«Ciò che nelle società tradizionali e premoderne era culturalmente accettato, […] è stato progressivamente demolito, tanto da apparire oggi inaccettabile» (p. 36): tale insubordinazione ai meccanismi di potere di un intero ordine sociale è sintomo della “crisi della civiltà neolitica”, di cui l’ultimo testo di Vincenzo Cuomo, Crisi di civiltà e terzo incluso (Kaiak Edizioni, 2025) intende comprendere appieno le cause e rispetto a cui propone degli sguardi che si affaccino a un possibile momento oltre-neolitico. Con una assenza di steccati disciplinari, Cuomo si muove tra analisi della crisi della civiltà neolitica e descrizione del “terzo incluso” come modalità di affrontamento di tale crisi.
Il testo è suddiviso in tre parti – Crisi, Intermezzo e Figure del “terzo incluso” –, le quali complessivamente descrivono un percorso che dalla crisi della civiltà neolitica arriva alla problematica del “terzo incluso”.
Nel primo saggio, Cuomo si concentra sul meccanismo antropo-genetico della «trasposizione» descritto da Peter Sloterdijk, in quanto tocca la dimensione simbolica del linguaggio; tale processo addomestica l’esterno dell’umano, ovvero l’inumano,
«la violenza catastrofica (esogena e/o endogena) e la morte. È in base a tale meccanismo che […] il mondo umano […] è in grado di differenziarsi e difendersi dalla selva […] inospitale e violenta: assumendola, sopportandola (finché è possibile) dentro di sé» (p. 25).
Un ordine linguistico-simbolico ripartisce dunque l’umanità tra esterno e interno, ordine che si sgretola con la crisi del meccanismo traspositivo. Come afferma Cuomo:
«la trasposizione di questo fuori in-umano nel dentro […] non è più possibile. Bisognerà inventare nuove strategie di sopravvivenza della storia umana alla mostruosità del fuori. Strategie che non siano reattive e, quindi, illusorie» (p. 54).
Nel secondo testo risulta fondamentale il concetto di “ripetizione” (Wiederholung) elaborata da Cristoph Türcke sulla scorta della “coazione a ripetere” freudiana: solo l’homo sapiens avrebbe trasformato la reazione agli stimoli esterni in coazione a ripetere il trauma per de-potenziarlo. Cuomo evidenzia, perciò, come l’attuale ripetizione delle condizioni originarie dell’apparire umano perda la sua capacità di simbolizzazione dell’origine, perdita in cui «la progressiva ripetizione depotenziata e non-simbolica del trauma sembra essersi ribaltata in potenziamento del trauma. Questa è la “sensazione assoluta”, cioè lo shock privo di mediazioni simboliche» (p. 87).
Argomento del terzo testo è il legame tra guerra e tecnica. Dopo aver denunciato la pericolosità dell’applicazione dell’intelligenza artificiale in campo militare, Cuomo vede nella paura un possibile argine alla guerra, solo se debitamente simbolizzata: tramite la “coazione a ripetere il trauma” di Türcke si può notare che «tra le immagini “fisse” parietali, la genesi dei nomi dal grido di terrore e dai deittici, e i riti parossistici sacrificali, c’è sostanziale contemporaneità d’origine, perché in tal modo, […] fece la sua comparsa storica l’attività simbolica» (p. 118).
Il sacrificio metamorfico della violenza è dunque direttamente collegato con il ruolo specifico ma effimero della Kultur umana. «La Kultur è un tentativo sempre ripetuto, infinitamente più fragile della tecnica» (p. 120), chiosa Cuomo.
Nonostante l’importanza della sezione Intermezzo, ritengo importante mostrare come Cuomo affronti la questione del “terzo incluso” nella terza parte del libro.
Essa si apre mostrando come la “logica parassitaria” di Michel Serres permetta di superare ogni partizione significante, grazie alla propria dimensione ambivalente: suddivisa in “simbiontica” e “predatoria”, la relazione parassitaria opera secondo una logica
«della trama e dell’intreccio che si oppone alla logica difensivo-predatoria dei sistemi gerarchici e “stratificati” […]. Se la logica parassitaria è ambivalente, […] l’opposizione tra le “trame” e le “gerarchie” deve essere concepita come internamente attraversata da relazioni parassitarie» (pp. 204-205).
Queste disarticolano dall’interno qualunque gerarchia e ripartizione. Attraverso il parassitismo simbiotico, Cuomo mobilita la “vischiosità invertiva”, processo in cui la simbiosi
«crea dis-ordine a-significante, nel senso che produce continua inversione vischiosa, per cui il parassita simbiotico non appare solo parassitato dallo stesso ambiente che parassita, ma anche, sempre, parassita di parassiti: il parassita parassiteggia» (p. 210).
Senza abbandonarsi a un irenismo della simbiosi, Cuomo utilizza la “vischiosità invertiva” in particolare per dichiarare insussistente la netta distinzione tra ambienti e forme di vita. Sollevando il tema del modo umano di abitare il pianeta, egli sostiene che
«potrebbero anche sorgere, proprio attraverso la logica parassitaria […], nuove forme di convivenza inter-specie (comprendendo […] anche la vita “al silicio”), […] non necessariamente migliori di quelle che la nostra specie ha sperimentato nel suo passato, ma neanche […] peggiori» (pp. 232-233).
Il secondo contributo si concentra principalmente sui processi della “trasduzione” dell’ontologia orientata agli oggetti – la OOO di Graham Hartman – da parte di Timothy Morton, processi che «da un lato, trasformano, dall’altro registrano. […] L’accesso di un oggetto a un altro oggetto […] è sempre parziale sul piano ontico, cioè nello spazio inter-oggettivo, ma ciò cui l’accesso dà accesso non è “semplice” apparenza o “semplice” finzione» (p. 247): per la OOO, tutti gli oggetti sono e non sono interfacce, mai semplicemente riducibili alla relazione inter-oggettuale né agli effetti reciproci. Attraverso la distinzione di DeLanda tra “proprietà” storicamente date e “capacità” virtuali interne agli assemblaggi descritti da Deleuze e Guattari, Cuomo sottolinea la dimensione esteriore della relazionalità in quanto tale. Il testo si conclude con le seguenti parole:
«tutti gli oggetti (e, quindi, noi stessi), in quanto trasduttori/trasdotti, in quanto interfacce, hanno sempre a che fare con ciò che gli altri oggetti sono (cioè sono-stati), ma anche con il “mistero” che l’esteriorità a venire delle relazioni continuamente produce» (p. 263).
Nel saggio di chiusura, Cuomo presenta tre figure del weird, ovvero “la marionetta”, “l’automa” e “lo spettro” tutte figure della indecidibilità.
La coppia marionetta-marionettista genera una specie di “anima” nel movimento quando realizza una “consapevole presenza” senza riflessione, la quale genera la sensazione di danza propria della marionetta; di qui,
«una strutturale indecidibilità tra la vita e la morte, tra l’organico e l’inorganico che, paradossalmente, anima la marionetta-marionettista. Senza tale indecidibilità, senza tale apparire del vivo-morto o del morto-vivo […] non c’è né danza né grazia» (p. 269).
Tale indecidibilità si riflette nel “regno dei giocattoli” di cui parla Morton, in cui giocare costituisce una doppia esperienza in quanto «da un lato significa non sapere se si è viventi o non-viventi, dall’altro significa essere coinvolti in un gioco, perché le cose giocano (play), sospese come sono tra il loro essere e il loro apparire; perché le cose sono e nello stesso tempo non sono il loro apparire» (p. 282).
Parimenti, gli automi presentano la stessa eeriness, un “carattere inquietante” che emerge nel confronto tra “umani sani” e robot dall’aspetto “fin troppo umano”, o di fronte ad arti robotici decisamente troppo “veri”. Seguendo Morton, Cuomo scorge in tale eeriness un accesso al “terzo incluso” come «dimensione reale di indecidibilità tra i confini dell’umano e del non-umano, del vivente e del non-vivente, dell’autos e dell’eteros, dell’apparire e dell’essere, una dimensione di necessaria solidarietà con i non-umani» (p. 286).
Infine, la spettralità, legata all’assenza di confini netti negli oggetti, mina internamente da sempre la logica della civilizzazione neolitica,
«è lo spettro del non umano che assedia qualsiasi visione antropocentrica, […] è la continua apparizione […] di qualcosa da cui non siamo in grado di staccarci/separarci […], ma che, come negli spettri della tradizione, non ci parla solo dal passato […] ma innanzitutto dal futuro» (p. 294).
Tale spettralità weird implica l’abbandono del principio di non-contraddizione allo scopo di accedere alla weirdness insita negli oggetti; ciò significa non credere più
«né alla identificazione del pensiero con il linguaggio, né alla convinzione […] che il linguaggio articolato sia la via di accesso privilegiata […] alle cose. La difficoltà di tale approccio consiste […] nel […] sostituire la logica del taglio significante con quella della trasduzione significante» (pp. 297-298).
La spettralità degli oggetti indica che l’apparire e l’essere dell’oggettualità sono ontologicamente distinti ma onticamente indecidibili, situazione che mette in crisi la suddivisione delle qualità degli oggetti in “primarie/secondarie” o in “emergenti/apparenti”: se queste ultime non sono scindibili dall’essere degli oggetti e il soggetto percipiente non può separarsi da esse, allora le qualità apparenti appartengono tanto al soggetto quanto all’oggetto tale è l’enigma della capacità sensoriale. Cuomo conclude: le sensazioni
«sono spettrali e non umane, […] sono la nostra via di accesso quotidiana al reale non umano; […] esse sono weird perché resistono, vischiose, a qualsiasi strategia […] distanziante. Esse ci ricordano che siamo fatti di non umani, e che molti non umani sono fatti di umani» (p. 304).
Ciò che più afferra il lettore e che si insinua sotto la sua pelle una volta concluso il libro – in maniera parassitaria, spettrale, quasi weird? – è una assenza di rigide partizioni del sapere tanto fedele al funzionamento del parassita che disarticola le divisioni nette, quanto apprezzabile all’epoca del neoliberismo accademico all’interno del quale, se non si afferisce esplicitamente ad un SSD, si fuoriesce dall’ambito umano della ricerca – non in senso ahimè non-umano, quanto propriamente e violentemente dis-umano.
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Immagine di copertina:
Il carro, 3200-2500 a.C., graffito rupestre, Roccia di Naquane in Val Camonica