[Pubblichiamo un estratto da Cospirazione animale. Tra azione diretta e intersezionalità di Marco Reggio, Meltemi, 2022. Per gentile concessione dell’editore].
Deriva #1 Le capre “felici” (prendere sul serio l’imbarazzo)
Agitu Ideo Gudeta era una donna fuggita in Italia perché fatta oggetto di persecuzione politica nel suo paese, l’Etiopia. Era diventata piuttosto famosa in Trentino perché aveva fondato un allevamento di capre con cui produceva formaggi che negli anni si era ampliato, ottenendo un certo successo imprenditoriale. Dopo aver conseguito una laurea in Sociologia presso l’Università degli Studi di Trento, Agitu era tornata in Etiopia per condurre progetti di agricoltura sostenibile. Nel 2010, a fronte dei continui espropri di terreni ai contadini da parte del governo etiope, aveva cominciato a partecipare a manifestazioni di protesta, in aperto contrasto con l’incuranza governativa sulle conseguenze ambientali della cessione di terreni alle multinazionali. Perseguitata politicamente, tornò in Trentino, alla ricerca di terreni abbandonati da recuperare. Pur con un capitale irrisorio, era riuscita a realizzare il suo progetto imprenditoriale intessendo una rete di sostegno e solidarietà e facendo fronte ai frequenti attacchi di matrice razzista e patriarcale. Una storia di emancipazione, anche se in molte narrazioni progressiste era diventata il simbolo di una paternalistica integrazione, l’immigrata “che si integra”.
Il 29 dicembre 2020 Agitu venne trovata morta nella sua abitazione nella Valle dei Mocheni, in Trentino. L’ennesimo femminicidio. La vicenda, però, presentava anche alcune peculiarità che furono le premesse per una serie di discussioni – talvolta conflittuali – e di emozioni contrastanti. L’assassino viene arrestato in breve tempo; si scopre che Agitu è stata stuprata durante l’agonia. La natura patriarcale dell’atto diventa ancora più esplicita: il solito messaggio di violenza estrema nei confronti di una donna autonoma, indipendente, che stava riuscendo a costruirsi una vita degna di essere vissuta nonostante un clima di minacce sessiste e razziste che da anni perdurava. L’assassino è di origine africana, e questo non mancherà di suscitare le narrazioni razzializzanti sui selvaggi stupratori o sul clandestino che, a differenza della vittima, rappresenta il modello della non-integrazione. Ad ogni modo, la storia di Agitu era una storia complessa, “naturalmente” intersezionale, che si articolava lungo le linee del genere, della razzializzazione e dell’impegno ecologista.
1. Capre e orsi
Nome dell’azienda zootecnica: “La Capra Felice”. Una dicitura che richiamava in modo emblematico quella retorica che alcuni settori antispecisti avevano iniziato, da diversi anni, a guardare con estremo sospetto. In quel periodo, io militavo in un gruppo, Assemblea Antispecista, una rete nazionale nata pochi mesi prima che si era misurata principalmente con un progetto di lotta localizzato proprio nella provincia di Trento. Fra il settembre e l’ottobre del 2020, infatti, avevamo lanciato una campagna per la liberazione degli orsi detenuti nel Casteller, e contro la persecuzione degli altri esemplari che vivevano liberi nelle montagne trentine ed erano sotto attacco da parte della Giunta provinciale leghista. Dopo anni di stagnazione, STOPCasteller era un progetto molto stimolante, costruito insieme a delle realtà locali come Fridays for Future Trento e soprattutto con il Centro Sociale Bruno e altri centri sociali. Una campagna con obiettivi concreti, per certi versi molto pratici, ma anche di ampio respiro, almeno potenzialmente. Gli orsi in Trentino erano stati immessi sul territorio fra il 1999 e il 2002 per accaparrarsi i soldi della Comunità Europea, poi erano divenuti un “problema”, poi erano stati considerati troppo confidenti, troppo pericolosi, troppo indomabili o semplicemente troppi (gli orsi, ovviamente, si riproducono), infine erano stati perseguitati, braccati, si erano ribellati, erano stati uccisi, imprigionati, erano scappati come M49 che, con due fughe incredibili dal Casteller, ci aveva spronato ad agire, erano stati riacciuffati e condotti trionfalmente dietro le sbarre e imbottiti di psicofarmaci. Questo era di per sé sufficiente per indurci alla mobilitazione ma, appunto, la gestione delle istituzioni richiamava una critica più ampia perché si intersecava con un preciso modello di visione del territorio come risorsa da sfruttare, da lottizzare, come immensa pista da sci, e riproponeva la questione dei corpi non conformi, dei corpi che non riconoscono i confini e li attraversano, siano essi corpi animali che abitano i boschi alpini ignorando l’esistenza delle frontiere, umani migranti in cerca di una vita migliore o presenze indecorose, inquietanti, che osano portare nello spazio pubblico qualche tipo di dissidenza di genere.
Per questo, l’incontro con alcuni soggetti antagonisti era un’esperienza preziosa. Tuttə noi mettevamo cura in questa esperienza, come se questo incontro, con tutte le sue contraddizioni, fosse da preservare, da proteggere. Proteggere dagli identitarismi, per esempio, dato che si apriva un dialogo, e a tratti una fascinazione, fra storie anche molto diverse, perché ora “i centri sociali” (questa etichetta un po’ fantasmatica significava tante cose indefinibili, fra cui il fatto che mancava una coscienza antispecista ben circoscritta) si interessavano all’antispecismo tout court, e chi aveva una storia di lotte per la liberazione animale aveva finalmente adottato un pensiero intersezionale in grado di cogliere la complessità dei posizionamenti al di là della tragedia dello sfruttamento dei non umani. Le persone di Assemblea Antispecista, alcune anche molto giovani, arrivavano all’attivismo con un bagaglio di consapevolezza politica significativo, di attenzione alle questioni che tradizionalmente esulavano dall’animalismo, e avevano costituito un gruppo dichiaratamente avverso alle pratiche sessiste, omotransfobiche, colonialiste, abiliste, con le sue contraddizioni, ma con una determinazione ad affrontarle e progredire su questi piani. Nonostante questo, c’era il rischio che la fissazione su delle identità rassicuranti impedisse di costruire ponti, indubbiamente. Ci eravamo ritrovatə immediatamente, con lə compagnə dei “centri sociali”, su uno slogan e al tempo stesso un’azione molto chiari: “Smontiamo la gabbia”, che era il claim del corteo nazionale che ha inaugurato la campagna, ma che è stata soprattutto una pratica, dato che nel corso della prima manifestazione diversi gruppi riuscirono a distruggere decine di metri della recinzione del Casteller. E ci eravamo ritrovate nella resistenza animale, nella solidarietà immediata agli orsi ribelli, a M49, una solidarietà che sembrava quasi più vera per “loro” che per “noi”, noi che eravamo fin troppo abituatə a fare della rivolta animale un tema di discussione, un approfondimento ormai ricco di fonti bibliografiche.
L’uccisione di Agitu arriva in questo contesto esaltante ma faticoso, e subito la difficoltà di prendere parola è chiara. Agitu, infatti, oltre che una persona, era suo malgrado un simbolo, soprattutto in alcuni contesti militanti. Un simbolo di riscatto, di autonomia femminile, di antirazzismo, di resilienza, e di “cura”. Di cura perché il suo piccolo allevamento aveva le perfette caratteristiche dell’allevamento “felice”: amava le sue capre, le accudiva, dava loro ampi spazi al pascolo. Al tempo stesso, svolgeva un’attività ecologicamente importante, legata alla preservazione del territorio ma soprattutto della capra mochena, specie rara e tutelata. Per questo, la rabbia per la sua morte è anche la rabbia di una comunità che l’aveva conosciuta, supportata, che aveva intessuto legami con lei; una comunità che comprende tanti allevatori e allevatrici e che travalica la dimensione locale, come testimonia l’appello del Valsusa FilmFest (si veda oltre).
Ricordo che provai anzitutto rabbia. La stessa, credo, di tante altre persone (sempre troppo poche) di fronte a un femminicidio, alla fine improvvisa e violenta di un percorso di riscatto dal colonialismo. Però intuivo già che qualcosa di problematico sarebbe emerso perché sapevo che la strada che questa donna aveva scelto, in un ventaglio di possibilità che immagino ristretto, era in contrasto con il mio sentire – con il “nostro” sentire – almeno per due aspetti. Il primo era il fatto stesso di sfruttare degli animali, seppur con minor violenza, cioè di perpetuare un meccanismo che non può eludere alcuni fatti concreti: per esempio, per quanto un allevamento sia attento alla sofferenza e al rispetto dei desideri degli allevati, per quanto non produca carne mandando al macello qualcuno, se vuoi che una capra produca latte, deve fare dei cuccioli e quei cuccioli non faranno una bella fine. Il secondo aspetto era proprio il fatto di “sfruttare con amore”.
Quando arriva questa notizia per me l’effetto è destabilizzante, in un certo senso. Oltre alla rabbia, sento vicinanza a questa comunità che è fatta anche di gente che alleva animali – e questo di per sé mi disturba – e nello stesso tempo affiora la mia coscienza delle imposture della carne felice. Sapevamo che la celebrazione della vita di Agitu, la sua spettacolarizzazione in alcuni casi, si sarebbe giocata, oltre che sull’asse di genere e della razza, anche sull’asse della specie, quello in cui l’oppressa era nella posizione di privilegio, non fosse altro che per la possibilità di gestire delle vite che non sono la propria. Mi trovo di fronte alla situazione di “non poter dire”. Non solo per via del rispetto di un lutto, un lutto peraltro già politico nella sua espressione, e molto più ampio del dolore dei familiari o dei conoscenti stretti, frutto di un legame con una comunità anche simbolica. Del resto, il senso di non potersi permettere una presa di posizione, se non a patto di abiurare le proprie convinzioni, il proprio sentire, non era certo una novità, specialmente per dellə antispecistə. Questa paralisi derivava da una contraddizione fra una spinta, che si avvertiva, a decolonializzare 1 l’antispecismo e la sensazione che la nostra lettura della questione della “carne felice” fosse importante, forse imprescindibile e al tempo stesso inquinata proprio da non ben definiti elementi di colonialità. Ricordo che, durante le lunghe discussioni interne al gruppo, mentre alcune portavano con forza l’istanza della “condanna” dell’allevamento “etico” rimarcando che Agitu non era un’antispecista, ci fu una compagna che disse pressappoco: “penso che Agitu, in Etiopia, non avesse neanche lontanamente il privilegio di pensare all’antispecismo, di contemplarlo nel quadro del suo impegno femminista ed ecologista, sicuramente non nei termini in cui lo pensiamo noi, e neppure per praticarlo in Italia”. Le parole di questa compagna furono molto importanti per dare forma a questa inquietudine.
2. Giudicare l’amore dalla “zona dell’essere”
Ramón Grosfoguel, in un saggio del 2012 intitolato Il concetto di ‘razzismo’ in Michel Foucault e Frantz Fanon, articola la distinzione fra “zona dell’essere” e “zona del non-essere” tracciata da Fanon in Pelle nera, maschere bianche: “quei soggetti localizzati sul lato superiore della linea dell’umano vivono [nella] ‘zona dell’essere’, mentre quelli che vivono nel lato inferiore di questa linea vivono nella zona del non-essere”2. In quel periodo stavo proprio leggendo questo saggio, e non mi sfuggì come il dispositivo razziale fosse descritto lungo il crinale dell’umano. Chi è umano e chi non lo è. Nella zona dell’essere i soggetti vivono quella particolare esperienza del razzismo che è il privilegio razziale; nella zona del non-essere i soggetti vivono l’oppressione razziale. Tutte le oppressioni (classe, genere, sessualità) vengono vissute in modi molto diversi in questi due mondi. Nel primo, esistono dei conflitti relativi fra “Io” e “Altro”, ma non sono razziali, poiché all’“altro” è pur sempre riconosciuta l’umanità di fondo e pertanto questi conflitti si giocano su meccanismi di emancipazione, inclusione, negoziazione: io che in questo momento scrivo da questa zona e da un relativo privilegio li conosco bene, per esempio in quanto lavoratore che ha la possibilità di negoziare parte della sua condizione di sfruttamento, così come so che il ricorso alla violenza diretta da parte dei potenti è sempre possibile, potenzialmente (una pace perpetua con momenti di guerra, dice Grosfoguel). Nel secondo, al contrario, la negoziazione è un fatto occasionale: la norma è “la violenza continua”, “l’appropriazione aperta e brutale”, “la guerra perpetua con momenti eccezionali di pace”. Queste zone, evidentemente, non sono strettamente individuabili in senso geografico, poiché alla distinzione globale fra zone dell’essere e zone del non-essere si affianca la distinzione fra zone dei colonialismi interni. Per questo, il colore della pelle, i tratti somatici, le credenze religiose sono indicatori di condizioni molto diverse a seconda del contesto.
Mentre leggevo il saggio, non potevo non pensare agli animali non umani, e non solo perché, appunto, tutto si giocava sull’Uomo, misura di tutte le cose. Più concretamente, mi chiedevo dove stessero gli animali, in questo discorso. Sempre e comunque nella zona del non-essere, ad ogni latitudine, con ogni condizione geopolitica, nelle colonie, nelle post-colonie, nei protettorati, nelle grandi metropoli occidentali, sempre e comunque rinchiusi, violati, macellati – e poco importa quanto asettico, sanificato e umanitario sia il mattatoio. “Loro vengono sempre da una situazione peggiore”3. Ma forse anche questo era un pregiudizio bianco, tutto sommato, se è vero che molti popoli non occidentali non hanno mai concepito una distinzione così netta fra umani e animali. Era da questo pregiudizio, che probabilmente condividevo con tantə antispecistə occidentali, che proveniva l’autorizzazione che ci davamo a giudicare il grado di ambiguità della parola “cura” nel caso di Agitu? Come se, di fronte alla tragedia animale, si potesse persino sindacare sulle buone intenzioni di una profuga che stava provando a ricostruirsi la vita. In effetti, Grosfoguel prosegue e mi incalza: il punto non è tanto il razzismo come linea di separazione fra i corpi, quanto “il razzismo epistemologico”. Scopro che “quella che oggi conosciamo come teoria critica o come pensiero critico è la teoria sociale prodotta dall’esperienza storico-sociale dell’‘Altro’ nella zona dell’essere”4. Sta parlando di oggetti che uso. Non che non siano utili, è ovvio. Il concetto di “violenza epistemica” di Gayatri Chakravorty Spivak, per esempio, che è un concetto molto simile ma che emerge in una tradizione di pensiero – il pensiero postcoloniale – accademico, complesso, spesso quasi inaccessibile, mi ha colpito per la prima volta quando l’ho visto usare in modo semplice, diretto da uno studioso di Critical Animal Studies, Dinesh Wadiwel, per parlare dei pesci.
Wadiwel definisce la violenza epistemica come “un approccio per comprendere la capacità dei sistemi di verità di mettere a tacere determinati soggetti e rendere visibili o invisibili particolari espressioni di verità e di possibilità”5. Se Spivak metteva alla prova questo concetto per decostruire le narrazioni del sati (rituale indiano in cui venivano bruciate le vedove) prodotte rispettivamente dai colonizzatori e dai fondamentalisti indiani e il modo in cui queste mettevano a tacere le voci delle donne colonizzate, Wadiwel lo applica al dibattito sulla sofferenza dei pesci e alle soluzioni all’insegna del “benessere” animale. La condizione degli animali sfruttati, infatti, è presa in una doppia morsa data dalla cornice epistemica dominante: da un lato, la narrazione secondo cui essi non soffrono o desiderano morire (come le donne indiane nella ricostruzione fondamentalista maschile); dall’altro, la narrazione salvifica animalista che non vede altra possibilità che salvarli dalla sofferenza o tutelarli per ridurla.
Proprio come Spivak suggerisce che si tratti di violenza epistemica quando ci si immagina che la soluzione, l’unica soluzione, per le donne indiane per affrontare la pratica rituale del sati sia di venire salvate dai colonizzatori britannici, potremmo allo stesso modo domandarci se l’unica soluzione possibile per risolvere il problema globale dello sfruttamento degli animali sia di ridurre o di evitare la sofferenza (per ‘salvare’ gli animali che soffrono)6.
Esiste dunque un approccio esterno a questa asfittica cornice: i pesci resistono alla violenza ed è dunque evidente sia che non “desiderano morire” sia che la loro salvezza non è rappresentata dall’animalista benevolo che propone di migliorarne paternalisticamente le condizioni di sfruttamento.
Tornando al pensiero decoloniale e a Grosfoguel, la teoria critica di sinistra non è sufficiente “per capire i problemi vissuti né il modo in cui si articolano i processi di violenza e di appropriazione del dominio e dello sfruttamento di quei soggetti appartenenti alla zona del non-essere”. Lə antispecistə, dunque, stavano forse giudicando dalla zona dell’essere una persona che cercava di sopravvivere nella zona del non-essere? E – a complicare la situazione – si sentivano forse legittimatə a farlo perché prendevano le difese di qualcuno che, come le capre, si trovava da sempre in una zona ancora più invisibile o oscura rispetto al non-essere? Una zona del “non-essere assoluto”?
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Note:
2) R. Grosfoguel, Il concetto di ‘razzismo’ in Michel Foucault e Frantz Fanon, in Rompere la colonialità. Razzismo, islamofobia, migrazioni nella prospettiva decoloniale, trad. it. di R. Cetrangolo, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 132.
3) Cfr. Them, serie tv, U.S.A. 2021, episodio 1.
4) R. Grosfoguel, op. cit., p. 136.
5) D. Wadiwel, I pesci resistono?, trad. it. di feminoska, M. Reggio, M. Filippi, in “Liberazioni”, n. 26, 2016, p. 52.
6) D. Wadiwel, op. cit., p. 54.
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Immagine di copertina:
© Massimo Giacci, Et in Arcadia ego (particolare), 2010.