente dedicati allo studio dell’influenza farmacologica sui neurotrasmettitori. Si formano così psichiatri e psichiatri infantili distributori e dosatori di farmaci e psicologi cognitivo-comportamentali adattazionisti che collaborano con questi psichiatri nel lavoro di eliminazione dei sintomi allo scopo di rendere il soggetto normale, cioè corpo docile e assoggettato.
L’autismo ha sempre messo i bastoni tra le ruote a queste epistemologie lineari. Intrattabile farmacologicamente – il che costringe gli estensori del DSM a toglierlo dal capitolo psicosi – l’autismo si mostra anche ineducabile, infine si mostra che i trattamenti all’insegna della parentoctomia mostrano di peggiorare drammaticamente la situazione. Questo tipo d’interventi pseudo-clinici, compresi i moderni trattamenti educativi di taglio strettamente comportamentista, ottengono prevalentemente risultati iatrogeni. Purtroppo si attaccano a genitori che, nella speranza di normare il figlio autistico, sono disposti ad affidarsi a chiunque faccia assurde promesse che alla fine mostreranno guai.
Solo recentemente si è accettato di dar voce alle persone autistiche, di includerle – anziché escluderle a suon di trattamenti speciali – negli orizzonti culturali della società. In altri termini, solo da poco tempo operatori e clinici, come il sottoscritto, hanno compreso che la patologia autistica è soprattutto una patologia della società, che non è in grado di ascoltare quei discorsi, comprenderne le potenzialità, valorizzare le competenze, saper aspettare le prese di turno nella conversazione. I convegni sull’autismo diventano interessanti solo se ci sono persone autistiche che ci parlano e ci spiegano come siamo fatti e come non siamo in grado di ascoltarli. Diventano dannosi e noiosi dove ci sono clinici esperti che, con parole nuove, continuano a insultare i soggetti autistici evidenziandone e deficit e le barriere. Si tratta di capovolgere il punto di vista: le barriere sono quelle dei clinici, degli educatori e della società. Come insegna Martha Nussbaum una società giusta si osserva a partire dalle sue capacità inclusive in termini di risultati, non dalle riparazioni compensative di ingiustizie messe in atto prima.
Così oggi molti adulti autistici sono coinvolti in questo nobile tentativo di spiegare la neurodiversità, fenomeno affascinante, che scopre, anche per i neurotipici, nuovi orizzonti conoscitivi e rivaluta capacità telepatiche, anziché deficit di rappresentazioni.
Un noto experimentum crucis per dimostrare che le persone autistiche non hanno una teoria della mente consiste nel presentare alcune vignette di due bambine in una stanza. Una delle due gioca con una bambola che poi ripone in una scatola ai suoi piedi ed esce dalla stanza. L’altra bambina, in assenza della prima, prende la bambola dalla scatola e le ripone in un’altra scatola. La domanda è: dove la bambina uscita, quando rientra, andrà a cercare la bambola?
Sembra che i bambini autistici tendano a rispondere in maniera sistematica che la bambina che rientra cercherà la bambola nella scatola dove l’altra bambina l’ha riposta. Per i teorici della mente ciò mostrerebbe che il soggetto autistico non possiede un modulo rappresentazionale corrispondente alla rappresentazione mentale dell’altro.
Una simile banalità mostra i deficit della teoria della mente, una teoria così ristretta da non comprendere un fenomeno complesso come l’autismo. Se s’interrogano altri bambini o bambine su come mai alcuni rispondono che la bambina uscita quando rientra va a cercare la bambola nell’altra scatola, si avranno una serie di risposte che i teorici della mente non avevano previsto e che mandano in tilt i loro metodi così disarmanti:
– le due bambine si conoscono e l’una sa che l’altra si appropria sempre delle sue cose;
– è come nel gioco dei sassolini, non vai mica sempre a dire che il sassolino sta nella stessa mano, bisogna cambiare;
– la bambina che rientra non ricordava esattamente dove aveva riposto la bambola, capita;
– lei lo sa, è una bambina telepatica;
– le scatole sono uguali, potrebbe essersi confusa;
– le bambole hanno un odore speciale, lei sente l’odore.
Se una persona autistica risponde al test della bambolina cui viene scambiata la scatola in modo diverso da come i neurotipici si aspetterebbero, forse non è a causa del deficit del modulo mentale rappresentazione della rappresentazione altrui, ma per via del fatto che presuppone che anche i neurotipici abbiano capacità visive che non possiedono. Le stesse che permettono alla persona autistica di contare in pochi decimi di secondo i fiammiferi caduti per terra, di suonare il piano come Gould, di affrontare questioni matematiche ipercomplesse, ecc.
Ecco perché il movimento di neurodiversità ha stabilito la diagnosi di neurotipico, dentro la quale il sottoscritto si riconosce pienamente. Nasce una nuova nomenclatura, questa volta però i termini si capovolgono, non abbiamo modo di preoccuparci finché neurotipico non verrà trasformato in insulto. Per ora ricordiamo gli insulti dominanti: idiota, imbecille, deficiente, cretino, invertito, pervertito, isterico, degenerato, mongoloide. Termini che la clinica medica e psicologica hanno usato a piene mani, una scienza dell’insulto.
È incredibile come lo stesso autore che ha scritto quel meraviglioso libro intitolato Il mondo incantato, che parla delle fiabe e dell’immaginario che è parte della fascinazione che produce lo sguardo autistico sul mondo, abbia poi scritto un’opera così terribilmente ingiusta e accusatoria come La fortezza vuota.
Nella mia esperienza di terapia familiare con le famiglie con un figlio autistico abbiamo sempre cercato di affrontare un dialogo sul futuro e sulle potenzialità del bambino, considerando la famiglia come la risorsa più importante per promuovere l’inclusività del soggetto nella relazione con gli altri. Molte testimonianze di persone autistiche adulte raccontano di essere state legate alla sedia, costrette a guardare negli occhi l’istruttore, allontanate dai genitori e a subire altre forme di maltrattamento terapeutico o pedagogico. In generale queste vessazioni sembrano non avere avuto alcun giovamento, eppure l’accanimento terapeutico è continuato per anni.
La significazione autistica oggi ci costringe a rimettere in discussione la teoria dell’informazione così come è stata concepita, nei termini di unità d’informazione univoche e prestabilite da trasmettere da un emittente verso un ricevente. Questa teoria rileva la necessità di una ridondanza al fine di trasmettere l’intera informazione dall’emittente al ricevente, a fronte di un rumore che tende a disperdere il messaggio.
L’autismo ci interroga su questa necessità di trasmissione integrale, su chi decide e come si stabilisce che questo è informazione e questo è rumore. C’interroga sui processi comunicativi autoritari. Ci propone un’idea equivoca in cui al posto di unità d’informazione compatte e predefinite, si rimetta in questione il significato, si riapra un colloquio con il rumore di fondo, che spesso contiene tesori e rivelazioni inattese. Si faccia riemergere l’inconscio. Così potremo rileggere le cartelle cliniche di Carlotta Grigoletto e delle altre idiote di San Clemente, o di qualsiasi altro luogo, capovolgendo l’interpretazione, osservando loro con ammirazione e i loro curanti come ottusi e alienati operatori, ormai del tutto incapacitati a cogliere i segreti di una relazione. Interamente e perdutamente assoggettati al dispositivo psichiatrico dominante.

Riferimenti bibliografici

Ayres, L.P., Laggards in our schools, Russell Sage Foudation, 1909.
Blumenbach, J. F., Manuale di storia naturale, Fontana, 1830.
Kroeber, A.L., Antropologia, Feltrinelli, 1983.
Gellner, E., Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, 1992.
Gobineau, J.-A., Essay sur l’inégalité des races humaines, in Oevres, Gallimard, 1893.
Foucault, M., L’archeologia del sapere, Rizzoli BUR, 2008.
Frith, U., Autism: Explaining the Enigma, Blackwell, 1989.
Rubinstein, L., The Athenian Political Perception of the Idiotes, in Cartledge, P. A.; Millett, P. C.; Von Reden, S., (eds.) Kosmos: Essays in Order, Conflict and Community in Classical Athens, Cambridge University Press, 1998, p. 125-143.
Sullivan, S. D., Psychological Activity in Homer. A study of Phren, Carleton University press, 1988.
Todorov, T., Noi e gli altri, Einaudi, 1991

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Note:

1) Se mai il lettore deciderà di recarsi a New York, si ricordi di non perdere una visita a Ellis Island, il vecchio ufficio immigrazione, attuale museo sull’immigrazione in America. Laggiù troverà ancora esposti i test d’intelligenza ai quali venivano sottoposti in massa gli immigrati e potrà prenderne direttamente visione, sebbene in vetrina. Dovrà tuttavia fare uno sforzo per leggere, dietro la vetrina politically correct del museo, quale poteva essere la condizione di disagio delle persone immigranti. Per coloro che si recassero a Firenze, invece, vale la pena di visitare il locale museo antropologico, con le vetrine dei crani di persone appartenenti alle differenti razze, opportunamente misurati, e le fotografie delle esperienze di misurazione dei crani e di raccolta dei calchi facciali condotte da Lidio Cipriani in epoca coloniale, quando questi ricopriva la Cattedra di Antropologia presso la locale università.
2) Todorov T. op. cit.
3) Anna Maria Corti, Dizionario etimologico, Genova, Odyssesus, 1997. Cfr. Anche Manlio Cortellazzi, Paolo Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Vol. III, Nologna, Zanichelli, 1983.
4) Asperger, H. “Autistic Psychopathy” in Childhood, in Frith, U., ed., Autism and Asperger Syndrome, New York, Cambridge University press, 1991, p. 41.

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Immagine di copertina:
Giacomo Balla, La pazza, 1905 (particolare) – Galleria nazionale d’arte moderna, Roma.