Quello che stiamo presentando 1 è un libro difficile, denso, ricco di novità che vengono da un lungo lavoro di ricerca, cui l’autore talvolta fa cenno oppure che cita ampiamente. È un testo che fa riflettere, che fa riconsiderare come noi, analisti formati alla scuola di Lacan, facciamo uso del significante, in particolare di quei significanti linguistici che hanno una storia più antica, di cui il paziente ci parla: sono quelli che risalgono alla sua prima infanzia. A questa prima infanzia dobbiamo permettergli di arrivare, attraverso il nostro ascolto. Sono parole dimenticate, espressioni dialettali, lessico familiare, suoni dell’infanzia, nonsense e alto ancora.

Nella prefazione, Enrico Valtellina fa del libro di Barbetta, Linguaggi senza senso, un elogio sapiente e variegato: apprezza le posizioni di Pietro Barbetta e in particolare la sua analisi dell’autismo. Valtellina cita un testo, scritto con una sua collaboratrice, in cui l’ecolalia dei bambini autistici, invece di essere una condanna che li connota in quanto diversi, diventa una risorsa, una risorsa espressiva. È questa d’altra parte, dice Valtellina, la pista battuta oggi dagli “Autism studies”. È la stessa pista percorsa da Pietro Barbetta e anche quella, credo, del suo intero percorso di ricerca: cogliere la parola nel momento della sua genesi, ripensare «l’espressione verbale» adottata, una premessa indispensabile perché la parola possa «curare».
In altre parole: nessuna cura è possibile se non lavoriamo la parola, ivi compreso il suo suono, le sue gergalità, i suoi modi di essere detta, pronunciata, suonata o fatta risuonare.

Pietro Barbetta, Linguaggi senza senso

Ho un ricordo vivissimo d’infanzia che voglio raccontare e che riguarda il modo in cui mia nonna concludeva le sue preghiere; è un esempio che mi fa comprendere meglio il libro di Pietro Barbetta.
Lei diceva, alla fine delle sue preghiere: Non sgombrare pia, benedicite o Maria.
Benché – ero piccola – non capissi il latino e quindi non potessi valutare l’inesattezza della frase, essa alle mie orecchie suonava un po’ come il grammelot di Dario Fo, come un impasto di parole apparentemente senza senso, che per lei però un senso ce l’avevano, quello di invocare la benedizione della Madonna. In quella frase si mescolavano la fretta nel concludere una preghiera in latino (Nos cum prole, Pia, benedicat Maria), di cui lei stessa non comprendeva il senso, ma che recitava comunque, malgrado il suo nonsense. Era una specie di rituale magico che le assicurava la benevolenza della Madonna, senza che la frase avesse senso per lei.

Una volta alle scuole medie, con la mia infarinatura di latino, ridevo nell’ascoltarla, così come mi facevano ridere i rosari, altrettanto frettolosi, in cui dovevo rispondere ora pro nobis a ogni giaculatoria; il suo ritmo nel pronunciare le litanie del rosario era tale che non ce la facevo a starle dietro. Era così precipitosa che non aspettava il mio ora pro nobis.
Allora mi risolvevo per un ora pro nobis infilato a casaccio, e spesso sovrapposto alle sue litanie. Anche il mio ora pro nobis era un nonsense.
Non so come potrebbe essere definita questa mia corsa a ostacoli nel tentare di raddrizzare il latino, trasformato in una lingua sconosciuta, una specie di mantra.
Ma la nonna recitava una formula magica che serviva a garantirle il Paradiso, e quindi se ne infischiava delle mie eventuali correzioni linguistiche. In realtà, ero affascinata da quelle storpiature, da quelle formule magiche, da quel linguaggio così unico e insensato.

Sono ricordi d’infanzia che, benché a me già noti, sono stati risvegliati dal libro di Barbetta. Che ha risvegliato anche il piacere dell’insensato. Del dire parole a casaccio come i bambini di Bretecher, la vignettista francese che ha disegnato due bambini che si rotolano sul tappeto per le risate dicendo la parola “cacca”. Mentre le mamme compostamente bevono il tè. Perché sono in visita. Anche la parola “cacca” è un mantra, insensato e proibito, interdetto.

Pietro Barbetta elenca i linguaggi di cui vuole trattare, che hanno tutti in comune il fatto di essere insensati, come dice il titolo del libro. Barbetta accusa il neopositivismo logico e lo scientismo che hanno, soprattutto, «farmacologizzato» i linguaggi privi di senso. Che vanno curati come malattie. Tra i linguaggi “privi di senso” lui enumera, oltre al linguaggio infantile, anche le parolacce, come nell’esempio della vignettista, di Bretecher.

Ho sempre notato che nel “lessico familiare”, nei modi di dire, nelle espressioni di una determinata famiglia, c’è sempre un nutrito numero di parolacce, di espressioni gergali – che in genere sono erotiche, che rinviano alla sessualità –, e che servono a segnalare ciò che non si può dire, ma dicendolo. Dandolo ad intendere: con parolacce, espressioni di gergo, allusioni, ecc.
La componente erotica è importante per gli esseri umani; senza quello, come sosteneva Freud, non ha senso vivere. Allora, proprio quello si può dire e non dire, vi si può alludere, ma non dire apertamente. Si dice in dialetto – o in gergo – per chi ha orecchie per intendere.

Barbetta ricorda che durante il fascismo era vietato il dialetto, che addirittura erano previste punizioni corporali per gli alunni che lo parlavano.
Progressivamente la lingua appresa nell’interazione con la madre veniva ridotta, diminuendo così le potenzialità della lingua stessa. Ancora più di quanto già accade nel normale sviluppo di un bambino e nell’apprendere quella che in genere sarà la lingua adottata, parlata.
La lingua, in questo senso, è sempre lingua d’adozione? Anche la “nostra” lingua, la lingua materna, è d’adozione? Richiede comunque di abbandonare qualcosa? Dopo aver letto il libro di Pietro Barbetta direi di sì.

Per quanto riguarda la suddivisione interna del libro, cito ciò che lui stesso dice: «ogni capitolo corrisponde all’età dell’uomo: l’infante, lo scolaro, l’amante, la giustizia e la voce che, da vecchi, ritorna “stridula e infantile”» (p. 21). Così succede all’uomo, e così dice Shakespeare in Così è se vi pare.
Le citazioni che fa l’Autore rivelano la sua enorme cultura, soprattutto letteraria, linguistica, ma anche antropologica oltre che psicologica e psicoanalitica.
L’uso che Barbetta fa della lingua è variegato, composito, fondato sulla perdita. Nell’apprendere una lingua perdiamo qualcosa.

Barbetta cita, ad esempio, Daniel Heller-Roazen, il quale sostiene che, nel processo di apprendimento della lingua materna, il bambino perde un gran numero di fonemi che, invece, in un’altra lingua adopererebbe; ma ne perderebbe altri.
Apprendere significa perdere.
Alle elementari, il bambino perde una quantità di suoni che potrebbe emettere e che lascia cadere, poiché la lingua che impara gli impone la loro eliminazione.
D’altra parte, anche il piccolo Ernst, il nipotino di Freud, il bambino del rocchetto, non diceva davvero Fort-Da: era la madre che aveva interpretato così i suoni emessi dal bambino. E Freud lo dice a tutte lettere: Fort e Da lei li aveva intuiti, aveva dato loro un senso, ma in realtà erano dei suoni, puri suoni emessi dal suo bambino.

Sci – è un altro ricordo – diceva il contadino all’asino per farlo fermare. E ripeteva: sci, sci, per ribadire che l’asino doveva fermarsi… Sci deriva da sceccu, che in dialetto calabrese è il modo in cui si chiama l’asino. Barbetta fa un esempio analogo: loe, il grido emesso da un contadino lombardo per far fermare il suo asino.
Direi che, insomma, Pietro ha risvegliato in me sollecitazioni che vanno dalla lallazione all’apprendimento della lingua, ricordi di modalità perdute, quando forse c’era il caos linguistico, caos di suoni e linguaggi senza senso, un caos perduto.
I bambini giocano con i suoni. Più grandi, si consolano con le filastrocche per rifugiarsi nel non-senso, nel senza significato del puro suono.

Il libro è suddiviso in capitoli che trattano la lallazione (il linguaggio del bambino), l’erolalia, la coprolalia, l’ecolalia, la glossolalia, per concludere con «la lingua matrigna». Però ogni capitolo è seguito da un nome di città, spesso straniera, e da una data che segna una relazione, un insegnamento, qualcosa di dibattuto, di discusso, qualcosa che ha suscitato domande.

Barbetta parla di «nomadismo linguistico», di una specie di esilio a cui siamo più o meno costretti, e ricorda che la parola “bambino” deriva dal greco bambaino, cioè “balbettare”: parola vicina a “barbaro”, che a sua volta è vicino allo condizione dello schiavo: tra barbaro e schiavo ci sono affinità. Entrambi sono esclusi, ad esempio, dai diritti dei cittadini, non possono partecipare alla vita della polis. Anche il bambino, il nostro barbaro, potremmo dire, è escluso dai diritti degli adulti.

Il saggio si chiude con un caso clinico, il caso di Ady, raccontato per metà in italiano e per metà in inglese, perché è la ripresa di alcune sedute, in un italiano e un inglese storpiati, dove Barbetta denuncia la tratta delle donne nigeriane. In questo caso si tratta di una quasi-bambina costretta a prostituirsi.

Con una critica a John Searle, filosofo del linguaggio che nega che esista l’ineffabile, ciò che non si può dire, si chiude questo libro complesso. Secondo Searle tutto può essere reso trasparente, dicibile. È questa, una lingua trasparente, la “lingua matrigna” di cui parla Barbetta alla fine del suo libro? Sarebbe forse un inglese semplificato che ormai parlano tutti, un linguaggio globalizzato che non è più né la lingua di Joyce, né quella di Shakespeare. Saremo schiavi di questa neo-lingua? Insomma, la lingua inglese diventerà una specie di “esperanto” che ci farà perdere la varietà delle lingue e quindi quello che abbiamo lasciato cadere per entrare nella lingua detta materna? E, se gli scambi fra gli umani avvengono tramite le lingue, se le lingue costituiscono l’identità di un popolo, la semplificazione linguistica – di un inglese esperantizzato ad esempio – dove ci porta?

La lingua matrigna è quindi l’inglese/esperanto, un inglese che non è più la lingua di Shakespeare, perché ha perduto la sua ricchezza, il suo colore, ed è senza vuoti, senza perdite. Una lingua matrigna che cancella la sua storia, che nasce già adulta, senza infanzia. La lingua di tutti e di nessuno.

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Note:
1) Marisa Fiumanò è psicoanalista, psicoterapeuta e saggista. Responsabile del Laboratorio Freudiano di Milano, dirige il consultorio di psicoanalisi Edipo in città ed è membro dell’Association Lacanienne Internationale (AMA). La presentazione è avvenuta presso la Casa della Psicologia di Milano il 20 febbraio 2024.

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Immagine di copertina:
Giulio Zanet, Ecolalia, galleria Gate 44, Milano, 2022 (foto: Marta Carenzi)