Durante la notte del primo gennaio 1801 l’astronomo Giuseppe Piazzi notò tra le orbite di Marte e Giove la presenza di una strana massa luminosa, un oggetto sferoidale che, rispetto alle stelle fisse, si spostava lentamente attraverso il cielo. In un primo momento, pensò si trattasse di una cometa. Gli ci volle un po’ di tempo per accorgersi che quella traiettoria, tuttavia, non corrispondeva affatto alle orbite cometarie. Confrontando l’esito delle sue osservazioni con quelle delle notti precedenti, Piazzi concluse con entusiasmo di aver scoperto un nuovo oggetto celeste, un piccolo pianeta (o almeno così si decise a classificarlo) che battezzò Ceres Ferdinandea, in onore della dea romana del grano e del suo sovrano, re Ferdinando.

La scoperta di Ceres fu un evento significativo nella storia dell’astronomia, ma anche frutto di un’imprecisione. Presto ci si rese conto che quello che Piazzi aveva scrutato nel cielo non era un pianeta, bensì un asteroide. L’errore di classificazione era del tutto giustificato: Ceres era visibile solo per un breve lasso di tempo, dopodiché scompariva dietro il Sole. E dal momento che il suo arco di osservazione era così ristretto, gli astronomi dell’epoca ebbero non poche difficoltà nel tentare di predirne la posizione futura.

Fu così che un collega tedesco di Piazzi, Johann Elert Bode, chiese a Carl Friederich Gauss di aiutarlo a determinare la traiettoria dell’asteroide basandosi su nient’altro che i dati a disposizione. Applicando la matematica all’astronomia, Gauss sviluppò un metodo a dir poco innovativo, conosciuto come il metodo dei minimi quadrati – in estrema sintesi, una tecnica di calcolo per isolare in modo rigoroso il modello che meglio rappresenta i dati disponibili, riducendo al minimo la variabile d’errore. Il risultato fece la gioia degli astronomi: le predizioni di Gauss risultarono così accurate che, quando quest’ultimi tornarono a cercare Ceres, riuscirono a individuarla nel punto esatto indicato dal matematico tedesco.

Gauss non lo sapeva e non poteva saperlo, ma il suo insight aveva aperto le porte alla storia del concetto di “normalità”. Ancora oggi, la sua omonima curva, nota anche come distribuzione normale, è uno strumento imprescindibile per visualizzare in modo immediato il concetto di normalità statistica, talmente convincente da essere penetrato anche nel linguaggio quotidiano: normale è ciò che rientra nelle vicinanze del valore medio di una funzione, erroneo o anormale è l’insieme di quei valori estremi che vi si distanziano. In realtà, quando definiamo un determinato fenomeno o caratteristica “normale” perché riguarda la maggior parte di noi – “è normale provare tristezza per un evento spiacevole”, “è normale avere paura di parlare in pubblico” eccetera –, è come se stessimo pagando un implicito tributo al lavoro di Gauss. Pochi anni dopo la scoperta di Ceres, il connubio tra dati di osservazione e funzioni matematiche attirerà l’attenzione di un altro fanatico dei numeri, lo statista belga Adolphe Quetelet.

Quetelet si chiedeva se fosse in qualche modo possibile applicare i metodi di calcolo di Gauss alle scienze sociali, e cioè utilizzare quelle così efficaci stime predittive non più per tracciare il percorso delle orbite celesti, ma per studiare la condotta degli individui. Il primo abbozzo di questo progetto compare in L’homme moyen (1835),1 un testo ambizioso, che fa dell’“uomo medio” il campione rappresentativo per la comprensione dei modelli di comportamento umano e per l’applicazione della statistica sociale. La normalità è un riflesso della legge dei grandi numeri, per la quale la maggior parte delle caratteristiche individuali (l’altezza, il peso, l’intelligenza) si distribuiscono in modo simmetrico attorno a un valore medio, seguendo una curva a forma di campana. A differenza del suo predecessore, Quetelet non ambiva soltanto all’encomio della comunità scientifica. Egli voleva fare dell’uomo medio un’entità perfettamente misurabile, riproducibile e predittiva, ma anche e soprattutto un modello di integrità morale, il perfetto cittadino ispirato dagli ideali della Francia post-rivoluzionaria.

Di una generazione più giovane rispetto a Gauss e Quetelet, anche Francis Galton covava una sua personale ossessione per le stime, che riusciva a sfogare solo erigendo vere e proprie muraglie di calcoli e numeri. In modo del tutto opposto agli altri due però, i suoi sforzi miravano alla singolarità per eccellenza: isolare e riprodurre la formula esatta del genio, una qualità in cui lui stesso, a quanto pare, si identificava. Chi lo ha conosciuto prima che diventasse famoso diceva che era solito classificare ogni cosa gli passasse tra le mani. Denigrava le donne, che non figureranno mai nei suoi studi più celebri, anche se non riuscì a resistere alla tentazione di stilare una classifica in cui la variabile “attrattività” veniva incrociata con la provenienza geografica. Era anche un fermo sostenitore dell’ereditarietà e della superiorità – secondo lui scientificamente provata – della stirpe britannica sul resto del mondo. Collauda i primi test di intelligenza e le prime tecnologie biometriche, e dalle sue ricerche vedranno la luce la psicometria, la genetica comportamentale e, non in ultimo, l’eugenetica. Il segreto di questo successo? Riuscire a fondere l’analisi statistica di Quetelet con la teoria della selezione naturale di suo cugino Charles Darwin. Una combinazione che farà da cardine al suo libro più famoso, Hereditary Genius (1869), un elogio incondizionato di come la corretta misurazione di determinati tratti possa aiutarci a separare gli individui normali da quelli anormali e, dunque, intrinsecamente perversi o mostruosi. In particolare, Galton rivisita la nozione di fitness separandola di netto dall’influenza delle dinamiche ambientali. La produttività e la capacità di preservare il proprio corredo genetico dipendono esclusivamente da un insieme predeterminato di fattori individuali, da un’attitudine innata che nessuna variabile esterna sarebbe riuscita a scalfire.

Soprattutto, per Galton la normalità non costituiva la massima ambizione della specie. Semmai, essa era un semplice gradino intermedio, un anello di passaggio tra una misurazione di partenza accettabile (l’uomo medio, normale) e una condizione ancor più desiderabile: appunto, il genio.

Non è un caso se, a prendere tremendamente sul serio le tesi di Galton, sarà proprio Emil Kraepelin, lo psichiatra più famoso della sua epoca, animato dal doppio sogno di elevare la psichiatria allo stesso livello della medicina e, contemporaneamente, di fare di essa una scienza correttiva di “massa”, i cui presupposti di fondo potessero essere tradotti in scopi pratici altrettanto precisi: attitudine scolastica, prestanza militare, abilità negli affari o, detto in due parole, una scienza pubblica ed esatta della normalità.

Nel Novecento, il concetto di “normalità” prende piede anche nell’opinione pubblica e questo nonostante se ne ignorasse il significato preciso: basti pensare che, quando nel 1920 il repubblicano Warren Harding adotta come slogan per la sua corsa alla Casa Bianca il motto Return to normalcy, la parola non era ancora nei dizionari. Dalla sua prima, implicita formulazione in campo astronomico, l’etichetta della “normalità” si è allargata alla matematica, alla statistica, alle scienze sociali, alla psichiatria e, infine, alla psicologia e alla cultura di massa. Il suo campo semantico è diventato talmente ampio da renderla un punto di riferimento difficile da evitare, persino nelle conversazioni più informali. Il boom della psicoanalisi e del comportamentismo nell’America degli anni Cinquanta ebbe l’effetto di un barile di benzina lanciato sul fuoco. Con i trattamenti psicoterapeutici che non erano più riservati soltanto ai folli o ai ricchi borghesi, anche la normalità cambia vestito: anziché costituire un rigido richiamo alla norma o una qualità innata, essa diventa uno stile di vita, un modo di gestire sé stessi e il proprio rapporto con gli altri.

Questo breve excursus ci dimostra che quello di normalità è un concetto ben più giovane e controverso di quanto siamo portati a credere. E che oggi, in un clima ideologico in cui la sua cornice semantica ingloba senza distinzione altri termini di provenienza pseudo-scientifica quali “salute”, “sanità” o “benessere”, il bisogno di chiedersi cosa sia normale e cosa non lo è si ripresenta in tutta la sua cifra enigmatica, di vero e proprio rebus.

Trattare la questione senza piombare ancora una volta nel suo passato storico è difficile, perché si rischia di abbassare il concetto a ennesima etichetta di tendenza, all’hashtag di turno che ci detta in modo apparentemente innocuo il modo in cui dovremmo formulare il bilancio delle nostre vite. Se c’è qualcosa che questa breve storia può insegnarci, al contrario, è proprio il fatto che, sotto sotto, ciascuno di noi è costantemente incline a compilare la statistica di sé stesso, a stilare bilanci, orbite o grossolane traiettorie della propria vita. Che se ne ricostruisca la storia sommersa oppure no, qualsiasi tentativo di apparire o percepirsi normali dovrebbe spronarci quanto meno a sospendere momentaneamente il nostro giudizio per chiederci: cosa significa, esattamente, essere normali? E, in secondo luogo, perché abbiamo bisogno di riferirci continuamente alla normalità?

Erich Fromm, che di Kraepelin era stato allievo a Heidelberg, ha passato oltre vent’anni a interrogarsi sul concetto di normalità e, con buona probabilità, è stato il primo tra gli psicoanalisti a farci notare che essa non è affatto sinonimo di benessere o felicità.

Oggi, tendiamo a ricordare Fromm principalmente come lo psicoanalista della Scuola di Francoforte (era amico di Horkheimer, aveva lavorato con Marcuse e apprezzava il lavoro di Adorno, pur non avendolo mai incontrato di persona) o, ancora meglio, come il fervente umanista che contrapponeva la condizione esistenziale dell’essere a quella consumistica e inautentica dell’avere. Michel Onfray lo definisce non senza entusiasmo un “freudiano eretico”, il Lutero del freudo-marxismo. Epiteti a parte, rimane il fatto che Fromm fu tra i più diffidenti della sua generazione rispetto a ciò che la società capitalista spacciava per “normale”. La sua pluridecennale esperienza clinica e la partecipazione attiva nel promuovere una psicoanalisi del territorio (accessibile anche agli “ultimi” della fila) si combinavano bene con un’impostazione fortemente critica nei confronti della normatività sociale. Ancora oggi, la sua disamina rimane tra le più peculiari che la psicoanalisi abbia mai conosciuto: gli atteggiamenti e le disposizioni psichiche richieste all’individuo cosiddetto normale non remano in direzione della salute mentale e fisica ma, in senso del tutto opposto, sono una fabbrica a cielo aperto di disagio psichico. Ciò che è utile per il sistema economico non lo è necessariamente per le persone che ne fanno parte. Anzi, la normalità era per lui una specie di solvente che serviva a occultare questa stessa dissonanza, a nascondere il fatto che il significato di quanto ci viene venduto come “normale” è in realtà intrinsecamente patologico – in un suo libro del 1954, Fromm la chiamerà proprio la patologia della normalità.

I momenti migliori di questa “critica della ragion normale” sono raccolti nelle quattro parti di I cosiddetti sani, recentemente portato in Italia da Mimesis: una serie di lezioni tenute da Fromm presso la New School for Social Research di New York (1953); un seminario messicano (1962); un intervento programmatico per la fondazione di un Istituto per la scienza dell’uomo (1957); un breve saggio che si propone di superare la patologia della normalità attraverso il ricorso alle scienze sociali e psicologiche (1974).

Erich Fromm, I cosiddetti sani

Fromm non rigettava in toto il sistema di produzione capitalista, né si avvicinava al pessimismo freudiano de Il disagio della civiltà. A differenza di alcuni suoi celebri contemporanei, credeva che il segreto del cambiamento dipendesse da un corretto utilizzo dei mezzi del capitalismo, invece che dalla loro completa distruzione. Nondimeno, concordava con molti marxisti sul fatto che «il problema fondamentale» del capitalismo è e rimane «l’alienazione» (p. 51), da lui intesa come la degenerazione di una tendenza spontanea dell’uomo, quella a convertire i dati immediati dell’esperienza in concetti astratti. L’alienazione è, in altri termini, un’astrazione di cui abbiamo perso il controllo, una falsificazione immaginaria che si sostituisce in tutto e per tutto al rapporto diretto con il reale.

Il primo campanello d’allarme di una simile mutazione antropologica è il linguaggio. Fromm concede che il linguaggio miri per sua natura all’astrazione. Staccandosi dalla superficie immediata delle cose, le parole ci permettono di comunicare e di condividere una visione del mondo verosimile, di inquadrare in una cornice di significato comune «numerosi oggetti di uno stesso tipo» (p. 57). Il problema è che, in un sistema economico come quello tardo-capitalista, in cui tutto è «contabilità, conteggi e quantificazioni», anche l’astrazione del linguaggio si corrompe:

«non ci serviamo più del linguaggio solo per comunicare, ma attribuiamo per lo più alle parole lo stesso significato che ha il denaro: astrazioni dalle vere esperienze che si scambiano nella comunicazione interpersonale, percepite senza alcun riferimento alle esperienze concrete» (p. 59).

La parola non apre più nuovi spazi interpretativi, non approfondisce il significato delle cose. Piuttosto, si limita a riempire i buchi, a colmare il vuoto di senso degli individui con etichette sbrigative, a sviare anziché favorire la comunicazione. Le sue capacità astrattive (di collegare ciò che è concretamente separato) cedono il posto a un insieme di funzioni diametralmente opposto: restringimento espressivo, impoverimento della creatività, omologazione dei sentimenti e delle opinioni.

L’alienazione nella normalità fa sì che l’essere umano plasmi sé stesso e chi lo circonda a partire dalle «condizioni economiche e sociali» in cui vive, che tutti i fenomeni con cui egli ha a che fare (dagli oggetti più ordinari sino alle parole e agli stati d’animo più intimi) gli si presentino sotto forma di merci: entità astratte percepite in virtù del loro «valore di scambio» (p. 53). L’uomo normale di Fromm è un soggetto impigrito, triste, vittima della noia e del grigiume della routine, il cui spazio vitale è schiacciato nel binomio produzione-consumo e che definisce sé stesso esclusivamente in base alla funzione sociale che è chiamato ad assolvere, a ciò che possiede o a ciò che non è alla sua portata di consumatore.

È il cosiddetto concetto di salute psichica «orientato alla società», basato sul presupposto che l’uomo sia normale, e di conseguenza sano, quando è all’altezza dei compiti che gli sono assegnati, quando «funziona in modo conforme ai bisogni di una data società» e si fa trovare pronto di fronte alle sue richieste (p. 87). Il trucco per far passare un simile messaggio, ovviamente, consiste nel presentare la normalità come un concetto orientato sul singolo, sulla persona invece che sul sistema economico, politico e culturale a cui appartiene. Oppure, e in modo più spudorato, nel porre l’uomo e la società come due organismi equivalenti, persino simbiotici, come dire, «ciò che è il meglio per la società» non può che esserlo «anche per l’uomo» (p. 88).

Alla fine, bisogna ammetterlo, I cosiddetti sani ci lascia un po’ con l’amaro in bocca. Le critiche di Fromm colpiscono nel segno, portando a galla molti dei paradossi che gravitano attorno al concetto di normalità. Eppure, la sua intensa decostruzione sembra arenarsi proprio nel momento in cui occorrerebbe produrre una valida alternativa alla definizione ideologica del concetto. La visione “umanistica” di salute psichica (dalla parte dell’uomo e non della società, creativa e non conformistica) che ci propone in diverse occasioni tradisce un vago misticismo, una specie di ideale al di là degli ideali che, proprio per la sua incompiutezza, rimane altrettanto fumosa del suo predecessore. L’apparente ottimismo di Fromm nei confronti del capitalismo precipita nel pessimismo paralizzante di chi si chiede: “perfetto, ora so come stanno esattamente le cose… ma che dovrei fare?”. L’impressione è che, finché rimaniamo anche solo con un piede nel meccanismo classificatore della normalità (finché tentiamo di cambiare il concetto anziché sbarazzarcene), continuiamo a fare il suo gioco.

E se, provocatoriamente, fosse proprio questo il punto? E se i limiti del ragionamento di Fromm fossero la dimostrazione ultimativa che per uscire dal vicolo cieco della normalità e dalle sue trappole ideologiche occorre smettere semplicemente di porsi la questione?

La normalità è un concetto insidioso, che riesce di volta in volta a imporsi senza mai svelare il suo vero significato. Lo sapevano bene i medici francesi della Parigi rivoluzionaria, che si erano ritrovati tra le mani migliaia di morti, feriti e mutilati e che, facendo di necessità virtù, furono costretti a stabilire un ipotetico “stato di normalità” per barcamenarsi in quella montagna di corpi. Non sapevano esattamente di cosa stessero parlando, eppure ne parlavano.

Soprattutto, la sua breve storia dimostra che la normalità riesce a imporsi occultando gli interessi e i rapporti di potere che la sottendono, e questo proprio in virtù della sua costante vaghezza concettuale. Del resto, il modo migliore per celare i fini ideologici di un costrutto consiste esattamente nello sfumarne il significato, nel mantenere la sua applicazione semantica in uno stato di perenne e nebulosa incertezza.

La questione si fa ancora più scottante se pensiamo che, negli ultimi decenni, i criteri della normalità sembrano essersi progressivamente invertiti rispetto al passato. Laddove per lungo tempo la normalità si imponeva attraverso un tipo di discorso puramente inclusivo-oppressivo, come il grado zero della soggettività sana che occorreva essere, oggi la sua cornice di significato è stata invasa dal patologico, dall’ideale falsamente emancipativo di poter finalmente ammettere di non stare poi così bene. Soffrire di determinati disturbi o identificarsi in precise etichette diagnostiche non è mai stato così normale. Riempire il proprio linguaggio di termini abusivamente trapiantati dai manuali diagnostici sembra rendere la comunicazione più veloce e, al tempo stesso, efficiente. Come se qualsiasi sfumatura o deviazione dall’orbita dominante del linguaggio patologico fosse un’operazione superflua, se non addirittura sospetta. A definire ciò che è normale non sono più attributi positivi, bensì termini tecnici marcatamente negativi: stress, ansia, trauma, fobia, ossessione, depressione, paranoia.

La patologia della normalità di Fromm si è rovesciata in una normalità della patologia. L’ideologia di fondo non definisce più una maggioranza di individui sani, ma propende per uno standard in cui la condizione di normalità è quella della patologia. Non per nulla, la stessa Bibbia della psichiatria, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), non fornisce alcuna definizione specifica del concetto di normalità, lasciando implicitamente intendere che “normale” è chi non rientra in nessuna delle sue trecento diagnosi. I dati allarmanti sulla recente impennata dei disturbi mentali, insieme alla penetrazione massiccia del linguaggio psicologico nel dibattito pubblico, ce la dicono lunga al riguardo.

Probabilmente, Fromm non avrebbe potuto prevedere questa repentina inversione del concetto di normalità. Finché è stato in vita, il DSM era ancora un libretto inutile che circolava tra le scrivanie di pochi specialisti. Per ironia della sorte, è morto lo stesso anno in cui le cose sarebbero cambiate drasticamente, il 1980: l’anno di uscita del DSM-III, della rivoluzione psicofarmacologica e dell’avvento della cultura terapeutica in cui siamo ancora impantanati oggigiorno.

Alla fine, forse, la domanda che varrebbe la pena porsi non è “cosa è veramente normale e cosa non lo è?” quanto piuttosto: “a cosa serve, qui e ora, il modello di normalità che ci state offrendo?”.
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Note:
1) Sur l’homme et le développement de ses facultés, ou Essai de physique sociale, Paris, Bachelier, 1835.

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Immagine di copertina:
Ursus Wehrli, Tannenzweig aufgeräumt – Aufgeräumter Tannenzweig