Anche se Lacan ce lo descrive quasi sempre nel suo risvolto egemonico, di discorso che pretende di coprire e manipolare la divisione del soggetto, il discorso del maître non si esaurisce nel discorso del padrone. Esso è anche il discorso-guida, la forma di legame sociale che crea raccordo e imprime una direzione alle esistenze di chi lo segue. Guidare non significa necessariamente comandare, né fare ricorso alla costrizione. E difatti, oltre un decennio prima di proporre la sua teoria dei discorsi, Lacan paragonerà questa funzione legante a una “strada maestra”, al tracciato che collega più città o paesi all’interno di un territorio assicurando a chi la segue che arriverà a destinazione. In mancanza di una strada maestra, dice Lacan, non avremmo che il caos: parole scarabocchiate su dei cartelli, stradine infinite che si biforcano tra loro, tanti piccoli percorsi sovrapposti, una miriade di direzioni che non portano da nessuna parte.1 Il discorso del padrone contiene al suo interno, sebbene in forma compressa e non direttamente recepibile, il discorso del maestro.

Si tratta di una torsione di cui Lacan reperiva la necessità anche nella formazione analitica, quando per esempio ricordava che la preparazione dei candidati in una scuola «non può compiersi senza l’azione del maestro», salvo voler dare vita a degli analisti «robot». La Scuola, per come la concepiva lo psicoanalista francese, tende facilmente a fare colla, a decadere a un dispositivo che somministra passivamente il proprio sapere, come se questo procedimento avvenisse per travaso, nel semplice passaggio dalla testa piena di chi insegna a quella vuota degli studenti. Cosa è tenuto a fare un maestro, allora? Risposta di Lacan, succinta ma cruciale: formare l’allievo al «non-sapere», staccarlo dall’idea che il sapere possa colmare la divisione del soggetto, la sua mancanza e la sua funzione.2 A ben vedere, è esattamente il contrario di quel che accade nella convenzionale declinazione del discorso del padrone: il maestro non è chi esaurisce il sapere nell’emissione di una parola solenne, non è chi procura all’allievo un tutto-sapere, ma è colui che «ritaglia» dagli altri insegnamenti e, mettendoli assieme in una sorta di collage evoca la «mancanza» strutturale del sapere in quanto tale. Ecco perché la vera domanda che dovremmo porci di fronte a un autentico maestro non è cosa o quanto quest’ultimo sappia, bensì «che cosa lo spinge a darsi tanta pena per raccontare loro tutto ciò?».3 Quelle appena commentate sono le stesse pagine in cui Lacan allude per un attimo all’esistenza di un desiderio dell’insegnante, una questione che per altro non verrà mai più ripresa per il resto del suo lavoro: il discorso del maestro e il desiderio dell’insegnante che lo anima rimarranno intrappolati nell’algoritmo del discorso del padrone, costituendo forse il più grande degli interrogativi lasciati aperti dalla sua teoria dei discorsi.

Massimo Recalcati questa scommessa l’aveva raccolta già tempo fa. Se torniamo indietro al 1995 e apriamo il volume numero 18 della rivista La Psicoanalisi, possiamo leggere quello che rimane tutt’oggi uno dei contributi più convincenti in circolazione sulla funzione dei discorsi, che si chiama appunto Per una introduzione alla logica dei discorsi. Nessuna sorpresa che Recalcati, già attento a una simile sfumatura, parli qui di discorso del maître, lasciando il termine nella sua ambigua versione originale francese e definendolo come il discorso «fondativo», il discorso che pone la possibilità stessa dell’esistenza degli altri discorsi.4 E perché mai? Perché nella sua essenza è il discorso che ci ribadisce che nessuno di noi è causa di sé, che il soggetto proviene dall’Altro (dalle sue parole, dai suoi desideri, persino dalle sue colpe) e che questa provenienza non può mai essere cancellata ma soltanto soggettivata, e cioè riconosciuta e assunta come tale. Il discorso del padrone per come lo conosciamo, subdolo e autoritario, è solo una variante particolare del discorso del maître, e più di preciso la sua estremizzazione, la piega che il discorso del maître prende quando il significante che lo sorregge si indurisce in una parola-comando, in una prescrizione che pretende di saturare il reale in ogni sua parte. È il discorso che richiede assoluta dipendenza senza lasciare alcun margine di soggettivazione. Soprattutto, però, questa degenerazione non interessa solo l’Altro, e cioè il destinatario degli effetti di questo discorso: l’asfissia prodotta dal discorso del padrone, prima ancora che quella dell’Altro, mira a occultare la mancanza del padrone stesso. L’enunciazione perentoria del padrone serve a dissimulare la castrazione del padrone, la sua impotenza di fondo. Nella sua forma nucleare, invece, il discorso del maître stabilisce che il soggetto deve riconoscere la propria provenienza dall’Altro ma, punto altrettanto decisivo, a patto che l’Altro sia disposto a lasciare andare il soggetto al momento opportuno.

È da questa prospettiva che, a quasi trent’anni di distanza, Recalcati tornerà a interrogare il discorso del maestro, e lo farà quasi a sorpresa, tra le ultime pagine di un libro in cui non ci aspetteremmo di trovare nulla di simile: mi riferisco all’ultimo capitolo de Il vuoto e il fuoco (Feltrinelli, 2024), un impegnativo saggio sulla clinica delle organizzazioni che si chiude proprio con una sezione dedicata a questo ombroso personaggio del repertorio lacaniano. Separandolo dalla figura del leader e soprattutto da quella del padrone, Recalcati definisce il maestro come «colui che sa definire l’autorevolezza del suo sapere» con «l’inciampo».5 Non un predestinato, né un campione di impassibilità, il maestro sa qualcosa e sa come trasmetterla, ma ciò che sostiene e differenzia il suo discorso da tutti gli altri è la consapevolezza che il sapere da solo non basta, e che ciò che si insegna e si trasmette nell’atto educativo è alla fine dei conti proprio questo, lo sforzo di formare l’allievo al non-sapere di cui parlava allusivamente Lacan. Il compito del maestro è di permettere a chi lo segue di trasformare la propria dipendenza dall’Altro nella singolare occasione di formarsi come soggetto, di fare a meno dell’Altro a condizione di servirsene, per dirla in lacanese. In altre parole, il maestro è una figura del desiderio: è chi fa del proprio sapere, e della sua mancanza fondamentale, la causa del desiderio dell’allievo.

Massimo Recalcati, La luce e l'onda

Questo preambolo è necessario per comprendere come La luce e l’onda. Cosa significa insegnare? (Einaudi, 2025) non sia un semplice saggio a tema, un’applicazione delle conoscenze psicoanalitiche all’ambito dell’educazione, ma il frutto di un lavoro di trentennale riflessione su un dilemma che ha impegnato il suo autore per un’intera carriera: chi è veramente un maestro e cosa è tenuto a fare? Lacan diceva che si dà insegnamento ovunque c’è un soggetto diviso, riferendosi indirettamente alla posizione dell’allievo. Eppure, anche il maestro, per come ce lo descrive Recalcati, è un soggetto diviso. È luce e onda allo stesso tempo: luce, perché maestro è anzitutto chi usa le parole per allargare la visione dell’allievo, per mostrargli l’esistenza di «spazi impensati e invisibili»; onda, perché l’incontro con un maestro pone l’allievo di fronte a «qualcosa che resiste» e alla necessità di trovare un proprio «stile singolare» per venirne a capo.6 Se la luce mira a portare chiarezza, a creare un rapporto di familiarità con il sapere, l’onda segna invece il punto di «impatto» con l’impossibilità che il sapere basti a se stesso, è il reale con cui la cifra di ogni insegnamento costringe a fare i conti, e che se ha successo instrada il soggetto sulla via del proprio desiderio.

Non si dà maestro senza questa duplicità, senza l’irradiamento della luce e la concomitante repulsione esercitata dall’onda. Un maestro che non sa portare luce, che è soltanto onda, non ama il sapere, bensì il potere. È l’insegnante sadico che ha perduto il proprio desiderio e lo ha rimpiazzato con la rigidità educativa, con la somministrazione di una legge implacabile che soffoca qualsiasi possibilità di ispirazione nei suoi allievi. È l’insegnante che gode nel percepire l’inadeguatezza degli studenti, e che Recalcati fotografa con precisione nel ritratto della «maestra milanese che fuma Muratti in classe», un’immagine talmente magnetica da assumere le tinte di una vera e propria scena primaria, più che di un semplice ricordo.7 D’altro canto, un maestro non può essere neanche soltanto luce, non può limitarsi a somministrare le sue nozioni o a illudere che il sapere dispensato basti a sé stesso. C’è bisogno, come sottolineava già Lacan, che il collage dei saperi faccia spazio alla mancanza, che l’impartizione dell’insegnamento prepari lo studente all’incontro con “l’ingovernabile”, con la cifra ultima che resiste all’apprendimento e che può essere assimilata solo se il soggetto ci mette del suo. Il maestro non può sapere con quale onda finirà per misurarsi l’allievo, né in che modo questi eviterà di farsi trascinare dalla corrente. Quel che può fare, però, è prepararlo a un simile momento facendo del suo sapere una forma di testimonianza anziché di assicurazione: può trasmettere all’altro il valore della sua stessa scommessa, infondergli fiducia nel fatto che la formazione non sia un riparo dall’angoscia, bensì un modo virtuoso di farvi fronte, perché «l’onda che più temiamo», spesso, è anche «l’onda che ci salva».8

Questo quadro è, almeno idealmente, irreprensibile. Recalcati stesso ammette che il suo libro è un elogio del maestro, un invito a credere nella sua figura e nella sua funzione. Non fosse che, oggi più che mai, lo spazio per i maestri sembrerebbe essersi drammaticamente snaturato. Da un lato, la crescente sfiducia nei confronti del dispositivo educativo ha trasformato la Scuola in un campo di rivendicazioni e battaglie ideologiche fini a sé stesse. Chi crede nella virtù dell’insegnamento è ostacolato dai lacci della burocrazia, dalle scadenze e dalle pressioni dei vincoli ministeriali. Qualcuno vorrebbe trasformare la Scuola in un’azienda, altri fantasticano di chiuderla o di farne un consultorio dell’infanzia. Il rapporto tra maestro e allievo si è riconfigurato nel braccio di ferro tra insegnanti e genitori, costretti a darsi battaglia per tematiche che con l’ambiente scolastico hanno poco o nulla da condividere, o che vi penetrano in una forma già distorta, che fomenta il conflitto anziché predisporre il dialogo. Dall’altro, il clima culturale che circonda la Scuola sembra aver decretato una volta per tutte la morte del maestro promuovendo il mito dell’auto-formazione. Gli educatori, maestri o insegnanti che siano, sono stati sfiduciati, la loro autorevolezza (che come Recalcati dimostra è altra cosa dall’autorità) è stata delegittimata a vantaggio dell’apprendimento fai-da-te, da un mosaico di microsaperi reperibili ovunque eccetto che all’interno della Scuola.

L’illusione di fondo che accomuna il nostro tempo, in buona sostanza, è che la Scuola sia diventata un ostacolo allo sviluppo dei singoli e del loro potenziale, un ambiente retrogrado, obsoleto, staccato dalla (presunta) ‘vita vera’ del mondo reale. Banchettando su questo clima di insicurezza, la valanga di libri, servizi e fonti di autoaiuto che circolano in rete ha contribuito a plasmare una visione segregativa della formazione, trasmettendo il (micidiale) messaggio che la realizzazione dei propri desideri passi attraverso la conformazione monastica alle regole, come se la sola disciplina ammissibile fosse quella autoindotta. Come se il passaggio attraverso l’Altro, in un simile processo, fosse un elemento di disturbo, o persino un inconveniente sul nostro percorso. Perché scommettere sui maestri, che possono inciampare e sbagliare, quando abbiamo a disposizione le soluzioni a breve termine degli algoritmi o le consulenze superomistiche dei guru? D’altro canto, il cosiddetto mondo della cultura, che della Scuola dovrebbe essere quantomeno un rappresentante indiretto, non è del tutto esente da una simile deriva: ovunque proliferano maestri, sedicenti pedagoghi, divulgatori e altri bravi retori che dispensano insegnamenti su come equilibrare la vita, su cosa valga davvero la pena leggere, su cosa e quanto mangiare, su come e quanto allenarsi. Tutti propongono il loro modello di educazione alternativo, a patto però di non lasciarsi trascinare nel pantano, perché ancora una volta – a quanto sembra – è bene che si parli di Scuola dappertutto, fuorché nella Scuola.

È il triste adagio che Lacan attribuiva ai sistemi politici e ideologici, quando questi prendevano il sopravvento sulla cura della singolarità delle esistenze umane per trasformarsi in discorsi falsamente universali: per il desiderio, ripassate un’altra volta. Come nota Recalcati, l’auto-nominazione del maestro è una trappola analoga all’autoformazione, è il medesimo fenomeno ma scrutato da due prospettive differenti. È la spia di come la necessità fondamentale della nostra epoca consista nell’aggiramento della vita collettiva. Non sorprende allora che laddove tutto il resto sembra funzionare, la Scuola appaia a soqquadro, il residuo di una civiltà arretrata, una sorta di animale incurabile che ci si sforza di tenere in vita al solo scopo di salvare le apparenze, o almeno provarci: da qualche decennio a questa parte, del resto, e di fronte a qualsiasi imprevisto, le porte della Scuola sono le prime a venire chiuse, le lezioni si rimandano, gli insegnanti e gli allievi possono aspettare. Per la Scuola, come dire, ripassate un’altra volta.

Accanto al suo elogio del maestro, la seconda parte de La luce e l’onda su questo è tutt’altro che indulgente. Recalcati rileva alla radice del disagio contemporaneo la presenza di una deriva neo-melanconica che professa «la centralità della sicurezza a discapito della libertà individuale», che sostituisce lo spazio aperto e imprevedibile della comunità con quello chiuso e ripetitivo delle vite autosufficienti.9 Il precetto di base di questa postura è di evitare a ogni costo l’angoscia, anche se questo evitamento comporta la rinuncia al desiderio. Meglio la penitenza dell’isolamento, la «vita murata», introversa, iperprotetta, al sicuro nella propria nicchia, piuttosto che una «in mare aperto», esposta alle turbolenze della collettività.10

La sentenza di Recalcati, almeno a prima vista, può sembrare viziata da un processo che ci è ormai noto: di fronte all’incertezza, ecco che si profila la risorsa lampo della diagnosi; quando non sappiamo cosa dire o cosa fare, ci affidiamo alla stampella delle etichette psicopatologiche, a quei pareri clinici che, da un po’ di tempo a questa parte, si profilano come una soluzione sicura per evitare di discutere concretamente problemi di natura sociopolitica. Il ragionamento di Recalcati (e questo punto è cruciale) si muove invece nella direzione del tutto contraria: il principale problema della deriva neo-melanconica descritto nel suo libro non avvalora la tesi della patologizzazione, ma la previene; non ci dice che la vita è malata, impaurita, debilitata, ma che la vita sta scegliendo di percepirsi come tale; che pur di evitare l’impatto (difficile eppure formativo) con l’onda, essa preferisce rifugiarsi nella soluzione immediata del malessere. E, soprattutto, che la crisi del dispositivo scolastico non è un effetto di questo progressivo isolamento della vita, quanto la sua causa. È da quando abbiamo smesso di credere nella Scuola, da quando abbiamo accettato il fatto che la Scuola possa essere aperta o chiusa come un rubinetto, che la dissoluzione dei legami è diventata una strategia ammissibile, la nostra nuova normalità.

La Scuola è oggi certamente il nostro sintomo, un’anomalia che cattura la nostra attenzione per dirci che qualcosa non sta funzionando. Ma se la psicoanalisi ci ha insegnato qualcosa in poco più di un secolo, è che i sintomi non vanno neutralizzati, bensì ascoltati: tradotto, non si tratta di lasciar morire la Scuola o di rimpiazzarla con un nuovo sistema presuntamente più efficiente. Si tratta di restituirle la dignità della parola, e di farlo con lo stesso atteggiamento che Lacan definiva la buonafede nell’Altro:11 non parlare al posto della Scuola ma lasciar parlare la Scuola; non sorvegliare sadicamente chi ne fa parte e non inondarla di professionisti di non meglio precisata utilità, ma predisporre le condizioni affinché la Scuola possa esercitare la funzione a cui è predisposta.

È grossomodo quel che prefigura Recalcati quando ci invita a ripensare la Scuola come un «luogo di incontro» in grado di restituire importanza al «trauma benefico della vita collettiva». La Scuola deve rimanere la strada maestra di qualsiasi ideale di comunità, non per omogeneizzare chi vi si riunisce, né per insabbiare l’operato di insegnanti crudeli o incapaci, ma per restituire un significato al processo della formazione in quanto tale: quello in cui, come dice bene Recalcati, il soggetto è chiamato «a passare dall’Altro anche se per farne successivamente a meno».12

Note:
1) J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi (1955-1956), Einaudi, Torino 2010, p. 330.
2) J. Lacan, Varianti della cura-tipo, in Scritti, Einaudi, Torino 2002, p. 353.
3) J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino 2007, p. 186.
4) M. Recalcati, Per una introduzione alla logica dei discorsi, in La Psicoanalisi, n. 18, Astrolabio, Roma 1995, p. 36.
5) M. Recalcati, Il vuoto e il fuoco. Per una clinica psicoanalitica delle organizzazioni, Feltrinelli, Milano 2024, p. 159.
6) M. Recalcati, La luce e l’onda. Cosa significa insegnare?, Einaudi, Torino 2025, p. 5.
7) Ivi, pp. 95-96.
8) Ivi, p. 62.
9) Ivi, p. 138.
10) Ivi, pp. 138-139.
11) J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003, p. 183.
12) M. Recalcati, La luce e l’onda, cit., p. 30.


Immagine di copertina:
un particolare da Nikolaos Gyzis, La scuola clandestina, 1885-1886, collezione privata

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