[Proseguiamo nella ripubblicazione, con cadenza settimanale, del libro collettivo “A sé e agli altri. Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di S. Servolo”. Qui per altri dettagli e per la Prefazione al volume.]

Stultifera navis è il titolo del primo capitolo della Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault, la nave dei folli vi rappresenta compiutamente la forma della relazione del tardo medioevo e del rinascimento alla follia, immagine carica di valenze metaforiche ma anche traccia della pratica concreta di affidare alle vie fluviali, verso altre città o luoghi di pellegrinaggio, i folli espulsi dalla città (Foucault, 1961, 11-49). Non è questa la nave dei folli del nostro titolo, non quella rappresentata da Jeronimus Bosch e Sebastian Brandt, bensì quella che appare nei quadri dei vedutisti veneziani del settecento, Guardi, Canaletto, Carlevariis, Visentini, van Wittel: è la pubblica Fusta (Vanzan Marchini, 1981, 1982), galea disalberata utilizzata dal cinquecento per addestrare i rematori, quindi, esaurito il ruolo nella seconda metà del diciassettesimo secolo, destinata ad ospitare ogni residuo umano, criminali, giovani dissoluti, carcerati infetti, ma in particolare i pazzi indigenti.

Caspar van Wittel, Veduta del molo di Venezia dall’Isola di San Giorgio, 1697

Per tutto il ’700 la sua decadenza è progressiva, vengono ridotte le manutenzioni e il personale, fino allo stato di assoluta fatiscenza. Non di meno rimane sempre ormeggiata di fronte a Palazzo Ducale, cuore politico della Repubblica veneta, di cui un tempo era stata presidio di difesa. Si evidenzia in qualche modo la centralità simbolica (a fronte della marginalità reale della funzione), prima di monito incombente al rispetto della legge, quindi come luogo di contenzione di nuove marginalità emergenti e socialmente destabilizzanti.
Portare attenzione alla “locanda del Redentore” (così i veneziani chiamavano la pubblica Fusta, in ragione dell’insegna che ne ornava la prua), alla bizzarra destinazione d’uso di una nave da guerra, divenuta alloggio per folli indigenti, e al passaggio di questi all’ospedale di San Servolo, che ne raccoglierà per due secoli la funzione di luogo di contenzione delle manifestazioni del disagio mentale, significa contestualizzare una svolta storico-culturale fondamentale nella gestione delle divergenze comportamentali, la “liberazione dei folli dalle catene” (dalla galera, letteralmente, nel caso di Venezia), che evoca i nomi di Pinel, Tuke e Chiarugi, e la nascita del moderno pensiero psichiatrico. Le svolte storiche non sono mai improvvise, si articolano progressivamente attraverso una dialettica surdeterminata tra l’esistente e la direzione tendenziale al cambiamento, si concretano in mutamenti progressivi nella destinazione degli spazi e nei ruoli sociali, solo a posteriori si possono individuare alcuni momenti come cesure determinanti, nel nostro caso la dismissione della Fusta e il trasferimento sull’isola di San Servolo dei pazzi indigenti, nel 1797. Già da metà settecento però l’ospedale militare di San Servolo accoglieva degenti con problematiche mentali, quelli di famiglia abbastanza agiata da coprire le spese per il mantenimento, la Fusta era destinata ai poveri, talvolta il mutare delle condizioni economiche portava al trasferimento dall’uno all’altro ricovero. Per affrontare la questione relativa alla gestione delle disabilità relazionali nell’istituzione manicomiale, mi sembra utile partire da lì, dal momento aurorale, dalla piega che volge in sapere positivo lo sguardo sul delirio, genesi del sapere/potere psichiatrico e del morocomio-frenocomio-manicomio come luogo del suo imperio.
Nella nostra breve ricognizione della nascita del sapere psichiatrico, ci soffermeremo in particolare sull’opera opera di Gladys Swain, il cui pensiero che si è concentrato lungo tutto il suo percorso nell’approfondire modi e valenze di tale svolta, in dialogo serrato e per più versi critico con il libro di Michel Foucault evocato all’inizio del testo.

Il dialogo con l’insensato: Gladys Swain e la nascita della psichiatria

Il soggetto della follia asseconda il proposito di ritrovare la verità di un inizio, di recuperare una delle nostre origini nascoste, di restituirci il senso di una storia che ha sconvolto l’idea che noi abbiamo su noi stessi”. Così Marcel Gauchet, nella sua introduzione, presenta la prima opera di Gladys Swain, autrice prematuramente scomparsa che nel corso del suo itinerario teorico, sostanziato in altri due volumi, La pratique de l’esprit humain (scritto con Marcel Gauchet) e Dialogue avec l’insensé, torna, nel solco dell’indagine foucaultiana e in parziale relazione critica a questa, a interrogare il momento aurorale del sapere psichiatrico. Oltre la mitologia della liberazione dalle catene dei folli di Bicetre ad opera di Pinel, rispetto a cui Foucault mette in guardia, ma che accredita come momento fondativo (e che la Swain ricostruisce come elaborazione postuma (Swain 1997: 151-193)), a monte della svolta epistemica che ha posto la possibilità della nascita del sapere psichiatrico, c’è un mutamento fondamentale nella percezione di cosa sia la follia. Il passaggio dall’idea di una follia totale, quindi senza rimedio, alla nozione pineliana di mania senza delirio. Uno scarto a prima vista insignificante, ma capace di riconfigurare integralmente la forma della relazione medica e sociale al disagio psichico. Questo passaggio, che la Swain (Swain 1994: 1-28) ritrova esemplarmente inscritto nell’idea di follia di Kant e di Hegel (nell’Antropologia pragmatica il delirio appare totale e senza possibile remissione, “disordine essenziale e senza rimedio”, nell’opera di Hegel, che aveva letto e apprezzava Pinel, si manifesta come turbamento parziale, in cui la ragione deraglia ed entra in contraddizione con sé, ma rimane sempre presente), segna il passaggio dall’abbandono a sé del folle alla possibilità di una sua cura, attraverso il ricorso a quanto di razionale rimane nella mente turbata dalla psicosi. La mossa di Pinel sarà presto superata, la mania senza delirio scompare già nella nosografia psichiatrica esquiroliana, ma l’apertura generata non cesserà di riprodursi e articolarsi lungo tutto il percorso di sviluppo dall’alienistica alla psichiatria. La possibilità stessa di una scienza psichiatrica nasce con l’affermazione della curabilità della patologia mentale, il folle è soggetto, polo di una relazione che ne riconosce l’umanità e il potenziale recupero al consorzio civile.
Gli strumenti della cura si riconducono a due tipologie, i mezzi fisici, farmaci, ergoterapia, bagni, e i mezzi morali, ovvero tutto ciò che non agisce direttamente sul fisico. Il metodo morale, per la Swain, non va inteso nei termini di una cura dell’anima nello spirito caritativo religioso caratteristico dei secoli precedenti, al contrario, è un’interpellazione laica, una apertura al residuo razionale che ancora alberga nell’individuo 1. In forma aurorale in Pinel, più articolata in Esquirol, e codificato nel fondamentale volume di Leuret (1840), il metodo morale è al centro dell’intervento terapeutico asilare 2. Pratica di lavoro sulle risorse residue, il metodo morale è interpellazione soggettiva, metodo dialogico, quantunque strutturato su una dissimmetria costitutiva, ricostruita dalla Swain in riferimento all’opera di Daquin (Swain 1994, 131).

Che ci sia nelle divagazioni dell’alienato qualcosa che ancor più che rivolgersi a voi, vi appella: ecco ciò che emerge nell’ordine del concepibile con la rivoluzione nel pensiero dell’alienazione che si compie intorno all’ottocento. Non si è senza strumenti rispetto alla sragione. Al contrario, essa offre al suo cuore un punto di aggancio da cui mettere in causa l’insensatezza nell’insensato. Si tratta quindi di capire l’alienato, di ascoltarlo 3. (Swain 1994, 135)

La parte conclusiva di Le pratique de l’esprit humain approfondisce questi temi, centrando l’attenzione sulle dinamiche di simulazione e dissimulazione che si innescano nel dialogo alienista-paziente. Il metodo morale è dialogico, il suo cardine la confessione, per cui non è senza ragione una breve digressione che ne evidenzi alcuni caratteri.

Il sacramento sociale della confessione

Comme la tendresse la plus désarmée, les plus sanglants des pouvoirs ont besoin de confession. L’homme, en Occident, est devenu une bête d’aveu.
Michel Foucault, La volonté de savoir

L’uomo moderno è dunque, per il Foucault del primo volume della Storia della sessualità, una “bestia da confessione”. Che si tratti di una pulsione inconscia fondamentale, come suggerisce Theodor Reik (1967) o di un’ingiunzione correlata a una specifica configurazione epistemica e alla genesi della biopolitica, o della sottomissione dell’una all’altra, certamente l’istigazione all’ostensione dell’anima anima il discorso della modernità. Non solo in riguardo alla sessualità, ma in modo paradigmatico nelle scienze in stato nascente della psyké e della sua cura medica, psicologia e psichiatria. In particolare il ruolo che la psichiatria si ritaglia, fin dai suoi albori, nella pratica giudiziaria 4, porta ad elaborare tecniche per svelare la verità del malato, che può fingersi pazzo per evitare la condanna, quindi simulare, oppure raccogliere le sue energie per nascondere la sua pazzia, così dissimulandola. Le cartelle cliniche di san Servolo sono istoriate da tali tentativi dialogici per cogliere la verità dell’anima dei degenti. Il monumentale Manuale di semejotica delle malattie mentali di Enrico Morselli del 1885, ad esempio, per lo più si occupa delle modalità dell’interpellazione dialogica del malato, indice di quanto si siano articolate nel corso dell’ottocento le tecniche del dialogo psichiatrico. Evidentemente, l’attenzione al detto del malato psichico ha senso solo se si ha fede nella sua ragionevolezza residua, è un portato della svolta individuata dalla Swain come inscritta nella categoria pineliana di mania senza delirio. Giungiamo così al luogo della nostra ricerca, a interrogare la reazione del dispositivo manicomiale alle tipologie di degenti le cui condizioni non permettevano alcuna forma di relazione dialogica, e che pertanto erano esclusi dalle aspettative catartiche che la psichiatria dell’ottocento proiettava sull’insieme degli espedienti dialogici che costituivano il metodo morale.

Le diagnosi insulto

Idiota, imbecille, cretino, sono parole rimaste nel vocabolario come insulti, al tempo erano catalogazioni cliniche che facevano indice a uno spettro di problematiche relazionali per più versi sovrapponibili (quantunque non in modo perfetto, e con connotazioni sociali e culturali opposte) a ciò che il DSM chiama disturbi generalizzati dello sviluppo con compromissione cognitiva, la fascia low functioning dell’autismo 5. Prima di confrontarci con le analisi di tali condizioni elaborate dalla psichiatria dell’ottocento, per introdurre un’analisi della loro valenza nell’economia del discorso psichiatrico, torna utile confrontarci con una specifica lezione (del 16 gennaio 1974) di Michel Foucault al Collège de France, raccolta ne Il potere psichiatrico (Foucault 2003), in cui viene analizzata la psichiatrizzazione del bambino quale fattore determinante per l’instaurazione del potere psichiatrico stesso.

Direi allora – ed è questa l’ipotesi che intendo prendere in considerazione – che la psichiatrizzazione del bambino, per quanto paradossale sia, non è avvenuta attraverso il bambino folle o la follia nell’infanzia, dunque attraverso il rapporto costitutivo tra la follia e l’infanzia. Mi sembra che la psichiatrizzazione del bambino sia passata piuttosto attraverso un personaggio del tutto diverso: il bambino imbecille, idiota – quello che ben presto verrà chiamato il bambino ritardato, cioè il bambino al cui riguardo, sin dall’inizio, nei primi trent’anni del XIX secolo, ci si è preoccupati di dire e di specificare bene che non si trattava di un folle. È attraverso l’intermediario del bambino non folle che è avvenuta la psichiatrizzazione del bambino e che, a partire di qui, si è prodotta la generalizzazione del potere psichiatrico. (Foucault 2003: 185)

Foucault coglie in atto due processi opposti, il primo è la progressiva distinzione dell’idiozia dal delirio, attraverso una caratterizzazione peculiare delle nozioni di idiozia e imbecillità. Il secondo è la ricooptazione alla tutela della psichiatria e dell’asilo di chi viene ormai individuato come affetto da una patologia dello sviluppo e non da infermità mentale, la presa in carico da parte del dispositivo psichiatrico degli “anormali”.
Se in Pinel idiozia e imbecillità sono ancora accorpate con le altre forme di follia, di cui l’idiozia rappresenta una manifestazione estrema, in Esquirol e nei suoi allievi Belhomme e Voisin, si compie il passo teorico che le individua come forme di mancato sviluppo delle facoltà. Un ulteriore slittamento del discorso si compie con Eduard Séguin, allievo di Itard 6 e di Esquirol, per cui non di assenza ma di arresto dello sviluppo si tratta, di conseguenza la questione centrale diviene l’educabilità di persone il cui sviluppo è vincolato e più lento di quello dei bambini normali. “L’idiota è come un bambino, non è un malato” (Foucault 2003: 191). Emerge come caratterizzazione centrale del bambino idiota l’istinto, che deve essere piegato attraverso una forma peculiare del metodo morale, capace di imporre una regola normalizzante.
Secondo Foucault è a questo punto che un movimento che sul piano teorico distingue le anomalie dello sviluppo dalle patologie mentali, ad un tempo riconduce alle competenze psichiatriche la loro gestione, e promuove lo spazio asilare a luogo di destinazione delle anormalità. In questo senso, per la territorializzazione di un ambito che le è esterno da parte della psichiatria, Foucault giunge ad affermare che “l’educazione degli idioti e degli anormali non è nient’altro che il potere psichiatrico allo stato puro” (Foucault 2003: 197).
L’assunzione da parte del potere psichiatrico della delega alla gestione dell’idiozia porta a una trasfigurazione della stessa. Un tempo gli idioti erano i semplici, persone buone per natura in quanto incapaci di pensieri impuri e pertanto destinati automaticamente al paradiso. Cretino 7 viene da Chrétien, buon cristiano. Visto che per essere internati la formula (codificata dalla legge Giolitti del 1904, ma ricorrente anche nelle cartelle cliniche di fine ottocento) era “pericoloso a sé e agli altri”, si doveva fare figurare, anche quando assolutamente non ce n’erano gli estremi, che l’idiota era potenzialmente pericoloso, a sé e agli altri. La nozione di istinto, congiunta a quella di degenerazione 8, che allora godeva della sua massima fortuna, servirà da puntello per agevolare l’istituzionalizzazione.
Veniamo ora a ripercorrere le caratterizzazioni dell’idiozia e dell’imbecillità nel pensiero psichiatrico.

L’idiozia e l’imbecillità nella psichiatria dell’ottocento

Come detto, nelle categorie di idiozia e imbecillità si sostanzia lo sguardo ottocentesco sulle disabilità relazionali. In Inghilterra con Maudsley, Down e Ireland, in Francia con Esquirol e i suoi allievi, Voisin, Belhomme, e soprattutto Séguin, quindi con Bourneville e Sollier 9. Quest’ultimo, in Psychologie de l’idiot et de l’imbécile (Sollier, 1891), tira le fila dei discorsi dei suoi predecessori e presenta una propria elaborazione, definitiva, dei concetti. Pochi lustri più tardi, il discorso si ripiegherà nuovamente, le diagnosi insulto scompariranno dai manuali di psichiatria, e con loro gran parte dell’attenzione alla dimensione specifica dei disturbi relazionali 10.

Paul SollierRileggere Paul Sollier significa recuperare un discorso perduto, o forse riscoprire le radici dimenticate di pratiche oggi egemoni.
Allievo di Bourneville, erede tra i più promettenti, con Babinski, di Jean-Martin Charcot, Sollier si è dedicato alle sindromi neurologiche, all’isteria, allo studio della memoria, alle emozioni e al ritardo mentale, anticipando in qualche modo Alfred Binet nell’elaborazione dei primi strumenti per la quantificazione delle capacità cognitive. Nella sua pratica psicoterapeutica ha sviluppato tecniche che prefiguravano i principi degli interventi cognitivo comportamentali, tra i suoi pazienti, ed è una delle poche ragioni per cui viene ricordato, ci fu Marcel Proust.
Psychologie de l’idiot et de l’imbécile, sua tesi di laurea e libro fortunato, presto tradotto in varie lingue, raccoglie e sistematizza il discorso ottocentesco sulle nostre diagnosi insulto, idiota e imbecille appunto.
L’intenzione programmatica di Sollier è di definire i caratteri generali dell’idiozia e dell’imbecillità, focalizzando l’attenzione sullo stato normale e non sulle turbe psichiche correlate, come afferma abbiano fatto la quasi totalità dei suoi predecessori. Il compito non è facile, come sottolinea Sollier, in primo luogo perché l’idiozia non è un’entità clinica, non è possibile pertanto definirne univocamente i caratteri, come lo è invece per l’uomo normale, perché l’idiota è un anormale, e lo è secondo modalità infinitamente differenziate. Per definire lo stato mentale di un idiota, è possibile rapportarlo a quello che si riscontra nello sviluppo cognitivo normale, quindi decidendone l’età mentale, strada intrapresa da altri autori, ma che presenta molteplici difficoltà. Le cause possono essere tanto disparate, congenite, acquisite, differenziate negli effetti, che rapportare il grado di idiozia allo stato evolutivo di un bambino normale non è, in ultima istanza, significativo. Altrettanto impraticabile è rapportare l’intelligenza degli idioti a quella di tipologie animali, altra via praticata da colleghi coevi (una regressione secondo le coordinate darwiniane, al centro del discorso psichiatrico della seconda metà dell’ottocento, si pensi a Lombroso o a Down), vista l’esiguità dei caratteri comuni. Di nuovo, i caratteri dell’idiozia non si lasciano ricondurre a quadri esemplificativi semplici: “Niente nell’idiota è normale. Non vi si trovano solo diminuzioni quantitative, ma anche qualitative delle facoltà” (p.5). Da queste difficoltà procede quella di elaborare una definizione univoca dell’idiozia. Nemmeno Eduard Séguin 11, secondo Sollier, che pure aveva rigettato le definizioni in termini negativi degli autori che lo avevano preceduto, riesce ad elaborare una caratterizzazione positiva soddisfacente, e tutto ciò che riesce a partorire è che “l’idiozia è una intelligenza mal servita da organi imperfetti” (p.6). Invero necessita una definizione dell’oggetto, e per giungere alla propria Sollier passa in rassegna le definizioni dei suoi illustri predecessori. L’individualizione dell’idiozia si deve a Esquirol 12, giacché ancora in Pinel non si distingue come condizione specifica rispetto al delirio, e la sua definizione è: “l’idiozia è uno stato in cui le facoltà intellettuali non si sono mai sviluppate” (p.7), definizione inesatta in quanto l’idiozia non sempre è congenita. Belhomme, autore di un Saggio sull’idiozia (1824), a sua volta fornisce quest’altra definizione: “uno stato in cui si manifesta obliterazione delle facoltà affettive e intellettuali” e dell’imbecillità la seguente: “uno stato in cui le facoltà non si sono svilupppate che fino ad un certo punto, cosa che impedisce alle persone che ne sono affette di elevarsi al grado di sviluppo intellettuale a cui pervengono coloro che, nelle medesime condizioni, hanno la stessa età, lo stesso sesso e le stesse risorse”. Sollier contesta che la differenza tra idiozia e imbecillità sia solo in relazione al grado di compromissione delle facoltà, e rivendica una separazione tra i due stati, essendo che a una variazione quantitativa corrisponde effettivamente una distinzione qualitativa. Per giungere alla propria definizione dell’oggetto del suo studio, procede ancora nell’esposizione e nella critica delle definizioni precedenti, la sua ricognizione tocca Voisin 13, allievo di Esquirol, Kind, Griesinger, Delasiauve, Luys, Dragonet, Ireland per giungere alla sua caratterizzazione: “per noi è un’affezione cerebrale cronica dovuta a varie lesioni, caratterizzata da dei disturbi delle funzioni intellettuali, sensitive e motorie, che possono giungere fino alla loro abolizione quasi completa, e che non deve il suo carattere specifico, in particolare per ciò che concerne i disturbi intellettuali, che alla giovane età di chi ne è affetto”.
Giunto a una definizione, vaglia i gradi secondo cui la patologia si esprime. Ancora ripercorre il pensiero dei suoi predecessori.
Diagnosi frenopatica Per Esquirol il criterio discriminante è l’abilità di parola, e individua cinque gradi tra l’idiozia e l’imbecillità. Opzione contestabile per Sollier, che rileva come ad esempio i microcefali siano in generale dotati di linguaggio più fluente degli idrocefali, pur essendo maggiormente tarati intellettualmente. La proposta di una tripartizione basata sulla dominante dell’istinto di Dubois d’Amiens pare a Sollier troppo vaga, e riserve analoghe muove a Henke, Spielmann, Hoffbauer e Morel. Sulle partizioni di Voisin si dilunga maggiormente, i tre gradi che questi individua sono “1° categoria: Idiozia completa, raramente abbrutimento completo. […] 2° categoria: nella seconda credo di dover piazzare gli idioti meno maltrattati dalla natura, ma non di meno singolarmente pericolosi per sé e per la società… […] 3° categoria: Infine, al di sopra di questi idioti, se ne trovano alcuni che si approssimano ancora di più all’uomo ordinario, benché si manifestino ostensibilmente deprivati di alcune facoltà superiori (causalità e confronto)” (pp.16-17). La partizione di Griesinger, che individua due soli stati, è evidentemente insufficiente, più convincenti quelle di Ireland e Schüle. Per parte sua Sollier sostinene una tripartizione: “1° idiozia assoluta 2° idiozia semplice 3° imbecillità. Se per i predecessori il discrimine era da valutare in relazione allo sviluppo del linguaggio, o nella dominante istintuale o ancora nel complesso della compromissione delle facoltà, a suo parere questo va cercato nell’attenzione. Le tre categorie vengono pertanto così declinate:
1) Idiozia assoluta: assenza completa e impossibilità di attenzione 2) Idiozia semplice: debolezza e difficoltà di attenzione. 3) Imbecillità: instabilità dell’attenzione.

Des instincts

Ecco dunque definito l’oggetto del suo studio e le sue macropartizioni, idiozia profonda, idiozia semplice e imbecillità nelle loro caratterizzazioni “normali”, al di fuori di stati patologici correlati, nonché la dominante dell’orizzonte interpretativo, l’attenzione appunto.
Nel secondo capitolo, Sollier definisce l’architettonica del resto del volume attraverso il confronto con Voisin e Séguin, che nei loro testi avevano elaborato delle griglie a indicatori in cui individuavano gli elementi problematici nel fisico e nel comportamento degli idioti, nei successivi capitoli porta attenzione a tutti gli ambiti problematici individuati. In primo luogo in relazione alle sensazioni, le perversioni della sensibilità, del gusto, delle reattività, a seguire specificamente le perversioni delle dinamiche attenzionali, quindi gli istinti, i sentimenti, il linguaggio e l’intelligenza. Il capitolo conclusivo tratta dei sentimenti più elevati, occupandosi di volontà, personalità e responsabilità.
Nel suo percorso, Sollier marca ad ogni passo le distinzioni tra le tre categorie individuate, se l’idiota profondo è ineducabile, inutilizzabile e residuale, l’idiota semplice è educabile attraverso dinamiche elementari di premio e punizione (ora si chiama ABA), è cooptabile a lavori semplici e ripetitivi e fondamentalmente troppo involuto per essere molesto, nelle parole di Sollier, un extrasociale, mentre l’imbecille è un antisociale, una mente perversa e improduttiva, un degenerato incapace di qualunque occupazione produttiva, infido, criminale per vocazione, ozioso e pervertito. Come nell’uso della trattatistica psichiatrica del tempo, viene sollecitata attenzione verso la pericolosità sociale di persone inadatte alla vita nel consorzio civile e incapaci dei sentimenti nobili che caratterizzano la specie umana.

La piega novecentesca

Vediamo ora un breve testo di Alfred Binet e Theodore Simon, in cui i padri della misurazione dell’intelligenza si confrontano con il nostro tema, la definizione di idiozia e imbecillità. Titolo programmatico: Définition de l’idiotie et de l’imbécilité, come l’esordio: “Qu’est-ce qu’un idiot? Qu’est-ce qu’un imbécile?”. La questione si pone in ragione delle differenti risposte susseguitesi nel secolo precedente, di cui abbiamo reso conto seguendo il libro di Sollier, e contro quest’ultimo si articola tutta l’argomentazione di Binet.

Le classificazioni eziologiche e anatomopatologiche non ci sembrano rispondere a tutti i bisogni della pratica, giacché è assolutamente necassario classificare i soggetti secondo i servigi che possono ancora rendere, secondo le condizioni ambientali a cui si possono adattare, in breve, secondo il grado del loro ritardo, bene, né la loro eziologia, né le lesioni da cui sono affetti, presentano una relazione proporzionale a tale ritardo. (Binet Simon, p.1)

Non che le analisi eziologiche manchino di un loro valore, ma non sono di alcuna utilità pratica. Ne risulta un cambio di prospettiva determinante, ciò che era fondamentale nell’ottocento, finisce ora in secondo piano, per fare spazio alla dominante delle sole capacità intellettive. Il principio di Sollier delle capacità di attenzione viene rigettato in quanto praticamente inutile. Tre sono i criteri proposti per valutare il grado di produttività potenziale degli anormali: “1° il linguaggio parlato e scritto 2° il livello intellettuale misurato con dei test 3° il livello ospedaliero, valutando le capacità di azione pratica” (p.7). Il criterio del linguaggio stabilisce che è idiota chi non riesce a comunicare con i suoi simili mediante la parola, imbecille chi non è in grado di comunicare tramite la scrittura. L’intelligenza misurata tramite test, di cui Binet e Simon sono storicamente i padri 14, fornisce di una base empirica il criterio ottocentesco, ripreso anche da Kraepelin, della corrispondenza a un’età anagrafica inferiore, secondo il grado del ritardo. Idiota sarà allora chi non passa il livello mentale di un bambino di due anni, imbecille chi si colloca tra i due e i sette, debole di mente chi supera tale età. L’analisi ospedaliera si costituisce nella valutazione di operazioni definite, dalle più semplici a quelle complesse, vestirsi, trovare il proprio posto a tavola, allacciarsi le scarpe, farsi il letto e così via.
In conclusione al testo, gli autori prevengono alcune possibili contestazioni, e rivendicano il diritto a distinguere tra intelligenza e morale. “La distinzione dell’elemento intellettuale da quello morale, in realtà si fa sempre, ecco perché ci è parso legittimo mantenerla nel nostro studio, e di elaborare metodi per valutare solo l’intelligenza” (p.15).
Altra svolta determinante rispetto alle analisi del secolo precedente, è che Binet e Simon sostengono che le categorie di idiozia e di imbecillità siano attribuibili alle sole persone adulte, mentre è bene evitarle del tutto per i bambini, per evitare di avvilire le aspettative relative alla loro crescita. Affermazione che sposta completamente il piano dell’analisi giacché, come avevamo visto, tutto il discorso nosografico sulla idiozia e l’imbecillità si era costruito attorno al bambino anormale.

Forse è stato questo passo novecentesco, l’analisi a dominante cognitiva, ad avere occultato allo sguardo sociale la dimensione specifica delle disabilità relazionali, riemerse negli anni quaranta con Kanner e Asperger e divenute negli ultimi decenni una emergenza culturale straordinariamente significativa, di cui la ricerca a San Servolo è stata una ricaduta, e che si è voluta come sguardo retrospettivo.

San Servolo

Al termine della ricognizione della parabola della storia dell’idiozia nella nosografia psichiatrica dell’ottocento, vediamone le tracce in alcune cartelle cliniche. Ora ci sembra assurdo che ragazzini problematici venissero accorpati all’eterogeneo branco dei ricoverati psichiatrici, per lo più pellagrosi, sifilitici, furiosi o depressi. Infanzie negate, anzi per lo più vite negate, visto che la maggior parte moriva dopo pochi mesi dal ricovero, le cartelle parlano per lo più di tubercolosi, enteriti o marasma. Gli stessi psichiatri sostenevano che per lo più gli idioti morivano in giovane età, certo la ricorrenza di termini sprezzanti nelle cartelle cliniche lascia intendere quanto fosse ridotta l’aspettativa su tali degenti. Appare implicita per loro la definizione che li individuerà nel novecento, “Lebensunwertes Leben” 15 vite non degne di essere vissute.

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Note:

1) Sul rapporto tra alienistica e ordini religiosi delegati alla gestione degli asili si veda Goldstein 1987.
2) “Contrariamente alla dottrina generalmente accettata, considero il trattamento morale il solo atto a guarire la follia, e per guarire tale malattia, il solo metodo fisico, quello che consiste in salassi, bagni, preparazioni farmaceutiche mi sembra altrettanto inutile quanto sarebbe usarlo in una disputa su filosofia e morale, per convincere gli avversari” Leuret 1840, p. 5.
3) La Swain rimarca la continuità tra la cura morale e la psicoanalisi, pur con differenti setting e intenti.
4) Si veda il Moi Pierre Rivière… curato da Foucault e Il crimine e la colpa di Georget, brillante allievo di Esquirol, per tutto l’ottocento, la psichiatria ha cercato di ritagliarsi un ruolo specialistico di supporto al giudizio legale, tutta l’impresa dell’antropologia criminale, Lombroso, Féré, Lacassagne, Bianchi, Garofalo e tanti altri, si inscrive in questo progetto di territorializzazione del sapere giuridico.
5) La Swain, che io sappia, è la sola ricercatrice ad avere portato lo sguardo alla questione delle disabilità relazionali in relazione all’istituzionalizzazione in Galzigna (a cura di) 1984, pp.121-134: Ciechi, sordomuti, idioti, folli: il trattamento morale degli infermi della comunicazione. Invero, all’interno di un quadro di analisi più ampio, come vedremo giusto di seguito, se ne è occupato anche il Foucault de Il potere psichiatrico, corso al Collège de France sel 1973/74. In tempi recenti in The autism matrix, Eyal Gil (et al.) (2010) la deistituzionalizzazione dei disabili relazionali gravi è stata vista come evento a monte della nascita del discorso contemporaneo sull’autismo.
6) Itard viene considerato il padre della pedagogia speciale per il suo tentativo di educare Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron. Caso celebre di ragazzo non verbale trovato a vagare nudo nei boschi su cui si catalizzò l’attenzione del suo tempo, finendo per diventare un banco di prova dei discorsi sull’educabilità mo rale del selvaggio. Pinel, chiamato a pronunciarsi sul caso, sostenne la non educabilità di Victor. In anni recenti si è ritenuto che si trattasse di un ragazzo autistico, abbandonato per ciò dalla famiglia. Si vedano Canevaro e Guslot (2000), Moravia (1972) e il film Il ragazzo selvaggio di Francois Truffaut.
7) Il cretinismo è un’altra diagnosi insulto dell’ottocento. A san Servolo non ne abbiamo trovati in quanto era una patologia endemica nelle zone alpine (in Svizzera, Piemonte, Savoia, nel salisburghese) dovuta alla carenza di iodio e associata al gozzo, iperplasia della tiroide.
8) Sulla parabola della degenerazione ereditaria nella nosografia psichiatrica della seconda metà dell’ottocento, rimando al mio testo Il tempo della degenerazione in Pietro Barbetta (a cura di) L’avventura delle differenze, Napoli, Liguori, 2011.
9) Su Gallica gallica.bnf.fr si possono recuperare i testi digitalizzati degli autori in questione, riportati nella bibliografia.
10) Attenzione risvegliatasi in modo eclatante negli ultimi anni. Ora si parla di spettro autistico a basso funzionamento, LFA, e le connotazioni sociali sono positive, al contrario della carica di stigmatizzazione delle diagnosi insulto. Anche le metodologie di intervento sono straordinariamente simili, si compari il metodo morale di Séguin e le metodiche comportamentiste. Del resto, Ivar Lovaas, loro inventore, si dichiarava erede di Itard, come Séguin.
11) Eduard Séguin, allievo di Itard e di Esquirol, dopo aver elaborato una metodologia educativa per gli idioti, dopo essersi compromesso i rapporti con tutti i colleghi di Parigi, andrà in America, dove sarà acclamato come “l’apostolo degli idioti”.
12) Étienne Esquirol, Des maladies mentales, 1838.
13) Félix Voisin, De l’idiotie chez les enfants, 1843.
14) Sulla storia dei test di intelligenza si veda il classico di Stephen Jay Gould (2005) The mismeasure of man, titolo tradotto male in italiano con Intelligenza e pregiudizio.
15) Termine coniato dall’insigne giurista Karl Binding e ripreso dai nazisti come giustificazione del programma di sterminio delle persone disabili Aktion T4.

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Immagine di copertina:
fotogramma da François Truffaut, L’enfant sauvage, 1970.