[Proseguiamo nella ripubblicazione, con cadenza settimanale, del libro collettivo “A sé e agli altri. Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di S. Servolo”. Qui per altri dettagli e per la Prefazione al volume].

«Non siamo certo tanto tracotanti da pretendere di rinnovare la medicina incorporando in essa una metafisica».1

Introduzione 2

«Che cos’è un sintomo senza un contesto o uno sfondo?»3

Ho deciso di condurre il mio contributo alla ricerca sull’ex Manicomio di San Servolo (Venezia) attraverso Il normale e il patologico, ovvero attraverso il faro di Canguilhem per dare luce alle analisi sulle cartelle cliniche rinvenute nell’archivio presente sull’Isola.
La ricerca si è basata sulla lettura di molte cartelle (di fine Ottocento – primi del Novecento), su una presa d’atto delle diagnosi utilizzate all’epoca e sull’osservazione del modo in cui queste venivano attribuite al paziente.
Il tipo di percorso che ho intrapreso è solo uno dei tanti possibili che non desidera essere né assoluto né esaustivo, è parziale come dev’essere una ricerca buona e non pretenziosa. Il normale e il patologico è stato scelto come guida, assecondando quanto detto da Michel Foucault in merito a questo testo nella sua postfazione: «eliminate Canguilhem e non ne capirete più un granché».4 Foucault infatti ci espone l’importanza di un’opera «austera, volutamente molto delimitata»5 ma che ha influenzato discussioni «tra i marxisti francesi»,6 «sociologi come Bourdieu, Castel, Paresson»,7 gli «psicanalisti»,8 soprattutto i lacaniani e afferma che «in tutto il dibattito di idee che ha preceduto e seguito il movimento del Sessantotto, è facile ritrovare il posto di coloro che (…) si erano formati con Canguilhem».9
L’esperienza delle cartelle di San Servolo intrecciandosi a vari spunti di studio e a molteplici letture hanno dato vita a questo approdo. Nell’isola ove, metaforicamente e non, sono giunta ho avuto l’opportunità di trovarmi in un ricco crocevia semantico. Si poteva scegliere di percorrere qualsiasi tipo di strada, avere i più differenti approcci. Ma nonostante questa moltitudine del dire ho scorto anche la sede di un’indicibilità. L’essenzialità della quasi totalità delle cartelle cliniche non dà molto spazio all’analisi, di qualsiasi tipo essa sia. Molte di esse sono così vuote che non è possibile comprendere né la storia del paziente, né i metodi di cura usati e nemmeno il motivo per cui gli fu attribuito un certo tipo di diagnosi.
Ecco allora che la mia ricerca si suddivide in tre parti: la prima servirà a contestualizzare l’esperienza di San Servolo in quello che poteva essere il suo sfondo culturale e più specificatamente medico. La seconda sfocia da un’analisi su una cartella “tipo”. La terza prende in esame un caso specifico attraverso ipotesi e abduzioni.
Vorrei puntualizzare riguardo ad un’eventuale obiezione: perché parlare di indicibilità e poi paventare l’utilizzo di abduzioni?10
Innanzitutto, la differenza sta tra il fondare un ragionamento ove non vi sono elementi sui quali discorrere e invece, contemplare il fatto che un ragionamento condotto possa essere non vero ma possibile.
In secondo luogo, ove il racconto di una cartella clinica diviene molto ricco e lascia molti dubbi e incertezze al lettore ma indica quantomeno una via di comprensione abbastanza certa allora è giusto percorrerla ben sapendo che sui passi che seguono queste confuse tracce, queste «briciole di pane», talvolta è possibile giungere alla meta che parrebbe essere la più plausibile, talora deragliando di qualche metro in un altro sentiero, nelle molteplici risposte.

San Servolo e la sua nosografia

Nella nosografia che ritroviamo a San Servolo, le diagnosi più importanti non sono composte nel termine che le designa da prefissi come iper– o ipo-, e nel loro significato è possibile comprendere come spesso la malattia mentale sia una mancanza o un eccesso dello stato normale.
Vediamo alcuni esempi. Il termine “demenza” indica un “deterioramento della mente”, una distruzione dello stato normale (indicato con mens) che poteva avvenire in gioventù (precoce) o nell’anzianità (senile); in ambedue i casi il termine va ad indicare un processo di logoramento della mente nella sua totalità. Il deterioramento (stato patologico) della mente (stato fisiologico).
“Idiota – idiozia” è una diagnosi che veniva data principalmente a ragazzi molto giovani. Oggi proprio per l’età e il tipo di sintomi elencati nelle cartelle, designeremo questa categoria col termine di autismo. L’etimologia di questa parola proviene da un grecismo che conserva il significato di “idiotes” ovvero di “uomo privato – idios” che viene ad opporsi all’uomo pubblico. È quindi un uomo inesperto, incompetente, non rivolto alla vita sociale e politica, ma verso sé stesso. È un uomo a cui manca la componente fisiologica dell’esser coinvolto nella vita pubblica.
Un’altra parola che potrebbe rivelarsi interessante sotto il profilo della relazione normalità – patologia è “imbecille”. È un altro tipo di diagnosi utilizzata per i casi meno gravi di autismo (i più gravi erano considerati “idioti”). Se non fosse che la sua etimologia sia di natura incerta. Perciò quanto detto sotto questa voce è oggetto di dubbio. Parrebbe derivi dal latino “imbecillitate(m)” che significherebbe “debole, senza forza”, “quasi sine baculo” ovvero “privo di bastone”. Anche in questo caso si evince un difetto rispetto allo stato fisiologico. Leon Battista Alberti nel 1437/38 descrive così il significato: insufficienza congenita dello sviluppo psichico.
La “Mania” era considerata un delirio generale con forte agitazione. Il termine etimologicamente è composto dal radicale man che significa “essere furioso” su una base indoeuropea col fondamento di “pensare”. Sarebbe un pensiero furioso, portato all’estremo, all’eccesso. Oltre alla mania vi sono anche la lipemania (di tipo melanconico) o la monomania (ovvero un tipo di delirio parziale, che interessava solo una facoltà).
Altri due termini che possono evidenziare una particolare e specifica assenza di alcune facoltà che si riteneva componessero la mente nel suo stato fisiologico sono la gracilità intellettuale e l’immoralità costituzionale. Una va ad identificare un intelletto debole – magro ancora una volta mancante di qualcosa e l’altra invece denota una assenza di moralità però questa volta inserita in un disordine, ovvero la moralità non è così come dovrebbe essere.
Altro termine da esaminare è “paranoia”. Composto dal prefisso “para” e un derivato di “nous” ovvero oltre – al di là della mente.
Il delirio invece etimologicamente significa “allontanarsi dal solco”. Una sorta di deragliamento dal solco ove i semi vengono riposti. Per questo nel gergo comune si utilizza spesso “uscir dal seminato”. Chi delira è colui che semina dove non è stato vangato. Ovvero dove il terreno non è adeguato alla crescita del seme. Anche qui ci si allontana dal seminare nel luogo più fisiologicamente appropriato.
Questa concezione a lungo coltivata nel pensiero di molti medici che si ritrova anche in certa parte nella nosografia manicomiale fa risaltare come cartina di tornasole una omogeneità tra fisiologia e patologia. Si fa così distante dall’idea che ogni individuo ha riguardo alla malattia ovvero di una entità estremamente destabilizzante e pericolosa, un male qualitativamente opposto alla salute.

L’opera di Georges Canguilhem: fra normalità e patologia

«La convinzione di poter restaurare scientificamente il normale è tale da finire per annullare il patologico»11

Questa relazione di «identità reale»12 fra normalità – patologia «è diventata, nel corso del XIX secolo, una sorta di dogma scientificamente provato, la cui estensione nel dominio della psicologia e della filosofia pareva imposta dall’autorità che ad essa riconoscevano biologi e medici».13 Tale “dogma” angoscia particolarmente Canguilhem in quanto la malattia finisce per non essere più considerata come forza negativa in lotta con la salute bensì il luogo ove cercare quest’ultima.

«È nel patologico, sorta di edizione a caratteri cubitali, che si decifra l’insegnamento della salute; un po’ come Platone cercava nelle istituzioni dello Stato l’equivalente ingrandito e più facilmente leggibile delle virtù e dei vizi dell’anima individuale».14

Il problema sta nel fatto che ristabilire una continuità fra salute e malattia possa portare, in verità, proprio a far sparire il concetto stesso di malattia. Spiccano fra tutti due nomi che furono (in modo diverso) fautori di queste idee. Auguste Comte (ispirato da Broussais) e Claude Bernard.
Per il primo si doveva analizzare il patologico per scoprire il funzionamento del normale, ritenendo la malattia come un banco di prova, un esperimento in atto, che la sperimentazione biologica non poteva ricreare in laboratorio.
Per il secondo, il processo di ricerca era invertito nella speranza che nello stato fisiologico si rinvenissero risposte inerenti la patologia al fine di fondare una terapeutica dedita alla cura.
Se tali teorie furono definite dogmatiche da Canguilhem ciò avvenne per rendere l’importanza che rivestirono nel XIX secolo nella filosofia, nella scienza e nella letteratura. Esemplari sono le parole di Renan e Ribot, portavoci di questa cultura medica.
Per Renan:

«Il sonno, la follia, il delirio, il sonnambulismo, l’allucinazione offrono alla psicologia individuale un terreno di esperienza ben più vantaggioso dello stato normale. I fenomeni che, in questo stato, sono come cancellati dalla loro tenuità, appaiono, durante le crisi straordinarie, più percepibili in virtù della loro esagerazione. (…) la psicologia dell’umanità dovrà costruirsi soprattutto attraverso lo studio delle follie dell’umanità, dei suoi sogni, delle sue allucinazioni, che si ritrovano in ogni pagina dello spirito umano».15

Ecco come la sintomatologia psichiatrica qui chiamata in causa dovrà asservire alle conoscenze mediche. Sarà rivelatrice della fisiologia attraverso il suo eccesso. L’amplificazione della patologia mentale è la gigantografia della normalità.
E per Ribot:

«La fisiologia e la patologia – quelle dello spirito come quelle del corpo – non si oppongono l’una all’altra come due contrari, ma come due parti di un medesimo tutto (…). Il metodo patologico comporta al tempo stesso l’osservazione pura e la sperimentazione. (…) La malattia è, in effetti, una sperimentazione delle più sottili, (…) essa raggiunge l’inaccessibile».16

Anche Bernard non fu di minor importanza nell’influenzare moltissimi medici dal 1870 al 1914. Lo stesso Nietzsche ne La volontà di potenza, trae da Bernard l’idea che l’ingrandimento degli stati morbosi possa mostrare la normalità che sennò verrebbe ad essere scarsamente visibile.
Dopo questa visita al di fuori di San Servolo nella medicina che per brevità definirò ottocentesca molte idee e concezioni risultano esserci più chiare e sazi di queste siamo pronti a rigettarci nel particolare caso di questo manicomio veneziano che non fu scevro dalle influenze ora richiamate.

Le cartelle cliniche

Le cartelle cliniche di San Servolo furono composte generalmente di una parte riguardante i dati anagrafici del paziente compresi la religione, il grado di “coltura”, l’occupazione, lo stato civile, la “figliuolanza”, lo stato economico, la costituzione fisica, lo stato della nutrizione (importante nei casi di pellagra), le cause predisponenti o occasionali 17 e altre specifiche riguardanti la malattia.18
Un’altra parte era destinata all’anamnesi che narrava l’esordio della malattia e alcune considerazioni desunte dai documenti accompagnatori del paziente.
Un’altra interessante sezione delle cartelle presente solo in certe e che scomparirà appena la psichiatria cambierà i suoi paradigmi è dedicata all’esame somatico (molto più ricco nelle cartelle cliniche delle donne).
Prendiamo ad esempio due cartelle con diagnosi simile in cui si nota il passaggio. Una è la cartella di Toscani Bernardo che ha come diagnosi frenopatica desunta la paranoia, ma ritenuto a San Servolo affetto da “Lipemania semplice. Demenza Primitiva. F. ebefrenica” entrato nel 1902 e morto nel 1909. L’altra di Sommavilla Caterina – Demenza Precoce – del 1912. Fra queste due cartelle tra le quali intercorre un lasso di tempo di appena una decade, si presenta una grossa differenza, perché scompare nella seconda tutta la parte somatica. Nella prima cartella sono contenute le indicazioni inerenti l’altezza del corpo, le misure del dinamometro,19 il peso, la craniometria,20 lo stato delle pupille, le osservazioni speciali del cranio e lo stato e le funzioni dei diversi organi.
Nella cartella di Menetto Emma del 1907 invece l’esame obbiettivo (in quanto donna) è ricchissimo. Datato 15.7.1907 contiene note antropologiche,21 note somatiche (che comprendevano l’osservazione accurata dello sviluppo scheletrico – muscolare, del torace, dei polmoni, dell’apparato cardiovascolare, del battito del polso, degli organi addominali e infine un controllo ginecologico). Ampio spazio è lasciato poi al sistema nervoso e ai riflessi.
Oltre a ciò è utile ricordare la sala anatomica, le sezioni dei cervelli, le foto del malato (una per cartella clinica) lombrosiano cimelio come l’intero album fotografico (presente nel museo) che mostrava lo stesso paziente prima e dopo le cure. Manifesto pubblicitario per evidenziare i progressi ottenuti? Oppure atto a far risaltare una cura dell’anima che ha risvolti fisiognomici? E quindi dipendente dall’idea che la quantità nelle proporzioni del viso sia espressione di determinate malattie?
In tutte queste raccolte di dati, analisi dettagliate sul malato, raccolte d’informazioni sul normale e sul patologico della persona si rivede la malattia come quantità. Pare quasi che tutto questo materiale confluisca in raggruppamenti di sintomi, nella speranza che tanto di questo o di quello per un calcolo quasi probabilistico, frutto d’una matematica statistica più che d’una clinica porti a identificare o una normalità o una patologia che riveli a sua volta qualcosa sul normale e sul patologico.
Ancora oggi nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali 22 spesso ci si sacrifica all’oggettività numerica. Il manuale diagnostico per eccellenza tende troppo spesso ad adoperare la formula «se il paziente ha quantum di questo e quantum di quello per un certo lasso di tempo allora la sua diagnosi sarà…». Si obbietterà che tal manuale va interpretato e filtrato da un medico. È corretto. Quello cui si allude è che più che sulla clinica appare basato sulla probabilità numerica. Si può lasciare tanta parte di scelta ad un meccanismo statistico?
La psichiatria dell’epoca (e forse ancor oggi in certa misura) ha sempre tentato di uniformarsi alle altre branche della medicina cercando di oggettivare sempre più queste patologie per renderle numerabili e quindi più facilmente conoscibili. Ha sempre desiderato innalzare il suo statuto di scientificità, apportando sempre più argomenti ed elementi a sostegno delle proprie tesi. Ma, come ci ricorda ancora una volta Canguilhem, è proprio dall’analisi delle malattie mentali che sfociano nuove prospettive per la medicina. Lagache, infatti, ritiene che la psicopatologia sia «una sorgente di luce da proiettare sulla coscienza normale»23 ma, differenziandosi da Ribot, non ammette che sia da considerarsi una sperimentazione. Prosegue Lagache: «Nulla è peggio conosciuto che le condizioni in cui la natura istituisce queste esperienze, le malattie mentali»,>24 ritenendo che l’insorgere di una psicosi, sfugga a tutti, sia al paziente che all’anatomopatologo.

Normalità e patologia: un rapporto necessariamente asimmetrico

Alla base dell’illusione che assimila il metodo patologico in psicologia al metodo sperimentale, sta la rappresentazione atomistica e associazionista della vita mentale, sta la psicologia delle facoltà.25
Per Canguilhem, commentatore accurato di Lagache, se non esistono “fatti psichici elementari”, diviene impossibile «comparare i sintomi patologici con elementi della coscienza normale, perché un sintomo non ha significato patologico se non nel proprio contesto clinico».26 «La disorganizzazione morbosa»27 non è «l’inverso simmetrico dell’organizzazione normale».28
Ma perché ci si ostina a voler mostrare come la fisiologia e la patologia siano state a lungo considerate delle “quantità” che differivano fra loro per gradi? Come vi sia stato un omogeneo passaggio fra le due, una simbiosi che le confondeva fino a voler stabilire che le leggi dell’una sono le leggi dell’altra? E soprattutto, per quale motivo si crede che tale tipo di misurazione non sia né esauriente né utile alla scienza?
È ovvio, oggi giorno, che la forma del cranio non ha nulla a che vedere con la malattia mentale, che quest’ultima non è frutto del fatto che esso è sproporzionato (patologico) rispetto a un ipotetico canone che stabilisce la forma del cranio sano o equilibrato (fisiologico). È evidente che l’ampiezza della fronte non indica a priori se si è affetti da qualche specifica malattia sol perché si distanzia dall’ampiezza ritenuta normale. È palese che le malattie, specialmente quelle psichiatriche, vadano indagate nel loro contenuto. Si sa inoltre che nel loro contenuto non debbono essere scisse dal contesto. La screziatura dei sintomi non comprende il disagio nella sua interezza. L’eccesso di furore o l’allucinazione o il delirio non sono l’avamposto di stati psicologici, portati in certe situazioni all’esagerazione. Non è possibile pensare che le varie frazioni del patologico, sommate fra loro, possano dare come frutto l’unico da cui provengono. Troppo spesso, talvolta a buon diritto, si è statisticamente predeterminato il patologico come variante del normale. Nient’altro che un surplus, una differenza. Ma «non si era tenuti a concludere […] che le leggi e il determinismo dei fatti patologici siano le medesime leggi e il medesimo determinismo dei fatti fisiologici».29 Poiché attraverso questo postulato determinista si istituisce l’identità essenziale di fisiologico e patologico, riducendo la qualità alla quantità.
Se Leriche ritiene che la salute si abbia nel silenzio degli organi e che la malattia sia per il paziente la consapevolezza che questi esistano anche attraverso il dolore, non possiamo pensare che nella medicina questi due opposti vengano confusi. Una tal concezione è in buona misura rischiosa perché la differenza «tra un uomo sano e un diabetico»30 non può essere delegata a «una soglia renale».31 «La quantità è qualità negata»,32 dice Canguilhem. Ma così facendo, o accettiamo che la fisiologia e la patologia abbiano lo stesso valore e siano l’una il prolungamento dell’altra, senza considerare l’individuo umano che invece concepisce i due stati come separati e opposti (esser ammalati infatti è ben diverso dallo stare bene!) e quindi priviamo di valore biologico tutte queste considerazioni abolendo però l’uso di termini come sano, normale o fisiologico (poiché in essi in-consapevolmente v’è una connotazione positiva!). Oppure prendiamo coscienza del fatto che le qualità del morboso sono ben diverse dalle qualità del fisiologico, che questi due opposti stanno l’uno distante dall’altro.

«Quando dunque si dice che la salute e la malattia sono legate da tutti gli elementi intermedi, e quando si converte questa continuità in omogeneità, si dimentica che la differenza continua a essere evidente agli estremi, senza i quali gli elementi intermedi non potrebbero in nessun modo svolgere il proprio ruolo di mediazione; si mescola, inconsciamente senza dubbio, ma in modo illegittimo, il calcolo astratto delle identità e la valutazione concreta delle differenze».33

Lo scopo di questa prima parte della ricerca è stato di analizzare in modo critico, attraverso l’aiuto dell’“austera” ma fondamentale opera di Georges Canguilhem, il contesto storico nel quale il manicomio di San Servolo visse. Questa scelta è stata dettata dalla necessità di rendere più chiari e leggibili i documenti rinvenuti durante questo percorso in un’ottica che contemplasse le influenze che la cultura dell’epoca esercitò sull’operato dei medici d’allora. Senza voler né idealizzare né demonizzare i risultati ottenuti, ma fornendo al lettore una fra le tante lenti di interpretazione.
Altro scopo che si cela, sottile ma ambizioso, è quello di ripensare storicamente il determinismo medico, per ritrovare nell’esperienza di San Servolo qualche possibile insegnamento. O quantomeno la comprensione che un certo tipo di clinica manicomiale si rivelò giustamente né esaustiva né risolutiva facendo ancor oggi balenare la necessità di percorrere altre vie per la conoscenza delle malattie mentali. Perché purtroppo ancor oggi, molte di queste bussano alla soglia delle risposte, ma certe porte ancora non s’aprono.

Un Adolfo Peranti mancante

«Jaspers ha visto bene quali sono le difficoltà di questa determinazione medica del normale e della salute: “È il medico colui che meno ricerca il senso delle parole ‘salute e malattia’ (Jaspers) […] Essere malato significa essere nocivo, o indesiderabile, o socialmente svalutato».34

Adolfo Peranti venne ricoverato per la prima volta a San Servolo nel 1904. Aveva otto anni, una diagnosi di idiozia, figlio “di ignoti”, figlio di nessuno, di stato economico povero. Rimase circa per un anno, poi fu trasferito nel manicomio di Imola. A ventinove anni però vi ritornò e rimase per altri diciassette anni di ricovero, fino alla sua morte di cui non è specificata la causa ma c’è scritto solo “Morto per…”. Stranamente, rispetto agli altri casi incontrati nelle cartelle cliniche, la diagnosi di questo suo secondo ricovero migliora (passa infatti dalla diagnosi più grave di idiozia a quella meno grave di imbecillità).
La cartella di Adolfo Peranti è una cartella abbastanza tipica. Composta dalla prima pagina nel quale è presente la foto, la diagnosi, l’ammissione, l’esito e i dati anagrafici. Nella seconda pagina come di consueto v’è l’anamnesi e nelle successive il reportage del medico sull’andamento e la cura della malattia. Ma la cartella di Adolfo assomiglia alle altre anche nel suo esser scarna. La maggior parte delle cartelle cliniche sfogliate nell’archivio sono assai essenziali. Molto rare son quelle copiose e spesso si riferiscono a patologie come la paranoia, la demenza precoce o la follia morale (ovvero – per quanto riguarda le prime due – patologie che insorgevano all’inizio dell’età adulta e che duravano fino all’anzianità e quindi fino alla morte). Per quanto riguarda gli idioti o gli imbecilli, solitamente sono ancora più magre, poiché quasi sempre il ricoverato era un fanciullo o tutt’al più un adolescente. Questi ragazzi sopravvivevano ben poco nel manicomio, morivano a volte dopo alcuni mesi, probabilmente per l’insalubrità del luogo. Nel manicomio infatti v’erano ammalati con le più svariate patologie (dai pellagrosi agli epilettici), moltissimi dei quali, come si legge nelle cause di morte, ammalati di tubercolosi.
Diciassette anni di ricovero. Sono molti da raccontare. Evidentemente non così tanti, perché per il Peranti son bastate quattro facciate. Le parole utilizzate, che oggi riterremmo senza dubbio insulti più che considerazioni cliniche, sono sempre le stesse. Ripetute continuamente, abbondantemente, invariate. Cambiano i giorni, cambia l’anno in cui vengono scritte, cambiano i medici (lo si intuisce dalle differenti calligrafie) ma nulla cambia per Adolfo. La sua vita è così raccontata: è il malato più disordinato del reparto. Sudicio, laceratore, si denuda ed occorre perciò tenerlo costantemente a letto. E ancora: è il malato che lacera con maggiore insistenza ogni cosa […]. A volte si alza di soppiatto e va a strappare le coperte degli altri letti.
Con insistenza i medici utilizzano l’espressione «vita vegetativa» per indicare come trascorreva il suo tempo il malato. Esaltano il fatto che «egli non pensa che a mangiare, non parla mai con alcuno, emette solo un grido inarticolato». Proprio per la sua mania verso il cibo «deve essere chiuso in camerino dove rimane a urlare selvaggiamente».
Immaginiamo un ragazzo così, negli anni che vanno dal 1921 al 1938 nato a Venezia nel 1896, probabilmente orfano o abbandonato dai genitori per questa sua incomunicabilità, questa sua stranezza. Un ragazzo povero, cresciuto nella fame, in un Veneto che fu una fra le regioni che contavano più pellagrosi proprio per la mancanza di cibo e di una nutrizione completa che non fosse basata solo sulla polenta e poco altro. Forse per natura il Peranti era problematico, forse veramente ammalato. Però è comprensibile che essendo cresciuto solo e senza genitori (prima nella miseria e poi in un manicomio di sicuro non educativo) sia stato bramoso verso il cibo. Sono comprensibili anche, alla luce di questi fatti, il suo esser così disagiato, la sua incapacità di parlare e la sua animalità. Tali affermazioni non vogliono dar da intendere che la diagnosi di questo uomo sia sbagliata o presumere che esso non sia stato ammalato. Ma, quel che viene naturale pensare oggi rileggendo il suo reportage è che forse sarebbe stato meglio compreso e anche meglio curato se si fosse analizzato anche il background dal quale questo ragazzino proveniva, ritenendolo fondamentale nella sua malattia. Era giusto concedergli questo beneficio. Ma probabilmente, essendo quasi tutti gli internati di ceto economico basso, tali considerazioni venivano date per scontante, erano di ordinaria amministrazione.
È ovvio che, in questa ossessiva e ripetitiva narrazione, fatta di un collage di medesime parole e enunciazioni, fatta di giudizi come «rugge», «grida», «apatico, indifferente», «è sempre nella stessa condizione di profonda imbecillità», «mastica di continuo», «conosce a meraviglia l’ora dei pasti e il rumore dei recipienti in cui si trasportano», «è un divoratore, bulimico», «laceratore, inconsapevole del suo stato», «frenastenico di infimo grado è ancora più decaduto in questi ultimi anni fino a diventare un individuo puramente vegetale, sensibile soltanto ai bisogno istintivi, specialmente quello del mangiare», la persona nel suo senso più ampio viene dimenticata. Il tutto intervallato da «nulla di nuovo», «condizioni di vita immutate», «nulla di nuovo», «solite condizioni», «nulla di nuovo, nulla di nuovo, solite condizioni».
Al di là della patologia che aveva, cosa c’è di un uomo qui dentro? Ma di più, è questo il resoconto di un medico? Di un clinico?
La persona di Adolfo, in questa narrazione è cancellata o meglio, è mancante. Ma non manca solo la soggettività del malato, mancano anche i pensieri del medico. Da ambo i lati v’è un’assenza, v’è l’assenza della relazione, del legame medico – paziente. Le frasi sono quasi tutte costruite all’indicativo presente, sono frasi semplici del tipo “soggetto + verbo” alle quali ogni tanto è aggiunto un complemento. È interessante notare la struttura grammaticale della frase e il modo del verbo utilizzato. L’indicativo è infatti il modo che esprime la realtà, la certezza.
Colui che scrive, è certo di dire cose assolutamente oggettive, tali per cui non è necessario l’utilizzo di altri modi verbali ad esempio il congiuntivo (espressione di dubbi, incertezze, possibilità, ma anche di timore o desiderio) oppure il condizionale (che richiede il soddisfarsi di una condizione, quindi propone una eventualità). È così certo non solo dello stato del paziente, ma anche verso sé stesso. Tutte le frasi che troviamo hanno come soggetto il paziente. Non v’è traccia di alcuna frase in cui il medico si riferisca a sé stesso. In cui esprima qualche opinione, qualche pensiero. Non vi sono frasi in cui il clinico compaia. Tale assenza di dubbio e tale “autorialità” servono a supportare la scientificità della prospettiva.
Questa seconda assenza è forse peggiore della prima. Per comprendere un malato mentale, oltre a considerarlo come persona, come soggetto pensante, serve innanzi tutto un buon medico. E un buon medico si ritrova nella soggettività del suo discorso sul paziente.
Cosa possiamo dire su un dialogo che diviene per stile e brevità, stringato? Non possiamo dire altro, poiché viene a manifestarsi una indicibilità. Nulla possiamo dire riguardo a questa duplice mancanza, ma essa ci traccia delle linee da seguire perciò potremmo discorrere sul mancante.
Questa resoconto è, ancora una volta, espressione dirompente di quanto drammatica fosse la condizione della psichiatria verso le altre scienze. È palese che oltre a raccogliere un’infinità di dati nella speranza che questi chiariscano il funzionamento delle patologie mentali c’era anche la feroce necessità di far sparire la soggettività intesa come mancanza di scientificità. La psichiatria, volendo avere quel che non possedeva e non poteva possedere come risultati di valori ematici, riscontri nei tessuti a sostegno delle proprie tesi, subì lo scacco delle altre medicine. La psichiatria non aveva nulla della “fisicità” dell’ortopedia, non aveva risposte in se “meccaniche” (dalle quali invece è facile dedurre che se si cade con una certa inclinazione, appoggiando la mano, il polso si romperà). Non aveva nemmeno ghiandole specifiche da prendere in esame come la tiroide, troppo o troppo poco funzionante. La psichiatria non aveva e ancor oggi per tanta parte non ha le prove della malattia mentale. Non aveva esami del sangue, delle urine o di quant’altro che potevano soccorrerla. Perciò tentò di crearsi la sua schiera di sostegni, di impalcature atte a sorreggere le diagnosi.

Un’improbabile terapia: l’acido culicilico

Purtroppo, però, quando il limite di una fra le scienze più umane, non viene contemplato, ma surclassato ritenendolo un fardello pesante atto solo a zavorrare e non viene compreso nelle sue possibilità, quel che ne uscirà è esattamente il manicomio tout court.
Nulla di più e nulla di meno che una macchina iper – razionalizzante ove la ragione diviene l’ombra di se stessa per diventare quanto di più distante via sia dal buon senso. Luogo di detenzione, di soprusi ma anche di assurde sperimentazioni.
Si narra in una Statistica Sanitaria del Manicomio di San Servolo,35 nella parte Della cura dei pazzi che nonostante, dice il cronista, la relazione fosse giunta al termine e fosse l’ora di concluderla, non si poteva evitare di raccontare una importante scoperta «fatta dall’Illustre chimico di questo manicomio, il M. R. Padre Antonio Dall’Orto».36 Questi trovò un «nuovo principio animale, che è dotato di alcune proprietà, le quali possono forse raccomandarlo anche nella cura degli alienati; anzi un qualche esperimento sopra di essi è stato istituito, ma unicamente finora per uso esterno. Siccome il manicomio era l’anno scorso infestato da una straordinaria quantità di zanzare»,37 Padre Dall’Orto pensò bene di «fare delle ricerche chimiche su questi molesti animali e (…) riuscì a isolare un acido animale particolare, cui diede (…) la denominazione di Acido culicilico».38 Il Padre riferì che questo acido è «il principio venefico isolato dal Culex pipiens L.»,39 questi Dipteri si trovavano in enorme quantità nella laguna in stagione estiva, tali da «costituire un vero flagello per questi paesi».40
Narra poi le caratteristiche di questo acido, che unito alle basi dà come di consueto origine al sale corrispondente. Racconta della sua volatilità e di come si presenta in laboratorio.
Ritenendolo per chissà quale ed errabonda ragione utile, lo iniettò in alcuni pazienti: «Finora io non lo ho che esperito per uso esterno e ne riporto brevemente i risultati. Intingendo la punta di un ago nella soluzione acquosa di questo acido di uno su dieci, e insinuandola sotto l’epidermide si destano delle piccole macchie rosse, rilevate, circolari, che recano un vivo prudore e che durano lungamente».41 Adoperò poi la stessa soluzione «ipodermicamente nella quantità di 20 goccie» e l’effetto fu notevole: i pazienti svilupparono delle grosse tumefazioni, di cui il bruciore perdurava per tre ore abbastanza intenso, il dolore e il rossore sussistevano per un giorno ma la tumefazione e la durezza «si dileguarono dopo tre mesi soltanto».42
Si conclude l’illuminata disquisizione medica dicendo che l’acido è stato testato su individui che accusavano dolore alle membra e che l’effetto benefico maggiore è proprio «il prurito, la tumefazione, il rossore e la durezza prodotta dall’irritazione».43 Ma solo attraverso la ricerca vi saranno sicuramente altre risposte positive.
Dopo questa breve digressione riportata per dovere di cronaca e per la forza con cui manifesta quanto assurda fu, talvolta, la ricerca medica, riprendo il mio discorso sulla mancanza.
In queste pratiche mediche come nelle cartelle rappresentate dal caso del Peranti, mancano innanzi tutto gli uomini. Karl Jaspers ci rammenta come «nella sua professione lo psichiatra ha sempre a che fare con l’individuo nella sua totalità. […] Mentre nel suo lavoro lo psichiatra ha di fronte casi del tutto individuali, come psicopatologo deve cercare regole e concetti generali al fine di essere all’altezza delle esigenze che gli si impongono nei singoli casi».44
La psichiatria è una disciplina borderline, il bravo medico della mente deve equilibrarsi su questo sottile e fondativo filo, evitando di cadere o esclusivamente nella pratica oppure nella scienza psicopatologica avulsa dall’uomo.

«Il suo limite sta nel fatto che non può mai risolvere il singolo individuo in concetti psicologici. Quanto più egli elabora la sua materia in concetti, quanto più vi riconosce alcunché di tipico e di costante, tanto più riconosce che in ogni singolo individuo si nasconde qualche cosa di inconoscibile. Come psicopatologo gli basta sapere che ogni individuo è un infinito inesauribile; come uomo potrà, indipendentemente da ciò, vedere ancora di più».45

In fondo anche Alexis Carrel nel suo L’uomo questo sconosciuto ci ricorda come l’uomo a tutt’oggi rimanga l’essere verso il quale la scienza ha ottenuto meno risposte. Le più grandi sedi di mistero dell’uomo sono proprio il suo cervello e la sua mente 46 e forse per tanta parte è meglio che questo enigma rimanga irrisolto.
Questa parte si è proposta di mostrare attraverso l’esempio del Peranti come dalle cartelle cliniche emerga la sede di un’indicibilità inerentemente la persona del malato. Dalla mancanza dei soggetti narrato e narrante si sprigiona un’incomunicabilità a causa della quale non è possibile indagare oltre poiché il materiale è reso essenziale da tali assenze. Da queste assenze si è indotto che determinate oggettivazioni sono le implicazioni della necessità della psichiatria di innalzare il suo statuto scientifico. Ma questo volere di scientificità si traduce in nolontà verso la consapevolezza del limite che essa ha in sé. La comprensione di questo, come avverte Jaspers, non può che esser utile.
Purtroppo anche in tale situazione a San Servolo si è operata un’ingiusta riduzione. Per dirla alla Canguilhem, la qualità è divenuta quantità.

Antonio Elia Tubani e l’Ammiraglio – uno svincolo forse inaccettabile?

In questa terza parte si prenderà in esame il caso di Antonio Elia Tubani, il ricchissimo reportage contenuto nella sua cartella clinica e le sue molteplici lettere. La sua vita manicomiale verrà presentata come una narrazione. Non conoscendo Antonio, non si può desumere che la sua malattia sia meramente quello che si legge nella sua cartella, però si può avere la presunzione di presumere degli orizzonti. Ecco allora che si ritiene doveroso comunicare al lettore che questa parte è espositiva, che è una vera e propria ipotesi e che non si avrà mai la possibilità di verificarla o confutarla. La situazione è così individuale che tutti i ragionamenti fatti in merito ad Antonio rimarranno degli ipotetici consapevoli dei grossi salti logici fatti talvolta.
La narrazione sul caso di Antonio Elia Tubani, nonostante si differenzi dal resto del saggio, “non lascia nulla al caso” per due motivi. Principalmente poiché irrompe e corrompe i due momenti antecedenti che evidenziano l’oggettività della scienza medica e di San Servolo da questa imbevuto. Antonio è infatti un caso che eccede, colmo e fertile nel reportage e nei documenti annessi.
Secondariamente, perché Antonio fu nosograficamente categorizzato come affetto da “Paranoia” ovvero quella malattia ricca di deliri che, una volta sorti, assoggettano e incasellano tutta la realtà a servigio di tali idee. Oggi probabilmente Antonio verrebbe diagnosticato “Schizofrenico Paranoide”. Comunque sia, il problema di tale persona è una malattia «dall’associazionismo sfrenato». Nulla avviene senza inserirsi in uno specifico e serrato orizzonte di senso. Ed è proprio asservendo al suo delirio che Antonio finirà in manicomio, ma non nel più comune dei modi, bensì per una particolare lettera di cui vi riporto parte del testo qui sotto.

«Venezia 7 Agosto 1904
Sig. Prefetto
Vengo a Lei per una questione alquanto singolare, ma che in questi ultimi tempi è diventata, quantunque una vera calamità pubblica, un fatto quasi comune.
Da circa cinque anni ho dovuto rassegnarmi ad una tortura […] la trasmissione continua del pensiero!
In principio […] dovetti subirla senza quasi lagnarmi, perché nelle poche volte che lo feci mi diedero del maniaco e del pazzo. […]
E così per quasi cinque anni dovetti assorbirmi in santa pace ogni sorta di suggerimenti ed i più sciocchi consigli: una vera filastrocca ininterrotta, continuata di giorno e di notte, in vernacolo veneziano ed in lingua greca, non atta ad altro che a produrre la confusione nelle idee, l’incertezza e quasi la paralisi nelle azioni, l’assorbimento di ogni facoltà morale e materiale. Ecco per esempio delle frasi tolte a caso dalle mie note:
Straordinario ti geri! Mezzo scemo ti geri! Ti mi ha fatto cogionar da tutti! I sott’ufficiali ze! La questura ze! Gl’internazionali ze! Te ga assassina la Prefettura. Volemo veder i to lavori. I te ga assassinà per i to lavori
47.
Ed in greco:
Den icseris tipote = non sai niente! Ton ecatandisane aidia = lo hanno ridotto da nulla! Ta ton ecseberdipsume colopera
48 me un corpo insensato, come un cane arrabbiato lo perseguitano.»49

Prima di proseguire con la trascrizione di un’altra parte di questa significativa lettera vorrei fare delle puntualizzazioni. Nonostante Antonio non riesca a pensare la più semplice delle ipotesi ovvero che quelle voci non sono reali, mostra grande lucidità nel resto del suo pensiero. Comprende infatti come queste allucinazioni uditive sono la causa della sua rovina e descrive in modo chiarissimo la situazione dello schizofrenico paranoide: confuso nelle idee, incerto, paralizzato ovvero apatico. Manifesta all’interno del suo delirio quelli che oggi potremmo dividere in sintomi positivi e negativi della schizofrenia.
Dalle sue parole in dialetto veneziano, comprendiamo inoltre che le sue sono idee di persecuzione. Qualcuno lo deride ma al contempo lo critica poiché Antonio lo fece «coglionare» ovvero lo rese oggetto di scherno. Ma non solo, appare chiaro come il delirio investa proporzioni ampie: dai sottufficiali agli internazionali. I persecutori stanno nelle importanti gerarchie del mondo.
«Hai assassinato la Prefettura». Forse Antonio serbava in sé un’angoscia. Inviando questa lettere alla Prefettura per chiedere giustizia verso questi trasmettitori di pensiero che lo stavano rovinando, in qualche angolo del sé sapeva che sarebbe stata l’inizio della sua reclusione in manicomio. Cercava aiuto in quella prefettura già assassinata nelle sue parole. Cercava cure forse consapevole del rischio che stava correndo. Ecco come finì a San Servolo: fu proprio a causa di questa lettera di “autodenuncia” che egli venne recluso. Pazzesco diremmo noi, perfetto all’interno del suo delirio. Se qualcuno mi stesse distruggendo la vita non andrei anch’io a denunciarlo? Purtroppo per Antonio il nemico era in lui e quando, all’interno della sua vita paranoide, trovò la soluzione al problema che ogni onesto cittadino avrebbe scelto, si ritrovò “sequestrato” come in altre lettere dirà, a San Servolo.
Perciò questa missiva risulta essere speciale poiché fu scritta fuori dal manicomio, prima dell’internamento. È un raro documento “esterno”. Capiamo che è così poiché è datata «7 Agosto 1904» mentre lui venne ricoverato il «14 Maggio 1905», ma non solo. Nell’anamnesi v’è scritto: «In preda ad un vero delirio di persecuzione egli si rivolgeva a tutti per avere aiuto e protezioni, scriveva alle autorità ed ai giornali, ed anzi una lettera caratteristica da lui scritta al Prefetto, è annessa a questa storia».
Ma per quale motivo, perseguitano Antonio? Egli dice: «Per i tuoi lavori». Per questi, lo hanno assassinato. E per quali lavori?
L’anamnesi ci racconta che Antonio Elia Tubani:

«studiò molto e all’età di 19 anni dopo aver ottenuto il diploma di capitano di lungo corso, navigò quasi sempre fino a due anni fa. Fu sempre nervoso e facilmente irritabile, non abusò mai di alcool. Tre anni fa, a Corfù contrasse un’affezione venerea, che non risulta fosse di natura sifilitica. Da quattro anni l’infermo cominciò ad essere dominato da allucinazioni acustiche, per cui sentiva voci che lo accusavano e lo minacciavano. Per tali disturbi che di continuo lo tormentavano egli non poté più navigare e si ritirò presso la madre, facendo sempre una vita piena di paure di diffidenze […]». Dimostra più della sua giovane età, ha un aspetto da artista, fisionomia simpatica e geniale».50

Antonio era un marinaio, ma non uno qualunque, bensì un Capitano. Nella parte della cartella clinica relativa allo «Stato del malato al momento dell’ingresso» datata 15 maggio 1905 c’è scritto: «Uno dei suoi nemici è l’Ammiraglio». È forse a questi che si riferisce quando proferisce «Ti hanno assassinato per i tuoi lavori»? L’ammiraglio è il comandante di un complesso di navi, è la guida, è il capo. È interessante pensare, attraverso un gioco di parole, che l’Ammiraglio sia stato per Antonio «colui a cui affidare» le sue angosce, le sue difficoltà. E che come capo sia divenuto nemico, come guida carica e densa di significati che Antonio in lui concentrava, sia divenuto espressione dell’avversario tout court. Antonio era orfano di padre, probabilmente in questo capo rivedeva quella figura della sua vita così assente e forse verso questa personificazione della mancanza sferrava il suo astio per qualcuno che inconsapevolmente ottenne il ruolo di padre – padrone.
Nella lettera sopracitata prosegue così:

«In causa della trasmissione ho perso tutti i miei impieghi: ad essa devo quasi la mia totale rovina. Sono onesto cittadino e voglio esser garantito nel mio paese ed in casa mia di ogni attentato alla mia salute ed alla mia proprietà materiale ed intellettuale. Non si rovina la gente col tacito acconsentimento dell’autorità.
Desidero sapere chi sono i miei persecutori, a chi e per qual cosa devo la mia rovina».

Entriamo un istante nella mente di uno schizofrenico (ribadisco: diagnosi che gli attribuiremo oggi). Quale disagio può determinare il sentirsi derubati e depauperati dei propri pensieri? Posseduti da altri, commentati da altri, consapevoli che quel che egli sente è frutto d’una tela ben più grande, enorme, di una tela tessuta da tutte le persone che lo circondano?51 Incastrati in una trappola operata da tutti? Ciò determina un’ansia mostruosa. Un cortocircuito difficilissimo da risolvere e che paradossalmente si autosostanzia infinitamente. Ogni giorno Antonio fa fronte alla paranoia che lo perseguita divenendo sempre più schivo e cercando aiuto raccontando la sua verità incomprensibile ai più. Attraverso una spirale agghiacciante, più lui tenterà di stare a galla con quei suoi atteggiamenti strampalati, più tutti lo eviteranno proprio per le meccaniche che attua per salvarsi. Più egli scriverà alle autorità e ai giornali, più queste lo penseranno «pericoloso a sé e agli altri» al punto di recluderlo. Ma la reclusione non è forse ottimo pane per colui che crede d’essere minacciato e incolpato dagli altri? Uno schizofrenico che si vede ricoverare forzatamente fortificherà ancor di più il suo delirio. Ecco che quando decise di denunciare quei «trasmettitori» questi vennero a prenderlo e decisero di farlo prigioniero perché così avrebbe smesso di parlare. Ma Antonio non smetterà mai e scriverà una quindicina di lettere nelle quali si vede chiaramente la “degenerazione” causata dalla manicomializzazione. Le parole che diverranno sempre più frequenti saranno «sequestro di persona», «istato di sequestro contro ogni diritto». Fino a dire:

«Denuncio, perciò, il Direttore dell’Ospedale di S. Servilio, Sig.r. Dott.r. Luigi Cappelletti; il medico ordinario, Sig.r. Dott.r. Giuseppe Pellacani; ed il Viceispettore Sante Celeste, per l’andamento insidioso, aggressivo, totalmente contrario, dato all’ambiente contro la mia persona, a scopo di sequestro continuo, da nulla giustificato, essendo io perfettamente tranquillo ed equilibrato; e prego la S. V. I. di intervenire perché un onesto cittadino possa tornare in libertà».

Ma se le frasi inerenti la «trasmissione» ci evidenziano la malattia di Antonio, queste ultime frasi invece sono così lucide e sensate che ci fanno comprendere anche la malattia del manicomio. Sono così limpide da far capire come la cura divenisse detenzione forzata, distante dallo scopo della medicina di guarire, somigliante piuttosto al carcere. La liberazione di questi malati attuata in Italia da Basaglia deve riecheggiare attraverso queste parole.
Prima di procedere vorrei qui inserire un’altra parte del reportage medico inerente il delirio di Antonio, che rende bene l’idea di come fosse estremamente strutturato e ormai onnicomprensivo:

«19-6-906. Dopo un periodo di relativa tranquillità, l’infermo sempre sotto il dominio di idee deliranti si è fatto inquieto minaccioso e talora anche impulsivo. Egli desidera di uscire subito dal Manicomio, o per lo meno di essere trasferito in un altro reparto, perché qui egli è tormentato da tutti; e descrive poi il suo sistema delirante mirabilmente organizzato attribuendo a ciascun malato influenze ed azioni diverse che egli poi espone con una fraseologia speciale ad esempio:
Mozzoni = sdoppiatura anormale e trasmissione alta. Paralisi visiva. Fa da veicolo —– Campagnin = trasmissione alta si sdoppia e trasmette —– Curiel = parla in greco della famiglia —–Nicoli = trasmette —–Bianchini = come Mozzoni —– Dongo = depresso e lettura del pensiero —– Franchini = sdoppiamento, suggestionatore, determina prima la parola che fa dire poi al soggetto (linguaggio obbligato) —– I pensionati hanno la trasmissione silenziosa, specie Pinoffo e Ballico —– Mazzotto = attaccamento anormale con sdoppiatura —–.
Settembre 22. […] da tutte le parti – dalla porta dalla finestra dai muri venivano voci che l’invitavano a ciò gridandogli: Pronti per il taglio della testa. Per un quarto d’ora ho dovuto continuare a far l’atto fendendo l’aria colla mano supina, di chi taglia la testa: così egli racconta. Capo dei suggestionatori è l’infermiere più anziano del riparto […]
».

Fra Bateson e Cancrini

Si è deciso di osservare la patologia di Antonio attraverso una biga condotta da due cavalli: Bateson 52 e Cancrini, psichiatra italiano. Sulla scia delle teorie di questi due pensatori si potrebbe definire il problema di questo malato inerente lo s-vincolo (forse) inaccettabile. Traendo questa definizione dalla teoria batesoniana del doppio vincolo e cacriniana dello svincolo inaccettabile.53 È assai difficile assecondare il voler gettare questo amo e il prendere un pesce il più velocemente possibile, ma è quanto si vuole provare a fare. Parlare di tali tematiche richiede doverose precisazioni e descrizioni lunghe e accurate, ma a servigio del caso Tubani ne verranno introdotte solo alcune parti. È comunque un’analisi ampia e bellissima che vale la pena d’esser letta nei testi degli autori sopra citati o che merita d’avere spazio in un libro a sé, ma non direttamente qui.
Quel che è interessante dire è che per Bateson la sede della schizofrenia nasce in un dialogo che non ha risoluzione e che lega in un doppio vincolo (double blind) dal quale il paziente non riesce a sbrigliarsi. Dialogo che Bateson vede nel colloquio con la madre, ma non esclusivamente con questa o per questa. Tipologia di colloquio ripetuta e che, dopo essere entrata nella forma mentis del paziente, per essere attivata necessita d’una sola applicazione (non più della ripetizione iniziale poiché il paziente nel tempo ha già appreso questo modo).
Per Cancrini la schizofrenia nasce all’interno della fase di svincolo. Se il doppio vincolo batesonianamente lega il malato alla famiglia, per Cancrini le difficoltà sorgono quando questi (fra l’adolescenza e l’età adulta) cerca di svincolarsi. Lo svincolo necessità di due componenti: una fase di individuazione (ovvero la persona deve essersi sufficientemente individuata – deve aver formato la sua individualità) e un doppio distacco da parte del soggetto verso la famiglia e da parte della famiglia che “lascia andare” il soggetto. Cancrini presume due orizzonti:

«svincolo inaccettabile (il paziente designato e gli altri membri della famiglia sono abbastanza individuati da tentare lo svincolo e troppo poco individuati da riuscirci) e svincolo impossibile (i processi di individuazione sono così incerti da non consentire neppure il tentativo)».54

Secondo Sullivan lo svincolo impossibile (tipo 2) dà origine a ebefrenici mentre lo svincolo inaccettabile (tipo 1) a catatonici; descrive il tutto così: «ciò che paurosamente manca negli ebefrenici è un legame con il mondo interpersonale reale, mentre nei catatonici, e in coloro che poi elaboreranno dei processi paranoidei, questo legame è paurosamente difficile».55
Antonio Elia Tubani potrebbe per quanto detto finora inserirsi in una fase di svincolo, generata probabilmente da un doppio vincolo (attuatosi con la madre e la zia con le quali viveva), di tipo inaccettabile. L’età nella quale insorge la patologia di Antonio è significativa, sorge esattamente fra il passaggio dall’adolescenza all’età adulta ovvero intorno ai 23–24 anni.56 Dato ancora più importante è il notevole distacco con cui si distanzia dalla famiglia (verso la quale il distacco non è ancora preparato in modo idoneo). Movimento disgiuntivo che avviene attraverso la navigazione in luoghi lontani. Nei quali però trova momenti di individuazione (il contrarre una malattia venerea a Corfù è segnale di aver provato una forma di intimità che Sullivan ritiene essere fondamentale per lo svincolo dell’individuo).
Il suo delirio così lucido e il prendere il sopravvento di sintomi positivi (ovvero attivi) e non di sintomi che rendono l’individuo passivo – annullato come quelli negativi, indica che un certo tipo di individualità era stata sperimentata da Antonio. La sua chiarezza nel descrivere le trasmissioni (come dicono i medici) è espressione del fatto che la sua forma di malattia è meno grave rispetto a uno svincolo impossibile.
Questa analisi postuma del caso Antonio voleva essere la dimostrazione di come una malattia molto difficile, ancor oggi troppo ricercata “fra i tessuti”, abbia la sua sede nell’interpersonalità, nel sistema famiglia, nel sistema individuo. Ancora una volta si evince l’impossibile riduzione di questi individui ad una quantità o ad un determinato processo biologico.
Concludo questa parte con due belle ed enigmatiche lettere di Antonio, scritte nello stesso anno e nelle quali Antonio inizia a firmarsi e a farmi chiamare “N”.

S.S. 30 Luglio 1905
Madre cara
Questa mattina ho parlato col dottor Obici, riguardo quanto mi disse sabato dell’altra settimana. Mi ha detto che non ha nulla concluso, perché io, secondo lui, sono ancora ammalato e allucinato come prima.
Ti rivolgerai perciò al Procuratore del Re, assieme a due persone di famiglia e gli presenterai la mia lettera del 10 corr.
Nel caso ti faccia delle difficoltà ti rivolgerai ad un avvocato perché inizi processo per sequestro di persona.
Se tu non agisci con vigore ed in questo senso, chi sa a quanto possono prolungare la mia prigionia, e ridurre difficile, se non impossibile la mia carriera.
Fa pubblicare un articolo nel giornale «Gazzettino».
Spediscimi, ogni giorno, questo giornale all’indirizzo: Al Sig. N. (Reparto V°) Manicomio di S. Servolo.
Mandami la grammatica spagnola, quella inglese, ed un quaderno da scrivere con un po’ di zucchero. Io sto benissimo, moralmente e fisicamente; così spero di te e della zia.
Spedisco biancheria da lavare: due paia mutande, 2 camice, 2 paia calze, 3 fazzoletti.
Scrivimi due righe sulle decisioni.
Ti saluto
Baci

S.S. 11 Dicembre 1905
Cara Madre
Ti ho scritto sei o sette volte di venire a trovarmi e di sollecitare il più possibile presso la procura l’invio delle carte per la mia uscita, ma non ho avuto risposta alcuna.
Solo il 26 del passato mese, or sono 15 giorni, mi parli, come con cartolina del 1 Ottobre, non essere fatte ancora le carte: dunque si va di due mesi in due mesi a dir le stesse cose!
Mi pare che sia ora di finirla con questi tiramola e di avvisare la Procura, come ho fatto io per lettera, essere questo un infame e non perdonabile sequestro, che non lascerò impunito.
Qui mi danno da intendere che aspettano di giorno in giorno, di ora in ora le carte, che non vengono mai, e ciò da sette mesi.
Ti prego di venire mercoledi mattina e portarmi il vestito nero vecchio per la mia uscita. Portami anche un colletto e qualche sigaretta: forse usciremo assieme. Ti aspetto e ti saluto unitamente alla Zia.
N

Conclusione – esistenza e possibilità di un’isola

Si è scelto di raccontare due casi che corrispondono alle diagnosi di idiozia e di paranoia (oggi, a nostro avviso, spettro autistico e schizofrenia paranoide) poiché queste due rimangono ancora l’enigma della psichiatria e delle neuroscienze. Malattie indelebili per la forza con la quale si impongono, tutt’ora irrisolte e che corrispondono ai “cronicizzati” odierni. Tolto il manicomio e sparite molte patologie che un tempo lì erano curate (dovute alla povertà, alla mancanza di una idonea dieta o terapia farmacologica) gli ammalati che ancora oggi producono grossi faldoni di cartelle cliniche a psichiatria sono gli schizofrenici e quelli più misteriosi e difficili da comprendere sono gli autistici (specialmente quelli a basso funzionamento). Patologie che richiedono per questo motivo di fare il punto della situazione e che vanno guardate soprattutto retrospettivamente nella speranza d’ottenere nuove o più certe risposte.
Tali ammalati sono gli irriducibili, ecco perché sono stati scelti a sorreggere l’excursus teorico su e con Canguilhem attraverso San Servolo. Sono stati scelti perché manifestano come la malattia non possa essere solo una diagnosi, solo una quantità, talvolta solo un’assenza di certe facoltà, talora un eccesso di determinati istinti. Essi manifestano oggi, attraverso i quadri pronostici formulati dagli psichiatri del San Servolo, i limiti dell’approccio alla cura. Perché evidenziano il limite di un’isola circondata fisicamente e metaforicamente da mare e mura. Luogo di contenimento delle malattie inspiegabili, delle malattie “sbagliate”. Ma rende chiara anche la possibilità di un’isola. La possibilità che la malattia mentale porta in seno: la sua non-riducibilità. Non poterla ricondurre solo ed esclusivamente a determinate descrizioni è la risorsa che come l’aria, fa volare la colomba kantiana. Altrimenti cosa sarebbe l’uomo se la sua mente potesse essere spiegata banalmente come un differenziale? Questa è la potenzialità della malattia, che più fortemente si evince in quelle mentali.
Ecco allora che le parole di Canguilhem 57 riecheggiano sovrane:

Il presente lavoro è pertanto uno sforzo volto a integrare la speculazione filosofica e alcuni tra i metodi e le acquisizioni della medicina. Non si tratta, va detto, di dare lezioni, o di formulare sull’attività medica giudizi normativi. Non siamo certo tanto tracotanti da pretendere di rinnovare la medicina incorporando in essa una metafisica. Se la medicina deve essere rinnovata, spetta ai medici farlo, a loro rischio e a loro onore. Noi però abbiamo l’ambizione di contribuire al ripensamento di determinati concetti metodologici, rettificandone la comprensione mediante il contatto con una informazione medica. Dunque non ci si attenda da noi più di quanto fosse nostra intenzione dare.58

Riprendendo l’idea di Sigerist, secondo il quale la medicina è legata inscindibilmente alla cultura (concetto peraltro insito nella definizione kunhiana di paradigma scientifico) è possibile comprendere come le concezioni teoriche mediche vadano analizzate con accuratezza poiché ricadono nell’ambito pratico della medicina: dai metodi alla terapeutica. Per tal motivo è necessario un ripensamento dei concetti inerenti la salute e la malattia e con questi la comprensione dell’irriducibilità di certe patologie a una sproporzione nella fisiologia.

Riferimenti bibliografici

Canguilhem, G., Il normale e il patologico, Biblioteca Einaudi, 1998.
Bateson, G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 2010.
Cancrini, L.; La Rosa, C., Il vaso di Pandora, Carocci Editore, 2010.
Finzi, J, Breve compendio di psichiatria, Ulrico Hoepli, 1899.
Galzigna, M. (a cura di), Museo del Manicomio di San Servolo – La follia reclusa, Arsenale Editrice, 2007.
Jaspers, K., Psicopatologia generale, Il Pensiero scientifico editore, 2008.
Salomone, G.; Arnone, R., “La nosografia psichiatrica italiana prima di Kraepelin”, Giornale Italiano di Psicopatologia, 15 (2009).
Statistica Sanitaria (fine 1800), Manicomio di San Servolo.

Fonti
Cartella clinica di Emma Menetto
Cartella clinica di Adolfo Peranti
Cartella clinica di Caterina Sommavilla
Cartella clinica di Bernardo Toscani
Cartella clinica di Antonio Elia Tubani

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Note:

1) Canguilhem, G., Il normale e il patologico (1943), Biblioteca Einaudi, 1998, p. 10 (d’ora in poi abbreviato in NP).
2) Questo saggio, rielaborazione della tesi di laurea, non sarebbe stato possibile senza il prezioso aiuto e la guida del Prof. Antonio M. Nunziante. E senza i continui confronti con il Dott. Leonardo Caneva. Da loro mi sono state profuse coscienza critica e pretesa verso l’assenza di un pensiero unidimensionale.
3) Ivi, p. 62.
4) Postfazione di Michel Foucault in Canguilhem, G., Il normale e il patologico (1943), Biblioteca Einaudi, 1998, p. 271.
5) Ibid.
6) Ibid.
7) Ibid.
8) Ibid.
9) Ibid.
10) L’abduzione (oppure Inferenza alla miglior spiegazione – IMS) è un tipo di ragionamento esplicato da Peirce (ma non solo) che viene utilizzato “innanzi tutto e per lo più” nel parlare comune. Si tratta di un ragionamento nel quale (diversamente da quello deduttivo) non si approda ad una conclusione necessaria ma alla possibilità che questa sia vera. È perciò un tipo di ragionamento atto a formare ipotesi.
11) NP, p. 18.
12) Ivi, p. 19.
13) Ibid.
14) NP, Cit. pp. 18-19.
15) Ivi p. 20.
16) Ivi p. 21.
17) Fra le predisponenti vi poteva essere un genitore o un parente alienato e fra le occasionali ad esempio l’abuso di bevande “spiritose” cioè alcooliche.
18) Il suo inizio, la sua recidività, lo stato intellettivo, la presenza o meno di fenomeni psicosensoriali, la natura del delirio, lo stato affettivo e le tendenze (ad esempio: tendenza al suicidio).
19) È uno strumento, utilizzato per lo più in fisica, composto di una molla che si allunga qualora le si appenda una massa. Generalmente serve per misurare la forza peso del corpo ad esso agganciato. Nelle cartelle cliniche effettuavano due misurazioni col dinamometro: una destra e una sinistra. Presumo perciò venisse utilizzato per misurare la forza del lato destro del corpo e del lato sinistro.
20) Ecco alcuni esempi delle misurazioni craniometriche: Circonferenza alla base, Curva antero – posteriore, Altezza Frontale, Altezza del cranio, Posizione del foro auricolare, Angolo facciale, Indice cefalico, Tipo.
21) “Cranio leggermente ovoide con manifeste deformità. Capelli neri (…) sono impiantati alquanto anteriormente sulla fronte e sulle tempie non si strappano con facilità. (…) Naso non deviato, alquanto aquilino.” Segue una descrizione delle orecchie di assai difficile comprensione che termina con tale frase: “queste anomalie, specie l’ultima, sono assai più pronunciate in modo da dare il cosidetto orecchio di Wildermuth”. Piedi e mani non hanno nessuna anomalia, bensì “carattere squisitamente femmineo”. Non mancano le note sullo sviluppo del sistema pilifero e sul colorito della pelle, ove è più scuro o chiaro.
22) Abbreviato sempre con DSM.
23) NP, pp. 88-89.
24) Ibid.
25) Ibid.
26) Ibid.
27) Ibid.
28) Ibid.
29) NP, pp. 80-81.
30) Ibid.
31) Ibid.
32) Ibid.
33) Ivi, p. 83.
34) NP, p. 93.
35) Queste statistiche si ritrovano nella biblioteca dell’Archivio presente sull’omonima Isola.
36) “Della cura dei pazzi” in Statistica sanitaria del Manicomio di S. Servolo, pp. 200-202.
37) Ibid.
38) Ibid.
39) Ibid.
40) Ibid.
41) Ibid.
42) Ibid.
43) Ibid.
44) Karl Jaspers, Psicopatologia generale (1913), Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2008, pp.1-2.
45) Ibid.
46) Mente e cervello oggi giorno sono considerate due entità che differiscono fra loro per svariate motivazioni. Per tal motivo in questa frase adopero questa distinzione, senza però addentrarmi nel dibattito che riguarda questi concetti.
47) In italiano: “Eri straordinario! Eri mezzo scemo! Mi hai fatto “coglionare (=schernire)” da tutti! Sono i sott’ufficiali! È la questura! Sono gli internazionali! Hai assassinato la Prefettura. Vogliamo vedere i tuoi lavori. Ti hanno assassinato per i tuoi lavori”.
48) Non si comprende bene se sia scritto “colopera” oppure “edopera”.
49) La scrittura di Antonio è molto chiara ed elegante. Tuttavia in questa parte, dove parlano le “trasmissioni”, la sua calligrafia muta come se fosse appunto qualcun altro a proferire tali parole. Per quanto concerne le frasi in lingua greca, non conoscendo il greco moderno non ho potuto per ora esser certa che tali frasi siano veramente scritte in questa lingua e non siano invece frutto della sua fantasia. La prossima premura che serbo per Antonio sarà quella di analizzare questa parte con più accuratezza. Per ora e per tale saggio ciò non era immediatamente essenziale. Presumo però che tali parole in lingua greca corrispondano alla realtà poiché, come di seguito troverete scritto, navigò pure a Corfù. Però potrebbe esservi un’altra e più difficile ipotesi: che le parole corrispondano al suono di parole greche realmente esistenti ma che siano scritte in modo erroneo.
50) Dal reportage sul malato datato 14 maggio 1905. Nonostante si narri di questo aspetto nella cartella clinica non è presente la foto ma una scritta in matita al posto di questa: “Non desidera farsi la fotografia”.
51) V’è un bellissimo film su tale tema, meritevole d’esser visto: Spider di David Cronenberg. Narra, similmente ad Antonio, di come il malato rimane intrappolato nella tela che tesse. Un commento di Umberto Curi al film paragona il protagonista (malato mentale) al Mito di Aracne, destinata a tessere per tutta la sua vita la ragnatela che, come ogni ragno, essa stessa produce.
52) Mi riferisco al testo Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson.
53) Cancrini per quanto riguarda questo tipo di svincolo fa a sua volta riferimento alle forme di sindrome definite da Wynne e da Sullivan.
54) L. Cancrini C. La Rosa, Il vaso di Pandora (1991)5, Carocci Editore, Roma 2010, p. 65.
55) Ivi, pp. 65-66.
56) Fu ricoverato a 27 anni, ma si dice nella cartella che già tre – quattro anni prima accusò alcuni sintomi. Deduco perciò l’età della presunta insorgenza della malattia da questi dati.
57) Ovviamente Canguilhem ebbe molto altro da dirci perciò è al suo testo che rimando il lettore per avere la visione d’insieme della sua opera fondamentale.
58) NP, Cit. p. 10.

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Immagine di copertina:
fotogramma da David Cronenberg, Spider, 2002.