Lars von Trier, Antichrist
Industria e Letteratura è una piccola casa editrice fondata nel 2020, dedita alla pubblicazione di raccolte poetiche e testi di prosa di profilo e ambizione letterari. Nonostante lo statuto puramente indipendente, il progetto, diretto da Gabriel del Sarto, è riuscito a costruire una proposta di notevole spessore, alla quale hanno aderito anche diversi nomi di calibro del panorama letterario italiano contemporaneo. Di recente, a collane d’eccellenza quali Poetica e l’Invisibile, si è andata ad aggiungere anche la neonata I Frattali, diretta da Massimo Salvati: un’esperienza che si muove al confine tra lirica e prosa, dedicata alle opere di autori e autrici esordienti. A inaugurare questo nuovo percorso troviamo Logica degli incendi, novella di Vincenzo Montisano, autore calabrese di prossima uscita anche con Wojtek.
Logica degli incendi ha catturato la mia attenzione in virtù dei presupposti che mette in gioco: una riflessione sui rapporti umani, sulla salute mentale e sul senso stesso dell’esistenza. L’idea di una tensione fondamentale tra ragione e sragione, esplorata senza moralismi o intenti pedagogici. Si tratta, a conti fatti, di un testo fortemente anomalo per il nostro paese, giacché prende le mosse da un archetipo molto comune, quello delle dinamiche della coppia etero borghese, solo per travasarlo in un arcipelago a metà strada tra l’onirico, il realismo magico e l’orrore cosmico. Ciò sarebbe già di per sé sufficiente a configurare questa novella come oggetto di interesse “ibrido”, a metà strada tra la fiction letteraria e la letteratura di genere di respiro più speculativo.
Per farla breve, la relazione tra i due protagonisti, Teo e Gio, è il fulcro dell’intera faccenda. Teo, impiegato comunale e astronomo dilettante, è un inguaribile razionalista, devoto ai concetti di misura, utilità e funzione; non vi è spazio per il caos e l’irrazionale nella sua vita, se non nelle stranezze di Gio e nell’imperscrutabile enigma posto dal cielo stellato. Il fatto stesso che l’ignoto sia fuori di lui, in un al di là irraggiungibile, non fa che riaffermare la religiosa ordinarietà di Teo. Gio, invece, è affetta da disturbo bipolare, è sessualmente attratta dal colore bianco e ha smesso da parecchio tempo di prendere le sue pillole anticoncezionali. Una miscela esplosiva, che condurrà i due protagonisti sull’isola privata di proprietà della famiglia di Gio, nel tentativo di ricostruire una seppur minima dimensione intima. Ma l’isola non è quel che sembra. Obbedendo a un misterioso richiamo inorganico, l’atollo reclama ciclicamente la vita di chi vi si sofferma, in cambio della propria rigenerazione. La vicenda diviene l’allegoria, credo, di un mondo idiota, spietato e indifferente, che si riproduce proprio attraverso la collisione di ragione e sragione, alla soglia tra morte e nascita.
Come evidenzia l’autore in una lunga intervista per la rivista L’Appeso, il testo subisce una chiara influenza da parte del cinema di Lars von Trier (in particolare Antichrist del 2009), dal quale mutua non solo l’estetica cruda e l’immaginario simil-soprannaturale, ma anche parte dell’impianto narrativo. Una coppia normale che si ritrova bloccata in una situazione dai contorni soprannaturali, nella quale il polo femminile-naturale si costituisce come abisso mostruoso, primordiale, divoratore. Ho apprezzato anche la scelta di disporre, al contempo, di archetipi dell’inconscio collettivo, figure retoriche e fantasmi personali, senza troppo spirito di distinzione e di modo che i già labili confini tra tali strumenti ne risultino ulteriormente erosi.
Di von Trier, però, Montisano mutua anche la problematicità della figura femminile, i suoi lati più incomprensibili e terrificanti. Ciò conduce a una sorta di romanticizzazione, seppur di senso negativo, della donna, tipica della letteratura europea moderna e contemporanea. In ciò mi sembra di cogliere, magari solo di sfuggita, il marchio del primissimo Houellebecq, così come quello di Pavese. Mi pare, in fondo, che lo sguardo di Montisano sia lo stesso del suo personaggio Teo: la posizione di un soggetto che pone il femminile e il naturale in quanto Fuori, benché con il dubbio lacerante che questa stessa esternalità virulenta sia, in realtà, già penetrata da tempo all’interno del sistema immunitario. C’è tutta una dimensione di riferimenti batailleani, a partire dall’insidioso rapporto erotico e mistico con il bianco, simbolo per eccellenza della purezza, fino ad arrivare alla messa in scena del fuoco come sacro consumatore. Teo non è che un’offerta sacrificale, tanto letterale quanto simbolica, all’altare di un Dio che l’uomo non ha i mezzi per comprendere e manipolare. Esemplari, in tal senso, i vari passaggi nei quali Gio domina e controlla Teo attraverso la sua stessa fragilità e la sua intrinseca vulnerabilità.
«Alla distanza crescente che la stava separando da Teo, lei non poté che sognare il mondo verso cui la barca muoveva. Quel mondo tanto caro a Teo. In cui lei lo legava per il collo con un guinzaglio e lo portava a spasso come un cane per il loro appartamento romano. Nello svilimento, nella degradazione totale delle manie di controllo di Teo» (p. 68).
Si tratta, a mio parere, di un immaginario pericoloso, sia dal punto di vista poetico, sia da quello politico; ciò che manca in genere e che qui è presente, però, è un grado superiore di consapevolezza rispetto a tale aspetto. La quotidianità di Gio e Teo, di fatto, può ricomporsi solo quando Teo si lascia invadere dal caos, abbandonandosi a una sorta di “ricomposizione alchemica” dell’umano. Per la maggior parte del tempo, tuttavia, Montisano sembra essere caduto preda di questi demoni sottocutanei, anziché averli dominati, riplasmati e canalizzati all’interno dell’opera.
Lo stesso si può dire della struttura narrativa, così auto-riflessiva da aver finito per auto-inglobarsi, al punto da divenire pressoché imperscrutabile. L’apparato simbolico implode all’interno dell’intreccio, nebbioso e sfilacciato come un sogno. Effetto che costituisce l’obiettivo dichiarato dell’autore stesso (si rimanda alla già menzionata intervista), ma che rischia di far perdere in più punti il polso della trama. Non è un caso che tutte le recensioni ne facciano scarsa menzione. Il ruolo del fattore e della sua macchina meravigliosa, che avrebbe forse potuto essere sviluppato in modo più interessante, si riduce a firma dell’autore, senza mai entrare davvero in contatto con il lettore. Si tratta, purtroppo, di una congiuntura sfortunata, dal momento che l’appropriazione letteraria degli stilemi e dei temi portanti dell’horror deve, a ogni passo, confrontarsi con un alto grado di astrazione simbolica e concettuale e con impianti narrativi forti. Si può, insomma, fare letteratura astratta, concedendo anche al lettore qualche (seppur vago) appiglio narrativo. E si può anche andare oltre la sfera del sogno, pur restando nei pressi dell’inconscio. C’è da dire anche che il formato stesso della novella, com’è risaputo, costringe a tutta una serie di limiti – qui ampiamente tastati da Montisano.
Da ciò consegue che il controllo esercitato dall’autore si sia riversato, pressoché tutto, sul versante stilistico, dando forma a una lingua molto tesa e molto sofisticata.
«Gio avvertiva un’enorme menzogna gravare sull’isola. Lei si era addentrata nei cupi recessi delle rocce; aveva visto i punteruoli rossi svuotare le palme; aveva familiarizzato, toccandolo, con lo sterco di cinghiale selvatico che prima era ghianda, leguminosa ed erba, ma anche ratto, insetto e uova di serpi» (p. 11).
A tratti, si può quasi riuscire a immaginarsela sull’attenti, in attesa dell’ispezione.
«Al supermercato, di fronte al banco frigo: sugli scaffali gli yogurt erano bene in ordine, le mozzarelle, i formaggi, il latto intero, scremato, parzialmente scremato. L’apparato industriale: la soddisfazione capillare di bisogni secondari, aveva notato Gio appena prima di aprir bocca […]» (p. 23).
Cito appositamente due passaggi riguardanti contesti quotidiani, familiari, in genere non carichi di pathos.
Sebbene i periodi risultino in genere più liberi e rilassati, non si sfugge comunque a un ritmo piuttosto serrato, che fa da sfondo a un tono continuo e privo di oscillazioni come un drone. L’effetto complessivo è appropriato ma un po’ monocorde; ciò che più conta, però, è che l’impostazione formale del testo appare sempre sul punto di cedere a una lingua inautentica, “sofisticata” nel senso di una mera contraffazione. La questione, a mio parere, può essere interamente riassunta in un aneddoto. A un certo punto, mentre leggevo, mi sono ritrovato di fronte a un espediente piuttosto ingegnoso: un doppio uso dei due punti nello stesso periodo. Mi sono interrogato se si trattasse o meno di un refuso, per poi ritrovare lo stesso espediente poche righe sotto, confermandone così il carattere intenzionale e il gusto modernista. Di colpo, ho realizzato che la scrittura di Montisano ti fa interrogare sul fatto che qualcosa in un loro libro sia o meno un refuso. Un aspetto di cui sta al singolo lettore giudicare la valenza estetica.
In conclusione, Logica degli incendi è un’opera d’esordio che rimette in discussione il rapporto della letteratura “alta” con la sua ombra – la letteratura di genere – nonché con un certo tipo di cinema. Lo fa con eleganza e malsano spirito di perversione (sempre ben accetto), benché in modo un po’ confuso e impostato. Si potrebbe, da questo punto di vista, considerare l’esordio di Montisano come un tentativo di reimparare a camminare con altri strumenti – con le braccia, anziché coi piedi – bypassando i luoghi comuni sia della letteratura sia della narrativa di consumo contemporanee. Un’evoluzione alternativa che potrebbe essere messa a confronto e accorpata con quelle evocate da tutta una serie di altr* autor* esordienti, che si spera possano presto veder riconosciuto il loro lavoro.
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Immagine di copertina:
Egon Schiele, Tod und Mädchen (particolare), 1915, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna