[Questo articolo è stato scritto in origine per la newsletter Mis(S)conosciute di Giulia Morelli, Maria Lucia Schito e Silvia Scognamiglio e viene ripubblicato oggi in occasione dello spettacolo Sogno creatore, un progetto di Bluemotion tratto dai testi di Maria Zambrano, Maria Luisa Spaziani, Niki Rebecca Papagheorghìou. Ideazione, regia, drammaturgia e scene di Giorgina Pi, tornato in scena all’Angelo Mai dal 5 al 7 giugno].
Non ho scoperto Niki-Rebecca Papagheorghìou da sola: anni fa, il collega Andrea Franzoni lesse la sua raccolta di prose poetiche dal sapore surreale, popolate da insetti, animali e piante, nella traduzione francese di Evanghelia Stead e, folgorato, mi chiese di trovare quel libro e leggerlo in greco, io che potevo.
La traiettoria di Il grande formichiere e altre, piccole, favole in poesia, pubblicato da Argolibri nel 2021, è anche la mia: a Marsiglia conosco Andrea, che lì scopre il libro; ad Atene acquisto l’originale e vado sulle tracce dell’autrice; a Roma, invece, prende forma l’edizione italiana, tradotta da me e arricchita dalle illustrazioni di Giuditta Chiaraluce, da un’introduzione di Evanghelia Stead, da una postfazione di Francesca Sensini e da un ritratto dell’autrice scritto dal suo editore greco, Stavros Petsòpoulos. Sempre ad Atene, infine, incontro di persona la regista teatrale e drammaturga Giorgina Pi, le regalo il libro e lei porta in scena le prose di Niki-Rebecca nello spettacolo Sogno creatore. Oggi quella traiettoria continua: l’edizione italiana, letta oltreoceano, ha generato l’idea di un’edizione inglese, che dovrebbe vedere la luce per Garganta Press di Luca Dipierro, con sede a Portland, negli Stati Uniti.
Nel rovente giugno ateniese del 2018 – quando «l’estate si chiude sopra la città come la porta di una botola», direbbe la scrittrice Angela Dimitrakaki 1 – perfezionavo il mio greco, sudando ogni mattina a piedi fino all’università, in cima alla collina di Zografou. Per sfuggire al sole accecante, di pomeriggio andavo a sedermi su una panchina all’ombra, nel parco Skopeftìrio, quartiere di Kessarianì, accanto ai vecchietti e alle bandiere rosse del memoriale per i resistenti giustiziati dai nazisti nel 1944. Lì tentavo di sondare i misteri di quel piccolo libro strano. Sole e ombra sono importanti, perché tutta la scrittura di Papagheorghìou si nutre della dialettica luce/buio.
Notte, tu che passi le tue stelline al setaccio più fitto, e tieni solo le sottili, le luminose, le fine, insegna anche a me come fabbricare, con l’oro e con il nero, un minuscolo chiarore astrale» (p. 70).
Il mio invito a leggerla, oggi, è un invito a riscoprire con lei le infinite possibilità aperte da una consapevolezza profonda della lingua che ci mettiamo in bocca; e di come si possa trasformare in un amuleto radioso, per resistere alle ingiustizie che rabbuiano il nostro animo e il mondo.
Le cose che gli altri buttavano, incautamente, una ad una le raccoglievo io nel mio cuore. In un giorno luminoso, in una notte buia, forse fabbricherò, pensavo, con quelle, qualcosa come un talismano» (p. 47).
Nata ad Atene nel 1948 e lì morta suicida nel 2000, ebbe una vita non facile, accompagnata dalla sofferenza psichica. Se questa può sembrare un triste destino inscritto nella sua genealogia – suo nonno conosceva la principessa Maria Bonaparte, tra le prime psicanaliste in Europa, che in una vecchia foto di famiglia tiene le mani sulle spalle di una piccola Niki-Rebecca – i maltrattamenti del padre, che la picchiava, e le difficili relazioni familiari non saranno stati estranei alle sue difficoltà.
Nonostante questo, nel documentario – mai ultimato – della regista tedesca Monica K. Zanolin, lei appare allegra e piena di vita mentre canta, ride e suona il piano nel suo appartamento ingombro di ninnoli che amava radunare. Nel corso degli anni Settanta, ancora giovane, per mantenersi teneva anche un piccolo negozio nel mitico quartiere di Exarchia, dove fabbricava e vendeva oggetti e gioielli fantasiosi, in pelle e in tessuto.
L’unica edizione delle sue opere riunisce due raccolte di piccole prose, o microracconti: Calvario, del 1986 (letteralmente La Passione del lino, un’espressione che in greco ha origine nella lavorazione lunga e laboriosa richiesta da questa pianta, per essere trasformata in fibra tessile: «ho vissuto la Passione del lino» somiglia all’espressione italiana «è stato un Calvario»); e Il grande formichiere, del 1993. La sua unica altra opera è un originalissimo “fotoromanzo” dal titolo Le due sorelle, un collage composto da vecchie foto di famiglia e cartoline: la storia di una sorella che invidia l’altra, perché è più bella e ha più pretendenti, ma finisce poi per sbeffeggiare tutti i suoi, scongiurando l’orribile vita matrimoniale.
Misteriosa, poco conosciuta, per niente studiata, negli ultimi anni questa scrittrice sta vivendo in Grecia una progressiva riscoperta da parte di giovani poete e poeti della scena contemporanea. Su di lei, il materiale critico è del tutto assente e le recensioni scarseggiano. L’autrice di una di queste, Lisi Tsirimokou, per presentarla 3 esordisce con una nota citazione di Virginia Woolf: «Volevo scrivere della morte, ma la vita ha fatto irruzione come al solito» e prosegue dicendo che, nella sua opera, sembra risuonare una domanda, pronunciata con voce infantile, come un brusio di sottofondo: «Giochiamo alla morte?». In effetti, Papagheorghìou indaga la questione della morte in tutti i modi, ma ciò che colpisce, è come riesca a farlo con gli strumenti di una vita pulsante. L’atmosfera dei suoi scritti è dominata dall’aggettivo σκοτεινός, / skotinós/ (“buio”, “scuro”, “cupo”) – oltre che da boschi e foreste – ma le immagini che crea spiccano nitide, illuminate da una lingua ironica e giocosa. Come dice ancora Tsirimokou: «Ha arroventato la sua lingua, provocando in essa un corto circuito, per illuminare il suo labirinto interiore».
Se non è il buio ad avere il sopravvento, è perché l’autrice accende la sua lingua anche disseminandola di piccoli animali totem, necessari a tenere viva la sua luce interiore. L’uccello raro della prosa omonima; l’insetto che si accende nel cestino in Egina; le lucciole intrappolate da uomini crudeli, nelle loro proprietà private, in Insetti; «l’uccello raggiante che mi abita» in Torri: sono figure provvidenziali, sono abitanti del mondo della natura, che rappresenta un orizzonte salvifico, una possibilità di sfuggire al mondo umano, fatto di sopraffazioni e tormenti. Il suo universo fantastico si svuota pian piano di esseri umani, per riempirsi di animali e fiori.
Solitudine, gelosia, disuguaglianze, possesso, convenzioni sociali opprimenti: sono le istanze che abitano in filigrana la sua scrittura, in apparenza surreale e inusitata. La seconda raccolta, in particolare, mette in scena l’oppressione del maschile sul femminile, con una serie di fiabe presentate come giochi, in cui uomo e donna vengono trasfigurati in oggetti, animali, piante. Il femminile è vissuto come una condanna:
Alla tua carne floreale penso in lacrime, alla carne dell’allodola e alla polpa della pesca, a ogni carne che mantiene il suo destino come un segreto, dentro al succo o dentro al sangue» (p. 115).
o come una disgrazia, dove matrimonio e maternità sono amare incombenze, quasi fonte di ogni male. Il femminile non è inteso in senso biologico, ma nel senso del ruolo sociale riservato alle donne. Anche i rimandi alle fiabe e ai miti vengono usati per giocare con i pattern del racconto tradizionale, dimostrando come questo riproduca ruoli sociali che imbrigliano le donne; e la tradizione classica viene citata per irriderla, perché vista come un universo dove predomina il maschile. Così, in tutti i “giochi” tra uomo e donna, la rigida opposizione binaria appare come una realtà senza via d’uscita, mentre l’unica emancipazione possibile è il suo superamento, la sua sublimazione nel regno animale e vegetale, verso il quale l’io poetico prova un’istintiva e arcana solidarietà.
A ciò che in lacrime chiedono le fragole, risponderanno un giorno ridendo i melograni. Enigmi invernali su noci, su castagne, risolverà una primavera come niente, con i fiori. Parlerà un giorno novembre con marzo, risponderà dicembre a maggio. Ma io non sarò lì ad ascoltare. Sarò andata con le fragole di una primavera trascorsa, con le noci misteriose, le insondabili castagne» (p. 65).
L’altra possibilità di salvezza che traspare in queste prose risiede nella lingua. Le parole stesse, e il loro uso, sono salvifiche; e gli unici “giochi” in cui la donna risulta vincente, sono quelli in cui si fa parola. La donna così non appare come un’essenza, ma come un essere consapevole delle sue armi, che si costruisce per mezzo del discorso.
Tra le armi dell’autrice, c’è di sicuro l’uso spiazzante della lingua – che reinventa la tradizione surrealista, alimentandola però con il suo vissuto di donna – prodotto dal ritmo da filastrocca; dal gioco con i registri, che passano dal lirico al colloquiale, a volte quasi al burocratico, o usano il tono elegiaco applicandolo a oggetti di uso comune; dalla capacità di torcere espressioni cristallizzate risignificandole, con minuscole variazioni, che ne riattivano il senso letterale e le aprono a un’infinita polisemia possibile.
Così, il componimento finale si apre con la famigerata allocuzione ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, che forse, a chi ha fatto il classico, ricorderà innumerevoli versioni: a quei tempi ci veniva detto che quell’ἄνδρες non andava tradotto, bastava lasciare “O Ateniesi”. In questo caso, invece, l’autrice si rivolge a un consesso sociale composto, ci tiene a evidenziarlo, solo da maschi – come d’altronde l’antica democrazia ateniese – per una chiusa lapidaria che suona come un atto d’accusa:
«Allocuzione
O uomini Ateniesi, Corinzi, Psichiatri e altri!
Mi avete menomata» (p. 123).
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1) Angela Dimitrakaki, Quattro testimonianze sul dissotterramento del fiume Erriniòs, traduzione di Elisabetta Garieri, Roma, Voland (in corso di pubblicazione: 2026).
2) Tutte le citazioni sono tratte dall’edizione italiana: Niki-Rebecca Papagheorghìou, Il grande formichiere e altre, piccole, favole in poesia, Ancona, Argolibri, 2021.
3) Intervento di Lisi Tsirimokou nel corso di un evento al Salone Internazionale del libro di Salonicco 2020, dal titolo «Stelle cadenti ad agosto e a settembre noia».
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Immagine di copertina:
Le tre dame in blu, affresco dal Palazzo di Cnosso a Creta (1.600-1.450 a.C.), Museo archeologico di Heraklion