Inflazione diagnostica

L’inflazione del lessico della psicologia sta aiutando le persone a lenire la propria sofferenza? La costante esibizione delle proprie vulnerabilità ha un effetto concreto sulla qualità della vita di chi le espone sui social media e ne parla nei più diversi ambiti? Si tratta di questioni centrali nella società del nostro tempo, poste in un recente libro di Gioele Cima dal titolo L’epoca della vulnerabilità. Come la psicologia ha invaso le nostre vite (Piano B, 2024). Attraverso una rassegna dei momenti fondamentali nella genesi della cultura terapeutica contemporanea, e un’analisi dei termini più in voga con i quali si descrivono, patologizzandoli, stati d’animo molto diffusi fra le persone, il saggio argomenta la tesi convincente che «la straordinaria penetrazione del linguaggio terapeutico nella cultura di massa» ha diffuso «l’idea che l’individuo sia un animale solo, fragile, perennemente esposto al rischio del disturbo mentale» (p. 26).

Il 1980 è l’anno zero della cultura terapeutica, con la pubblicazione del DSM-III a inizio decennio, che inaugurò l’era della medicalizzazione sociale: l’«incapacità di lavorare o di mantenere un’occupazione nel tempo è per il DSM la prova evidente della presenza di un disturbo mentale» (p. 79).

L’«epoca della vulnerabilità» è caratterizzata da un abuso di termini come depressione, ansia, stress, trauma, dipendenze. L’accento sulla necessità per l’individuo da un lato di sviluppare e coltivare la resilienza, dall’altro lato di identificare e curare le cause endogene della propria incapacità di reggere le richieste di una società iper-performativa svolge la funzione (fondamentale per questo sistema economico) di «smorzare conflitti, anestetizzare le tensioni sociali, arginare il dissenso» (pp. 20-21). Concetto di esclusiva proprietà della psicologia, “trauma” è forse quello che meglio rappresenta la tendenza contemporanea a parlare di esperienze spiacevoli, per quanto comuni, le cui conseguenze mettono il soggetto nella posizione di descrivere sé stesso come persona vulnerabile. Cima definisce «industria del trauma» (p. 119) una cultura capillare che sprona le persone a reinterpretare in chiave psicopatologica eventi piuttosto ordinari del proprio vissuto, per quanto gravi.

Gioele Cima, L'epoca della vulnerabilità

Nel saggio si trova un’accurata disamina del discredito gettato sulla psicoanalisi in favore della psicologia. Ad esempio, a opera della psicologia umanista negli anni ’70, trattata nel capitolo Il culto dell’autentico, per cui «non ci sono effettivi pericoli o conflitti al di fuor di noi, tutto dipende da una cattiva gestione delle potenzialità individuali, dalla percezione erronea di chi siamo» (p. 75) e la cui «influenza è stata fondamentale per aprire il largo alla cultura terapeutica» (p. 78). L’idea che il successo personale non sia legato alle condizioni di partenza o ambientali – quindi a una serie di coordinate principalmente politiche ed economiche, che influenzano la risposta dell’individuo agli stimoli esterni – diverrà «il principale dogma della cultura terapeutica a venire: la realtà non va cambiata, ciò che deve cambiare è unicamente l’atteggiamento dell’individuo nei suoi confronti» (p. 75).

Salute mentale e azienda

Un ottimo esempio fornito nel testo riguarda la cultura aziendale, tesa a eliminare ogni tentazione dei lavoratori di aderire alle lotte sindacali spostando l’attenzione dallo sfruttamento dei dipendenti alla resilienza dell’individuo, e offrendo sostegno psicologico nell’ottica di deresponsabilizzare l’impresa rispetto alle proprie prassi neoliberiste:

«La strategia adottata da Amazon per arginare i tentativi dei dipendenti di ottenere una rappresentanza sindacale è esemplare. Nell’aprile del 2022, il CEO del gigante dell’e-commerce Andy Jassy dichiarò che una simile manovra avrebbe avuto un impatto negativo sul rapporto dei dipendenti con i propri manager, sottolineando che i tempi burocratici del sindacato potevano venire facilmente smaltiti incontrando i singoli lavoratori “in una stanza” e discutendo in privato i cambiamenti opportuni da adottare. Per arginare il malcontento in alcuni dei suoi stabilimenti, Amazon avrebbe anche ingaggiato dei consulenti antisindacali pagati a peso d’oro (si parla di cifre che arrivano fino a 20.000 dollari a settimana). L’obiettivo? Scindere la protesta di massa in focus group o consulenze psicologiche. L’enfasi sul benessere mentale del singolo lavoratore permette in uno stesso tempo di medicalizzare, individualizzare e depoliticizzare gli effetti negativi dello sfruttamento occupazionale ricalibrando le ingiustizie sociali in forma di compassione psicologica» (pp. 29-30).

Ma non è solo l’ambiente aziendale a trarre vantaggio dalla medicalizzazione generalizzata di individui che non sostengono i ritmi della produttività neoliberista. Una società malata, che non guarisce mai perché le diagnosi sono infinite, fornisce il fianco agli interessi dell’industria farmaceutica e a tutta la filiera della “cura”: l’incremento impressionante del numero di persone ritenute malate sulla scorta del DSM non fa che porre l’accento sulla vulnerabilità dell’individuo, spostandolo dalle responsabilità dei governi verso la precarizzazione del lavoro, la sottrazione delle tutele minime a un sempre crescente numero di categorie di lavoratori, i tagli alla sanità e la graduale privatizzazione dei settori pubblici. Il deterioramento del senso di comunità un tempo generato dall’appartenenza a gruppi sociali sindacalizzati e politicizzati, e lo spostamento dell’attenzione dalle lotte sociali e civili sulla salute mentale non fa che consegnare al privato ciò che dovrebbe essere invece oggetto di discorso pubblico, ovvero lo sfruttamento sui luoghi di lavori, le richieste sempre più pressanti di una società che impone a tutti i livelli (educativo, lavorativo, estetico, per citare solo i principali) standard insostenibili.

I disturbi mentali nei bambini

Arriviamo dunque a uno dei punti più interessanti di questo saggio. Il DSM-IV, sostiene Cima,

«segna l’inizio dell’inflazione diagnostica infantile introducendo una serie di patologie – dall’autismo al disturbo da deficit di attenzione, dall’asperger all’iperattività – che lo stesso Allen Frances non ha esitato a battezzare come “false epidemie”. All’inizio degli anni Duemila, il numero di bambini etichettati con una diagnosi di disturbo mentale ha subito una drastica impennata, fino a raddoppiare in soli dieci anni. Attorno all’inflazione diagnostica medica, come se non bastasse, c’è stata una straordinaria proliferazione sociale delle etichette psicopatologiche pronte a interferire anche nelle vite di chi è sano» (p. 147).

La centralità della questione nel dibattito pubblico è testimoniata da un costante interesse dei mass media verso le inevitabili conseguenze dell’inflazione diagnostica infantile in ambito scolastico. Ma si tiene poco conto della deresponsabilizzazione delle istituzioni scolastiche rispetto al sovraffollamento delle aule. In presenza di venticinque, trenta alunni i docenti curricolari non riescono ad applicare una didattica che raggiunga tutti; ottenere una o più certificazioni garantisce al consiglio di classe la presenza di un docente di sostegno a cui si possono “affidare” anche alunni che manifestano disagi di altra natura, che non rientrano nel novero delle disabilità certificate ai sensi della L. 104/92, ma che si configurano come bisogni educativi speciali. In questo modo, lo Stato risulta sollevato dalla sua colpa più grave nei confronti dell’istruzione pubblica, che è quella di non avere mai risolto, e di non aver alcun intenzione di risolvere in modo definitivo l’annoso problema delle infrastrutture scolastiche. Inoltre, «il bambino fragile è la nuova merce terapeutica di un’economia capitalista che ha capito quanto possa essere remunerativo proliferare sui finti problemi dell’infanzia» (p. 151). Purtroppo, l’interrogativo su cosa sia davvero la normalità è ancora aperto in quanto

«a oggi non siamo ancora muniti di una definizione soddisfacente della normalità. Si obietterà che, ovviamente, “normale” è una parola relativa, che acquista un senso solo opponendosi a ciò che non lo è. A sua volta però, anche il patologico verte nella stessa condizione: possiamo definire il patologico solo a partire dalla sua opposizione alla normalità, e viceversa» (p. 157).

L’importante per una società e un’epoca «che fa della sofferenza psicologica la più redditizia delle risorse» (p. 161), è che la normalità esca di scena, e che al suo posto si insinui il dubbio che ognuno di noi possa essere affetto da qualche disturbo, e che questa condizione giustifichi una vulnerabilità di cui si vuol fare credere che il sistema non abbia alcuna colpa. Questa vulnerabilità, creata dal proliferare delle diagnosi, impedisce invece di affrontare prove e ostacoli che rientrano nella norma dell’esperienza umana, compresa la capacità di opporsi come comunità ai ritmi insostenibili delle forme del lavoro contemporaneo, all’iper-performatività di un sistema educativo sempre meno interessato alla crescita umana e intellettuale delle persone e sempre più orientato a formare individui addestrati alla cultura aziendale, alla mercificazione dei rapporti umani praticata dalle piattaforme digitali, alla monetizzazione del tempo libero attraverso prassi di autosfruttamento. In altre parole, una società composta da individui che si pensano e si raccontano come fragili e affetti da una miriade di disturbi è una società intrinsecamente indebolita dalla frammentazione a beneficio di chi detiene il potere a vari livelli, specialmente quello economico.

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Immagine di copertina:
particolare di un’opera pittorica di Marisa Bellini.