Chi è Luciano Bianciardi? Per molti, oggi, questo nome probabilmente è oscuro, soprattutto fra i ragazzi dei banchi di scuola costretti spesso a sorbirsi programmazioni scolastiche datate o incapaci di arrivare oltre la Seconda Guerra Mondiale. A rimediare al triste oblio ha pensato Pierluigi Barberio, docente e scrittore, con il suo Vita da Bianciardi. Scrittore e uomo libero (Momo Edizioni, 2024). Scritto con tanto amore e dedizione, il saggio ruota intorno alla figura di uno dei più grandi scrittori italiani del dopoguerra. Per quale ragione, tuttavia, l’autore si è voluto impegnare a ricordare il ribelle di Grosseto, classe 1922?

La risposta la dà il sottotitolo: “scrittore e uomo libero”. Il proposito di Barberio, evidente dalle prime pagine, è sottolineare la necessità, purtroppo ancora attuale, non solo di rispolverare una biografia degna della massima attenzione, ma di indicare i valori per cui quella vita si è letteralmente sacrificata. Essere liberi e onesti vuol dire stare dalla parte degli ultimi, non cedere ai compromessi, considerare civile una società solamente quando ha riscattato l’ultimo dei suoi figli disperati, una società che non si dovrebbe accontentare di vedere la ricchezza solo nelle mani di pochi, e magari immeritevoli. Ogni storia personale dovrebbe ispirarsi a tali valori, e quella di Bianciardi fu esemplare.

Vita da Bianciardi

Conseguenza ovvia, è una biografia esaltante ma anche segnata da profonde delusioni, quella raccontata. L’autore la ripercorre con piglio e freschezza, grazie a una prosa lineare e gradevolissima, adatta sia al pubblico degli studenti sia agli adulti smemorati, mostrandoci chi è stato Bianciardi attraverso le sue stesse parole:

«La scuola italiana non funziona nella misura in cui non funziona la nostra società. Per i miei figli vorrei una scuola dove fosse, innanzi tutto, abolito il voto. Una scuola dove ogni giorno tutti interrogassero tutti, compreso l’insegnante, anzi lui per primo. Una scuola di collaborazione. […] Per parte mia, cerco di imparare persino dallo spazzino che incontro al venerdì sotto casa» (p. 9).

Il riferimento alla scuola rimanda alla memoria un’altra celebre dichiarazione, quella di un anarchico d’oltreoceano, Nicola Sacco. Così si rivolgeva al figlio:

«Non dimenticarti giammai, Dante, ogni qualvolta nella vita sarai felice, di non essere egoista: dividi sempre le tue gioie con quelli più infelici, più poveri e più deboli di te e non essere mai sordo verso coloro che domandano soccorso».1

Come si può notare dopo il tragico conflitto bellico il grande balzo del progresso, compiuto in maniera spesso convulsa e disordinata, ha lasciato indietro molti lavoratori, spesso annientandoli. Barberio ci ricorda un fatto decisivo della vita di Bianciardi, ovvero l’esplosione della miniera di Ribolla del 4 maggio del 1954: morirono quarantatré persone. La strage, sconvolgente, segnerà per sempre la vita dello scrittore, tanto da fargliela stravolgere, abbandonando gli affetti toscani per andare a Milano e portare avanti la propria personale battaglia in favore degli oppressi.

Proprio nella culla dell’industria italiana scriverà il suo capolavoro, La vita Agra, a cui ne seguiranno altri, accompagnati sempre dalla stessa sensazione di rabbia, ironia e frustrazione. Bianciardi denuncia il mondo del malaffare e dello sfruttamento diffuso dietro le luci scintillanti dei palazzi del centro, delle loro vetrine colorate, ma il successo di pubblico che ottiene lo sconvolge: come si può accettare di ricevere gli applausi da chi critichi? Si può vivere in una contraddizione simile? La sua rettitudine morale gli impedisce di scrivere per Il Corriere della sera, perché organo della borghesia tanto disprezzata. Solitudine, dunque, confortata dalla compagna Maria e dall’ultimo arrivato Marcello, protetta da pochissimi amici, ma infine tollerata da grosse dosi di alcool. Troppe. La vita di Bianciardi è una continua lotta contro il tempo, per poter denunciare e combattere, finché le forze lo sostengono, ed è una lotta anche dai tratti sarcastici, tipici di quella toscanità a cui apparteneva.

Dopo un viaggio in Israele, torna con una benda sull’occhio, in polemica con Moshe Dayan e per criticare la Guerra dei sei giorni, del 1967 (La copertina del bravissimo Marco Petrella lo ritrae così). Bianciardi ama la storia, scrive di Garibaldi, delle cinque giornate di Milano, quasi per trovare in una Italia sporca e corrotta un luogo incontaminato da cui ripartire per fare quella rivoluzione a cui tanto tiene. «Luciano Bianciardi è come la fiamma di una candela giunta alla fine, quasi del tutto sciolta che si dibatte a fatica e incerta tra un cumulo di cera, che tenta di soffocarla, ma prova a resistere» (p. 65).

Questa fiamma si spegnerà a quarantott’anni. Presto, troppo presto. La sua battaglia resterà esemplare, così come i suoi scritti. Vanessa Roghi nella Postfazione sottolinea che «ha raccontato il mondo che cambiava intorno a lui ma ne è stato anche travolto», ma resta comunque un autore fondamentale da studiare e riscoprire, perché «se i limiti del mondo sono i limiti della lingua, Bianciardi ha un orizzonte vastissimo, che da Ribolla arriva fino alle città americane e alla loro infinita periferia» (p. 79).

Ha ragione Barberio: Bianciardi fu veramente uno scrittore e uomo libero, dalla profonda rettitudine morale, probabilmente con i dubbi e le lacerazioni di chiunque sogna di cambiare il mondo e può trovarsi a commettere errori, ma di certo mai dalla parte di chi uccide e sfrutta – e al giorno d’oggi, come allora, bisogna ancora lottare per un mondo più equo.

Note:
1) Lettera del 18 agosto 1927.

———

Immagine di copertina:
Luciano Bianciardi (agenzia: Farabola) da Fondazione Grosseto Cultura