Il saggio di Lelio Demichelis, Tecno-archía, o la Nave dei folli, pubblicato qualche mese da fa DeriveApprodi, si configura come una critica radicale e profonda della modernità tecnica e capitalistica contemporanea. Attraverso una definizione provocatoria – quella di “tecno-archía”, appunto – l’autore mette in luce come la razionalità strumentale, la tecnologia e il capitalismo non siano semplicemente strumenti, ma si siano consolidati in un potere ontologico totalizzante. Secondo Demichelis, questa tecno-archía agisce da tre secoli, guidata da logiche di profitto, digitalizzazione e sfruttamento, che oggi si manifestano con maggiore evidenza nella convergenza tra algoritmi, intelligenza artificiale e dipendenza umana dalle macchine. L’immagine scelta per descrivere questo sistema è quella della Nave dei folli di Hieronymus Bosch: un’umanità alla deriva, priva di timone, ma paradossalmente con vele spiegate verso obiettivi ben definiti, quelli dell’ecocidio e della mercificazione dell’esistenza. Il testo di Demichelis non si limita a una denuncia sociologica, ma propone una prospettiva di rottura anarchica (nel senso di anti-archica) e democratica, sostenendo che la liberazione da questo potere richiede non solo una critica teorica, ma una vera svolta politica e rivoluzionaria.

Tecno-archía di Lelio Demichelis è un libro che colpisce subito per il modo in cui attualizza il discorso sul potere tecnico, chiamando in causa attori, dinamiche e snodi concreti del nostro presente: l’autore fa nomi e cognomi, non si rifugia nel generico. Parla apertamente delle svolte anarcocapitaliste promosse dalle grandi aziende tecnologiche, che presentano sé stesse come forze libertarie mentre costruiscono apparati di dominio senza precedenti; si confronta con figure come Trump e Musk, ed evidenzia come il nuovo orizzonte politico statunitense e occidentale sia segnato dalla fusione tra retoriche anti-statali, deregolazione estrema, big-tech e finanza. Descrive la condizione in cui viviamo come un continuo stato di emergenza – spesso costruito o amplificato – funzionale al controllo sociale e alla legittimazione di misure sempre più invasive. In questo scenario, la tecno-archía non è solo un concetto astratto: è un fondamento che regge la nostra quotidianità, la politica, il modo in cui le società vengono governate, persino come la realtà viene percepita.

Lelio Demichelis, Tecno-archia

La riflessione di Demichelis trova alimento nella grande tradizione della filosofia continentale. La Scuola di Francoforte è un punto di riferimento costante, non solo per la critica della razionalità strumentale, ma soprattutto per l’intuizione, già presente in Adorno, Horkheimer e Marcuse, che il dominio moderno passi attraverso una riformattazione del linguaggio e dell’immaginario. Marcuse aveva già individuato come il linguaggio politico e mediatico tenda a semplificarsi, a diventare un linguaggio standardizzato, povero, asservito alla riproduzione dell’ordine capitalistico. Demichelis riprende e aggiorna questa analisi, mostrando come oggi la rialfabetizzazione passi per la pubblicità, per i best seller confezionati, per la comunicazione dei politici e – soprattutto – per gli algoritmi che selezionano ciò che vediamo, leggiamo, ascoltiamo. È una riscrittura del linguaggio che diventa riscrittura del pensiero, una forma di neolingua che richiama esplicitamente Orwell: la riduzione della complessità a slogan, meme, format facilmente digeribili, compatibili con la logica capitalistica della rapidità, della prevedibilità e dell’emozione istantanea. La tecno-archía, così, non solo governa, ma produce i codici con cui pensiamo il mondo.

La rete di riferimenti filosofici che Demichelis costruisce è ricchissima: accanto ai canonici Arendt (per il tema del totalitarismo, ma evidenzio anche il riferimento esplicito nel sottotitolo del libro, La banalità digitale del male), Weil, Anders, Schmitt, Severino e Heidegger, compaiono anche figure come Luxemburg, il cui senso rivoluzionario dell’azione è evocato come esempio di rottura non addomesticabile; Castoriadis, con la sua idea di autonomia e di immaginario sociale; Gramsci, per quanto per lo più criticato dall’autore; Ellul, tra i più lucidi critici del sistema tecnico; e, sul versante italiano contemporaneo, Cacciari e Galimberti, che l’autore richiama quando parla della struttura nichilistica del potere tecnico e dell’impoverimento antropologico provocato dalla tecnologia. Il libro è così un denso crocevia teorico, ma sempre al servizio di un’analisi puntuale del presente.

All’interno di questo quadro, Demichelis dedica un’attenzione particolare alla distinzione antica tra arché e kratos. Il primo è il fondamento che impone, che ordina, che costituisce un principio di necessità; il secondo è invece il potere che può prevedere un’opposizione, un contrasto, un confronto, e quindi può essere democratico, mutevole, fondato sulla partecipazione. La tecno-archía è, in questo senso, una forma di arché totale: un fondamento tecnico-scientifico che pretende (illude) di essere inevitabile. La democrazia autentica, invece, è an-archica, nel senso sottolineato da Donatella Di Cesare: non ha un fondamento stabile e non ne vuole uno, vive della propria apertura, della propria fragilità, della propria esposizione al conflitto. Questo contrasto attraversa tutto il libro e funge da bussola interpretativa.

Interessante è poi la critica al marxismo che, in alcune sue versioni storiche, ha creduto nella possibilità di utilizzare tecnica e scienza per accelerare o facilitare la rivoluzione. Per Demichelis, questa fiducia è profondamente ingenua: la tecnica non può essere neutra, né può semplicemente essere messa al servizio del proletariato. Essa è già una forma di potere archico, un dispositivo che struttura la realtà. Trasferirla da un regime capitalistico a un regime comunista (o di qualsiasi altro tipo) significherebbe cambiare i gestori, non la struttura del dominio. Uscire dal capitalismo tecnico attraverso “più tecnica” significherebbe passare da un totalitarismo all’altro. Insufficiente quindi sarebbe anche la soluzione accelerazionista, come emerge da certe letture di Deleuze e in altre forme più recenti. Per l’autore non ha senso spingere il sistema al limite per farlo collassare. Accelerare significa solo rafforzare l’apparato tecnico: la rivoluzione, se avverrà, non avverrà per implosione, ma per rifiuto.

Una delle immagini più potenti del libro è quella della Nave dei folli: una metafora che descrive perfettamente la nostra condizione. Siamo a bordo di un’imbarcazione che non sceglie la rotta, o almeno così crediamo; in realtà, la rotta è dettata dagli algoritmi e dalle gigantesche infrastrutture tecniche a cui abbiamo affidato libertà, tempo e dati. Il paradosso è che ci crediamo piloti quando siamo cargo. Continuiamo a delegare parti crescenti della nostra vita agli apparati digitali, convinti di guadagnare efficienza e comodità, ma in realtà rinunciamo progressivamente alla nostra autonomia. Allo stesso modo, estremamente acuto è il concetto di taylorismo sociale e politico: un’estensione del modello di fabbrica alla totalità della vita. Ogni gesto digitale – scrollare, aprire un account, commentare, mettere like, repostare – diventa un microgesto produttivo. L’utente non è più un soggetto libero, ma una particella di valore attratta e catturata dalla rete. Il sistema tecno-capitalista vive della nostra presenza continua e del nostro tempo; siamo noi stessi a offrire – spesso con entusiasmo – la materia prima che alimenta la società-fabbrica.

Demichelis lega questa deriva anche alla questione ecologica, sostenendo che la tecnologia digitale non è “immateriale” o “pulita”, come spesso si tende a descriverla. Al contrario, essa è responsabile di forme di ecocidio difficili persino da quantificare. Non viviamo nell’antropocene, dovuto genericamente all’azione dell’uomo, ma nel tecnocene, il cui motore è il sistema tecnico stesso. E la tecnica non trasforma solo l’ambiente: lo consuma, lo modella secondo logiche che la vita sulla Terra non può sostenere. Qui emerge un Demichelis profetico, ma mai apocalittico: la diagnosi è dura, ma argomentata con rigore.

È da questa esigenza che emerge la parte più radicale del libro: la richiesta di una rottura. Non una riforma, non una mediazione, non un’ottimizzazione del sistema, ma una vera e propria rivoluzione. Demichelis vede nell’esperienza della Comune di Parigi del 1871 e nella rivoluzione ungherese del 1956 esempi storici di potere destituente: realtà nelle quali il popolo ha provato a fondare un ordine radicalmente diverso, non archico. Anche il movimento di Genova 2001 è evocato come un lampo di resistenza contemporanea, considerato dallo stesso autore – condivisibilmente – l’ultimo gesto davvero di rottura degli ultimi trent’anni. Eppure l’autore in questa sede non lo approfondisce quanto – a mio parere – sarebbe stato interessante fare.

In definitiva, Tecno-archía di Lelio Demichelis è un saggio potente e urgente, che non lascia indifferenti. Le sue argomentazioni colpiscono per chiarezza, rigore documentale e profondità filosofica: l’autore non propone un allarme superficiale, ma una diagnosi ontologica del potere tecnico, e insieme un percorso di liberazione che esige coraggio, pensiero critico e azione. Nel leggere il libro si percepisce il destino nefasto, forse ineluttabile, della nostra epoca – ma anche una scintilla di speranza nella rottura rivoluzionaria.

Ma alla fine della lettura, a mio parere, al di là della forza dell’argomentazione, risaltano due sorprendenti assenze. Da una parte manca un confronto reale con gli accelerazionisti (è difficile non affermare che il concetto centrale del libro di Demichelis non possa essere accostato, pur operando su livelli diversi, a quello di “realismo capitalista” di Fisher) e con visioni affini da un punto di vista politico anche se apertamente critiche verso l’uso capitalistico e neoliberista della tecnologia, come quella di Klein. Dall’altra sarebbe stato interessante intravedere la prospettiva di un dialogo – anche conflittuale, anche duro – con quelle posizioni che, pur non tralasciando le critiche, mantengono un ampio margine di fiducia nella possibilità di un uso etico, regolato e responsabile della tecnica. Tra queste, spicca a mio parere quella di Floridi, che Demichelis cita in bibliografia ma con cui non si misura apertamente. Floridi è un pensatore assolutamente lucido, incapace di ingenuità, di certo vicino a posizioni liberiste, e per questo chiaramente più ottimista rispetto al ruolo delle tecnologie digitali. E tuttavia è un’autorità nel campo della IA intesa come risorsa per l’uomo, che insiste sulla necessità di un’etica dell’informazione, di una responsabilità condivisa, di un equilibrio tra innovazione e tutela dell’ecosistema Terra. È un autore che crede nella possibilità di governare la tecnica senza demonizzarla, di orientarla attraverso principi, norme, deliberazione collettiva.

Sarebbe interessante – forse necessario – leggere un confronto diretto tra i due. Potrebbero incontrarsi sul terreno della critica al capitalismo digitale, della denuncia dell’estrattivismo informazionale, della consapevolezza della fragilità del pianeta. E magari alla fine si scontrerebbero inevitabilmente sulla questione decisiva: la tecnica è riformabile o solo rompibile? Floridi sostiene che è possibile ripensare le infrastrutture digitali senza abbatterle; Demichelis afferma che queste infrastrutture, per la loro stessa natura archica, non possano che produrre dominio. Eppure ritengo che siano due visioni che, nel loro contrasto, potrebbero arricchire il lettore, ampliare il dibattito, aprire alternative. E allo stesso modo “l’alternativa che non c’è” di Fisher forse potrebbe dare una concreta spinta verso la rottura che l’autore va cercando, passando magari attraverso quel progetto di comunismo acido che il filosofo britannico riuscì appena ad accennare in un’introduzione per un libro che non avrebbe mai visto la luce (M. Fisher, Il nostro desiderio è senza nome, 2020, pp. 358-392).

E qui sorgono, inevitabilmente, delle domande: è sufficiente invocare la rivoluzione? È realistico pensare che la rottura radicale sia l’unica via possibile? E non rischiamo, concependo la tecnica soltanto come totalitarismo, di irrigidire il discorso, di sottrarre spazio a quelle zone intermedie in cui forse è ancora possibile costruire pratiche, esperimenti, istituzioni più libere?

La colpa della sinistra occidentale – questo Demichelis lo mostra con precisione, e a ragione – è stata quella di addomesticare il discorso, di affidarsi a un progresso che si è rivelato illusorio. Tuttavia, relegare tutti i problemi a una questione di totalitarismo tecnico potrebbe, paradossalmente, produrre un effetto simile e contrario: quello di chiudere il dialogo, di rinunciare a cercare spiragli, crepe, possibilità di negoziazione. Forse una controversia aperta, anche violenta nei termini, con posizioni come quella di Floridi, Fisher, Klein, addirittura Land, potrebbe rivelare quanto i tre approcci – quello radicale anti-archico, quello della spinta verso il collasso tecnologico e quello dell’innovazione eticamente orientata – siano in realtà complementari nell’indicare urgenze, limiti, rischi e responsabilità del nostro tempo. È possibile che proprio da questo conflitto possa emergere una visione più articolata, non dualistica, capace di ispirare azioni pratiche oltre alla necessaria critica teorica.

Ciò che è certo, tuttavia, è che un libro come Tecno-archía arriva in un momento in cui queste discussioni, pur onnipresenti, sono in realtà svuotate di significato, ridotte a semplificazioni divulgative pensate per la massa. Si parla continuamente di tecnica, algoritmi, intelligenza artificiale, capitalismo digitale. Ma quasi mai se ne discute davvero, politicamente, socialmente, filosoficamente. Non c’è un dibattito reale, strutturato, capace di affrontare le questioni sostanziali; c’è piuttosto un rumore di fondo, un flusso continuo di contenuti superficiali che, invece di chiarire la complessità del problema, finiscono per banalizzarla. Eppure tali questioni dovrebbero stare al centro della nostra attenzione: tra di noi, nella società, nelle scuole, soprattutto tra i giovani che vivono immersi più di tutti nella logica algoritmica. C’è un’urgenza enorme, palpabile, di parlare della tecnica non solo come strumento ma come forma di vita, di discuterne con serietà, di domandarsi cosa significhi essere liberi in un mondo sempre più governato da macchine e piattaforme. In questo senso, il libro di Demichelis non è solo utile: è fondamentale. Perché non offre risposte rassicuranti, non si rifugia nel compromesso, non edulcora il problema. Ci costringe, con la forza della sua documentazione e del suo rigore teorico, a prendere posizione. E forse è proprio questo, oggi, l’atto politico più urgente: non rimanere in silenzio, non lasciare che siano le tecnologie a decidere al posto nostro, ma restituire alla discussione il peso che merita.


Immagine di copertina:
un particolare da Hieronymus Bosch, La nave dei folli, 1494 circa, Musée du Louvre

Crowdfunding Associazione Ibridamenti APS