«Forse è questa la prossima frontiera: non lo spazio esterno o quello interno, ma gli spazi nel mezzo».1
In Queste terre selvagge oltre lo steccato, tradotto in italiano da Fabrice Olvier Dubosc per Exorma Edizioni, Bayo Akomolafe, filosofo, intellettuale e scrittore originario della Nigeria, racconta di quando passò diversi giorni da un amico, Kutti, in una baraccopoli di Chennai, in India, girando con lui per le strade, dormendo con la sua famiglia in sette in una stanza minuscola, lavandosi all’aperto sotto un getto di acqua gelata in un cortile polveroso.
«Questo slum indiano, nascosto dietro un fallico palazzo di vetro Samsung, circondato dall’asfalto, zittito dal traffico di santi cyborg in cerca di paradisi glitterati in cui marciare, del tutto invisibili nei titoli che proclamano l’India come nazione in pieno sviluppo con la capacità di lanciare satelliti nello spazio. Questo slum racconta una storia revisionista sui luoghi oscuri di cui la modernità sarebbe la supposta salvatrice, una storia che mette in luce la pochezza di ciò che facciamo per vivere sulla terra. In questo luogo, che assomiglia alle terre selvagge dove l’eloquenza della modernità si infrange e si frantuma nella cacofonia di molteplici rantoli, umani e non umani, in configurazioni caotiche e spesso rischiose, le persone stanno imparando ad approssimarsi sempre di più e a vivere insieme. A rischio di romanticizzare le condizioni di vita di Kutti, e spero proprio di non farlo, questo posto mi sembra una sorta di santuario» (Queste terre selvagge, pp. 93-94).
Mentre la voce di Bayo Akomolafe si fa largo tra il brusio incessante del Salone Internazionale del libro di Torino, tra i pannelli della sala Internazionale, la memoria di questo racconto mi viene in aiuto e riesce, almeno un po’, a mitigare il fastidio per la confusione che ci circonda. In quel momento e per il tempo a seguire, la sala, quello spazio ricavato in mezzo a una frenesia del tutto moderna, si trasformerà in un cubicolo di incontri e riflessioni importanti. A rischio di romanticizzare questo evento, questo luogo, e senza volerlo fare, naturalmente, guardandomi intorno e osservando una sala non piena, non stracolma rispetto ad altri incontri inspiegabilmente più attesi, ho l’impressione che si stia compiendo un piccolo rituale. Siamo al primo giorno di Salone, che è il più bello perché il meno frequentato, un giorno del margine nel quale c’è ancora spazio per muoversi senza essere asfaltati da groupie delle lettere moderne e ci sediamo e ascoltiamo, con la difficoltà dettata dal rumore di sottofondo, le parole di Bayo Akomolafe, il quale indossa un luminoso completo tradizionale blu con decorazioni cerulee. Quella di Torino è una delle tappe degli incontri italiani che vedono il filosofo impegnato in questi giorni tra Verona, Milano e Torino, in quello che è il suo primo viaggio in Italia e che si iscrive in una moltitudine di incontri che lo portano da anni in diversi Paesi del mondo (per la sua biografia dettagliata rimandiamo al suo sito).
Accanto a lui, sul palco della sala Internazionale, siedono Fabrice Olivier Dubosc, psicologo analista, docente, scrittore e traduttore dell’edizione italiana del libro che oggi verrà presentato e il regista teatrale Gabriele Vacis, il quale leggerà brani tratti da Queste terre selvagge. La scomodità del luogo, la pioggia che minaccia di fare impazzire il traffico, la difficoltà di molti di raggiungere il Salone a causa dei treni bloccati dalle alluvioni che imperversano a qualche centinaio di chilometri da Torino, il pensiero per la sofferenza dei tanti che hanno perso la casa, per i morti, i campi allagati fino al mare, l’inabissarsi del lavoro di mesi, nell’ennesima catastrofe ambientale. Messaggi sul cellullare, uno sguardo alle ultime notizie per sperare in una tregua della pioggia, per verificare il livello dei corsi d’acqua e poi le parole del filosofo nigeriano, lette da Gabriele Vacis, che si fanno largo piano tra il caldo dei capannoni del Lingotto.
«Lascia che ti racconti le piccole cose che ho imparato mentre ancora posso farlo. Proprio qui, in questi luoghi di passaggio, mentre ancora cerco di raggiungerti: tutto inizia nel mezzo. Non vi sono inizi imperturbati, vergini e incontaminati. E non vi sono finali senza tracce di qualcosa di inedito, qualcosa che spontaneamente si scosta da ogni svelamento finale. Non vi sono esiti finali senza eventi ancora a venire che stanno bollendo in pentola. Il mentre non è uno spazio tra le cose; è il mondo nelle pratiche incessanti con cui il mondo mondeggia». (Queste terre selvagge, pp. 51-52).
Il tu al quale il filosofo si rivolge è la sua prima figlia. Il libro di Akomolafe, infatti, è scritto come una serie di lettere, sette per la precisione, racchiuse tra un prologo, In/brecciarsi, e un epilogo, Ri/torno, indirizzate alla figlia di tre anni, Alethea. La struttura del testo è dichiarata sin dal titolo e dal sottotitolo che lo segue, che nell’originale inglese recita These Wilds Beyond Our Fences. Letters to My Daughter on Humanity’s Search for Home. E il sottotitolo dichiara subito la scandalosità di una voce che viaggia in un multiforme spaziotempo cosmico dove passato e futuro si intrecciano di continuo e che si rivolge a una bambina, quando i bambini oggi non sono certo gli interlocutori privilegiati in un mondo di adulti indaffarati, e parla di ricerca di una casa. Ricercare una casa in un mondo di diaspore, di dimore sempre più spesso distrutte dalla furia degli elementi, o di case privilegio in un Occidente nel quale milioni di persone dormono per strada, sembra un progetto poco comune. Questo libro, dunque, parla a una bambina e nasce da una promessa, quella di costruirle una casa, proprio nel mezzo di una Terra sconvolta dal riscaldamento globale e nella quale la vita futura appare sempre più difficile, ed è mosso dalle domande di un padre:
«Ti lascerò un mondo senza incanto? Senza comunità? Un mondo non più sbalordito dai molti gesti, dalle dense sensualità tattili, dal vulnerabile divenire di balene volanti, da passeri cinguettanti, cavallette graffianti e da corpi umani che si intrecciano, suturati dall’amore?» (p. 31).
Quelle che tuttavia possono risuonare come le domande di un genitore preoccupato per il futuro nel quale i propri figli si troveranno a vivere, si inquadrano in un progetto dichiaratamente politico. Come spiega bene il filosofo nell’intervista condotta da Maria Nadotti (minuto 4:35) la sua paternità è un progetto cosmico, politico e biologico, e tutte queste questioni sono questioni da affrontare, da toccare, se vogliamo avere consapevolezza del mondo. E infatti la casa che l’autore andrà a cercare, in una quête narrativa che lo porta a percorrere margini di territori inesplorati e ad incontrare personaggi umani e non umani inspiranti e mostruosi al tempo stesso, si situerà necessariamente al di là degli steccati eretti da una modernità coloniale e illuminista, per addentrarsi nelle terre selvagge dove dualismi e risposte troppo nette si sfaldano in un compost di domande accennate e tramonti poetici, «nel punto in cui il sole tocca l’orizzonte», come recita la dedica alla figlia. La voce che racconta, che mostra, che gioca, che canta, non è solo la voce di un padre che parla alla propria figlia, è una voce che si mischia sempre con altre voci, con quella dei nonni, della moglie, delle tante madri, con quella di tutte le persone incontrate sul cammino. E nemmeno la destinataria di queste lettere rimane solamente Alethea, ma i destinatari si moltiplicano all’infinito: «Siamo qui per te e per tutti i figli che vivranno dopo di noi» (p. 306).
Dopo la lettura di Vacis, Akomolafe chiede al pubblico se nella sala ci sia qualcuno che abbia perso una persona cara durante la pandemia. Diverse mani che si alzano. “La morte è stranamente rigenerativa”, dice, raccontando poi della perdita di suo padre, avvenuta quando lui aveva solo quindici anni. La figura del padre, la sua prematura e improvvisa scomparsa, sono tra i primi racconti che compaiono nel libro. La pratica discorsiva di Bayo Akomolafe sembra iniziare sempre con la perdita, non dalla perdita, perché un inizio vero e proprio, come abbiamo visto, non c’è mai, ma è tutto un continuo generarsi con, nel mezzo di, tra. La stessa idea di scrivere queste lettere alla figlia presuppone il fatto che quando lei le leggerà, tra molto tempo, lui non ci sarà più. Il mondo sarà mutato, non sappiamo come, e allo stesso tempo, l’autore confessa di essere sempre stato morto. Anche nel mezzo della scrittura. Il tempo di cui ci parla non è il tempo lineare al quale la nostra educazione ci ha abituati e che la fisica quantistica ha già rimesso in discussione da un pezzo. Nelle parole del filosofo il tempo diventa un grumo nel quale passato presente e futuro non sono facilmente distinguibili e questo tempo nuovo scompagina idee secolari e desidera nuovi pensieri e nuove azioni.
«Man mano che il mondo (che viene reso parzialmente reale dai nostri atti performativi) ci impiccia e ci scortica, perdiamo le nostre cellule cutanee, i nostri capelli e parte di noi stessi, contribuendo a quella comunità della polvere che include altri esseri e le loro perdite. I margini sanguinano con le tracce del divenire, morenti e viventi, inizi e fini vengono sempre saldati in un gravido denso mentre. (..) Siamo in costante disfacimento, un divenire polvere, e ciò non si applica solo alle superfici, come se il confine tra superficie e contenuto, tra fuori e dentro fosse così definito. Ci dissolviamo in mulinelli di polvere e il paradiso stesso, con tutto il suo oro e il suo diaspro e i suoi angeli, non contesta l’opera di redenzione-distruzione della polvere. La trasfigurazione avviene proprio in questo preciso istante, come ha sempre fatto – nella continua s/comparsa del mai-intero, mondando tutta la progenie di Eva: Dio, mondo e tutto quanto. Nella ricerca di una casa stiamo scendendo a terra e non arriveremo intatti» (pp. 60-61).
Rimettere i piedi per terra. È questo il moto discendente che caratterizza il viaggio di Akomolafe. Un viaggio nel grande fuori dove la morte aleggia e rigenera (la prima e la seconda lettera, Tutti i colori che non vediamo e Considera il Leviatano), dove nuovi femminismi e materialismi stanno riprendendo in conto la materialità del mondo (terza lettera, Abbracciare i mostri), dove occorre abbandonare categorie di rivendicazione razziale se vogliamo uscire da logiche di dominio (Libagioni agli incroci, lettera quattro) dove la sofferenza psichica e il buio sono la foresta da attraversare e non questioni da riparare, o peggio, da curare (quinta lettera, Le lacrime non cadono nello spazio). «Dove ti scopri confusa, esausta, angosciata e compromessa, è lì che crescono le cose selvagge» (p. 293) dice il padre alla figlia. La ricerca di quelli che l’autore chiama hush «le creaturine che strisciano sui piani mobili della terra e che si nascondono nelle pieghe del suo ventre» (p. 15), e che sembrano usciti da un racconto di Ursula Le Guin, è mossa dal desiderio di scendere dal cielo della fede come da quello della modernità dualista e coloniale, per tornare ad immischiarsi con il mondo, con i mondi dei quali in realtà siamo sempre stati impregnati. Non è un atto finalistico, è un atto dovuto e Akomolafe, come ha già fatto prima di lui Donna Haraway, si spinge oltre l’affermazione di Bruno Latour, per sostenere che «non siamo mai stati umani», siamo sempre anche altro, siamo sempre invischiati.
Se l’influenza di Haraway si innesta nella scrittura stessa di queste lettere, caratterizzate da una narratività ibrida di affabulazioni, pensieri e racconti (una scrittura che oggi contraddistingue anche autrici come Vinciane Despret e Anna Tsing), sull’essere costantemente invischiati e sulla queerness del mondo l’influenza del pensiero di Karen Barad è esplicitata dal racconto dell’incontro tra Akomalafe e la femminista americana nella sua casa in California. La presa in carico di un nuovo materialismo in Barad è intrisa di fisica quantistica (Barad è fisica di formazione) e le permette di sviluppare la teoria della performatività queer della natura, del realismo agenziale e di frequentare un postumanismo che non intente annullare i confini tra umano e non umano, quanto piuttosto indagarne i margini, gli «effetti materializzanti dei modi in cui si traccia il confine».2 Secondo Barad «Queer è un organismo in mutazione, il desiderio di un’apertura radicale, una molteplicità in selvaggia differenziazione, un discepolo di Proteo, un’agency dis/continua, una spaziotemporalità ripiegata (enfolded), in preda a continue reiterazioni, in costante materializzazione e promiscuamente ingegnosa» (La performatività queer, p. 71).
Il mondo, insomma, è bizzarro più che conoscibile in termini di categorie che tracciano linee di demarcazione tra dentro e fuori, bianchi e neri, natura e cultura. Il mondo vive nella relazione e la relazione precede gli oggetti. È quella che Barad chiama intra-azione, una pratica “del mezzo” che Akomolafe riprende nella sua ricerca di casa.
«Gli oggetti, che si tratti di un laptop, del cambiamento climatico, dell’idea di determinismo, o di cosa significhi “casa”, accedono alla loro “coseità” e specificità nel contesto di una relazione. E questo emergere non accade nella modalità di una-volta-per-tutte. Il mondo non è come un contenitore vuoto pieno di cose, come questo barattolo pieno di caramelle morbide che sta sopra l’erogatore d’acqua a pochi passi da me. Il mondo è una relazione continua in cui le “cose” si disfano e si coagulano in seguito a pratiche umane e più-che-umane. L’intra-azione suppone un groviglio che la fisica quantistica chiama entanglement, non l’indipendenza» (pp. 158-159).
“La mia terra ha ricevuto dagli inglesi la cosmologia della distanza”, Akomolafe racconta con voce calma e un sorriso che esplode spesso tra una frase e l’altra incalzando il pubblico con domande che vogliono instaurare dialoghi, aprire brecce tra i nostri corpi seduti e abituati allo stare fermi, ordinati. È questa distanza che la sua scrittura e le sue parole di adesso provano costantemente ad oltrepassare. È un costante rituale dell’incontro, uno sporgersi all’altro che ripercorre le orme di Ubuntu: «io sono perché noi siamo». Stiamo tutti passando in questo preciso momento, stiamo tutti svanendo ad ogni istante. E siamo tutti a un crocevia come specie, considerato che stiamo raggiungendo gli 1.5° C al di sopra dei livelli preindustriali. E nell’incontro le domande germogliano e scavano silenzi, scuotono colpendo a fondo, perché è insieme che spontaneamente avremmo voglia di domandare “che cosa possiamo fare?”. E invece la domanda di Akomolafe è un’altra, è la domanda del trickster: “Who has power?”. Chi ha il potere? Dov’è il potere? Chi è il potere? Il colonizzatore o il colonizzato? Il padrone o lo schiavo? La multinazionale o gli attivisti? Nessuno ha il potere, il potere non è di nessuno. Il colonizzatore che frusta lo schiavo è convinto di avere il potere, ma verrà ricoperto dagli schizzi di sangue di chi sta frustando. Lo schiavo sarà attraversato dalla frusta del padrone. Ciascuno di noi è percorso e turbato dall’altro che ci attraversa, continua il filosofo. «Non c’è essenza qui, solo un movimento che collega colonizzatore e colonizzato in erotici intrecci» (p. 242). Nella quarta lettera, Libagioni al crocevia, nella quale Akomolafe affronta la questione dell’identità e racconta del percorso di consapevolezza durante il quale aderisce per un certo periodo al panafricanismo, ritroviamo chiaramente questa mistura. La rivendicazione di un’identità ci blocca dentro a logiche di dominio.
«Il potere non scorre in una sola direzione, da loro a noi. Il dominio è sempre a doppio taglio, ferisce il colonizzato e rafforza le contratte rigidità del colonizzatore, ma anche questa dinamica non è meccanicamente bloccata. Quel passato – a cui sovente aneliamo nei nostri progetti intellettuali che cercano di “tornare al paradiso perduto”, per recuperare il senso di una indigeneità originaria – non è mai stato coerentemente indigeno, armonioso o privo di ombre. La modernità non è esattamente l’essenza del male che ha distrutto precedenti paradisi di vita e di benessere comunitario» (pp. 235-236).
Più che parlare, spiegare e dire la verità al potere, occorre agire da trickster e sedere al crocevia, proprio come Èsù, la divinità della tradizione Yoruba che i coloni associarono frettolosamente al Satana della tradizione cattolica. Ma Èsù non agisce da demonio, piuttosto ha il ruolo di intermediario tra gli dei e gli uomini. Scombina le carte, si prende gioco, consegna i sacrifici ed è la divinità della scelta e del libero arbitrio. Agire esclusivamente all’interno della rivendicazione di parità e diritti, rivolgersi indietro a supposte radici incontaminate, pensare l’Antropocene in termini di sola epoca umana e di misurazione dei livelli di CO2, sono ennesime impasse che restano all’interno di un binarismo meccanicista moderno o dell’arbitrarietà postmoderna. Riconoscere le limitazioni di un mondo che per un attimo abbiamo creduto infinito non significa abbandonare la speranza di nuove possibilità. Significa riconoscere la materialità e nello stesso tempo la schiusa del sempre nuovo, dell’altro. Esistono già gruppi, comunità, network di persone che sperimentano «gli spazi-nel-mezzo della giustizia-a-venire» (p. 367), esistono spazi come lo slum indiano di persone come Kutti che sperimentano nuove modalità di fare casa, esistono luoghi marginali, poco o per nulla visibili che fermentano di vita. Quello che Akomolafe chiama Postattivismo non è una risposta nuova a questioni urgenti, perché vuole uscire dalla logica delle domande e risposte, e non è nemmeno una pratica che viene dopo l’attivismo, quanto piuttosto un modo di riflettere alle domande che ci poniamo, a come guardiamo il mondo. È un’immersione di e tra nuove pratiche esplorative, che includono, condividono, toccano un cambiamento in atto e in divenire. È la necessità di rallentare proprio perché siamo di fronte a questioni urgenti. Sono le modalità con cui rispondiamo che devono cambiare e uscire dalla stessa logica che ha creato problemi.
«Questo è un momento per frequentare i margini, per sporgersi su punti di intersezione problematici in cui le differenze tra me e te, noi e loro, queer ed etero, natura e cultura, vivente e non vivente, uomo e mondo, non sono date e finite, ma ancora in divenire. Questo è un buon momento per stare con la fatica di sapere che non vi è divenire che non sia un co-divenire» (p. 368).
Usciamo dalla sala incalzati dall’incontro successivo e il nostro dialogo resta quasi in-sospeso, con quella domanda potente che aleggia nell’aria: Who has power?. Un incontro senza un vero e proprio inizio e senza una fine, come è nello stile del multiforme Bayo Akomolafe. E mentre lui si destreggia tra domande, interviste e fotografie, incontro persone care, abbraccio amici e amiche che sembrano arrivare da altri mondi, mondi che emergono dalla stessa Terra, mondi che si incontrano e che in quel momento, insieme, fanno casa.
———
Note:
2) Karen Barad, La performatività queer della natura, in Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli, Ombre Corte, Verona, 2020, p. 75.
———
Immagine di copertina:
foto di Elisa Veronesi.