«Avoir un sujet de préoccupation vital, c’est ça, avoir un territoire».

Bruno Latour 1

 

Brighton, Inghilterra, inverno 2017. In una fredda e piovosa giornata un eurodeputato ha appuntamento con un noto militante ecologista che da anni vive isolato nella sua casa lontana dal centro, per convincerlo a prendere il comando di un progetto finanziato dall’Unione Europea e da un centinaio di governi e organismi internazionali. Si tratta della Commissione internazionale sul cambiamento climatico e per un nuovo contratto naturale (CICC). È così che Adam Thobias, ecologista in prima linea negli anni Settanta, dopo decenni passati a scrivere articoli di denuncia sul cambiamento climatico, a insegnare quella che lui stesso ha definito geopoetica aumentata, una sorta di geografia sensibile per l’esplorazione del mondo, ed essersi poi ritirato dalle scene, accetta l’incarico e si mette al lavoro, con la sola richiesta di un ampio margine di manovra e di poter scegliere i propri collaboratori. Thobias crea quindi una sottocommissione costituita da scienziati, geografi, antropologi, botanici, geologi, viaggiatori, fotografi che saranno inviati in giro per il mondo a elaborare delle mappature dello stato dei luoghi. L’inchiesta necessita del territorio, e, anche se la tecnologia permetterebbe mappature a distanza, l’idea di Thobias è quella di aller sur le terrain per riportarne notizie quanto più precise possibili.

I collaboratori comunicheranno tra loro attraverso una piattaforma secretata chiamata Télémaque, nella quale dovranno riportare notizie e avanzamenti sulle loro indagini.

È attraverso questo progetto di descrizione dello “stato della Terra”, finanziato da una politica inerme di fronte alla catastrofe ambientale che inizia l’ultimo romanzo di Pierre Ducrozet, Le grand vertige, uscito in Francia nel 2020 per Acte Sud e (ahimè) non ancora tradotto in Italia. Un’idea pratica, quella della descrizione dei luoghi, che l’autore riprende dal filosofo francese Bruno Latour, il quale da qualche anno conduce, insieme ad artisti e colleghi, degli atelier itineranti di descrizione sul modello dei cahiers de doléances in uso nell’Ancien Régime e in particolare durante la rivoluzione francese.

Pierre Ducrozet, Le grand vertige

Le grand vertige è un romanzo che, come auspicava Debord a proposito della letteratura migliore, getta benzina sul fuoco, traducendo in narrazione i temi cruciali e i modi dell’epoca Antropocene. Costituendosi come vertigine scrittoria strutturata in quattro movimenti più un’alba finale, scritto con un ritmo incalzante, questo thriller ecologico è in grado di intercettare perfettamente una contemporaneità centrifuga nella quale «siamo in preda a una grande vertigine: il terreno si sbriciola sotto i nostri piedi, il cielo si annuvola. Più niente tiene, tutto si muove» (p. 17).2

Dopo L’Invention des corps – tradotto in italiano da Fazi nel 2021 con il titolo L’invenzione dei corpi – romanzo in cui l’autore si interrogava su come abitiamo i corpi nell’era dell’Antropocene, con Le grand vertige Ducrozet si interroga sul nostro rapporto con il mondo, su come lo abitiamo, come lo distruggiamo, ma, soprattutto, su come possiamo mantenere questo legame, continuare ad abitarlo, nella consapevolezza di dover scrivere altre storie, mescolare le carte, affrontare politicamente questioni cruciali, come quella del suolo.

Del braccio armato di Télémaque fanno parte, tra gli altri, Nathan, uno scienziato che studia la fotosintesi delle piante e cerca di trovare un metodo per replicare questo processo vitale; Mia Casal, un’antropologa post-punk ecofemminista che viaggia tra le comunità queer del Messico, studia le società matriarcali della Polinesia, e scrive articoli sui corpi mutanti del futuro; Arthur Bailly, fotografo esploratore, a cui verrà assegnato il compito di svelare le radici dell’oro nero andando a fotografare siti remoti e luoghi di estrazione; e, infine, June Demany, giovane inquieta che non ha voluto integrarsi in una vita urbana fatta di lavori precari e contratti a termine, e che parte per un viaggio intorno al mondo dopo avere dato fuoco alla sua vita precedente. June è probabilmente il personaggio che più di tutti uscirà mutato dal progetto Télémaque, quello più vicino al Ducrozet scrittore, grande viaggiatore lui stesso, inquieto ricercatore e instancabile indagatore della contemporaneità.

Il romanzo procede in una corsa contro il tempo che porta i protagonisti a macinare chilometri: da Calcutta alla Foresta Amazzonica, dalla Birmania ai deserti africani, attraversano guerre, schiavitù, migrazioni, boschi e montagne e i loro resoconti vengono inviati alla piattaforma in uno scambio che, però, a un certo punto si inceppa. Il progetto di Adam Thobias, infatti, non è mai del tutto chiaro, e, se all’inizio la richiesta era quella di avere «des nouvelles cartes et des nouveaux récits» (“delle nuove carte e delle nuove narrazioni”), a poco a poco non riusciamo più a distinguere il raggio d’azione e la portata del progetto, e gli interrogativi si moltiplicano. È ancora possibile cambiare le cose al punto in cui ci troviamo? È possibile farlo in modo pacifico attraverso leggi e commissioni parlamentari o occorrono azioni più potenti, violente anche, per far sì che le persone aprano davvero gli occhi e si decidano a vedere quello che hanno di fronte? È possibile colpire i superpotenti che i governi non possono e non vogliono gestire?

La scrittura di Ducrozet ha il pregio di complicare le cose, di tessere maglie che non semplificano la faccenda. Tutti i personaggi sono prismi attraverso i quali si illuminano facce differenti di loro stessi e del mondo. Tutti i collaboratori, Adam Thobias in primis, sono tentativi lanciati nel futuro, alcuni falliti in partenza, altri che si schianteranno contro i loro stessi ideali, altri, come June, passeranno attraverso una grossa sofferenza prima di poter ricominciare, di poter camminare in una nuova alba che comunque sappiamo già irrisolta anch’essa, senza soluzione di continuità tra un prima e un dopo che si annullano in un tempo nuovo, sconosciuto.

«Tutto si mescola con tutto, eternamente. Non c’è regola più semplice e potente di questa. L’aria si mescola nello spazio che a sua volta si mescola nel tempo, la terra crea l’atmosfera della quale si nutrono gli esseri viventi: animali, batteri e umani. Nessuno può rompere questo grande tutto. Se ci sono rotture, lotte, curve, niente e nessuno può romperne la logica e il movimento. Anzi, sì: l’uomo. (…) L’essere umano è riuscito a mettere insieme una forza tale, una forza unica, da riuscire a rompere in maniera unilaterale questa potente legge universale» (p. 191).

Le grand vertige è stato scritto sull’orlo della pandemia, alla fine del 2019, e pare prefigurarne e misurarne la voragine. Durante la scrittura Ducrozet è partito per un viaggio, durato diversi mesi, nei luoghi attraversati dai personaggi del romanzo e del quale ha scritto una cronaca per Libération, poi pubblicata da Acte Sud con il titolo Partir léger (2020). La scrittura stessa necessitava del territorio, di un camminamento corporeo, di un sopralluogo che si trasforma in un infraluogo, alla ricerca di nuove modalità di abitare il mondo, multiple e tangibili. Ducrozet sembra seguire – pister – i corpi che si muovono nello spazio alla ricerca delle loro traiettorie, linee tracciate che si sovrappongono e si annodano in un movimento continuo, precipitato nella storia profonda e lanciato, allo stesso tempo, in futuri lontani, proprio come nella teoria delle linee di cui parla Tim Ingold in Siamo linee. Per un’ecologia delle relazioni sociali (Treccani, 2020; in originale The life of lines, Routledge, 2015), dove «tutto si intreccia con tutto il resto e il risultato è quello che io chiamo reticolo (meshwork). Descrivere il reticolo significa partire dalla premessa che ogni essere vivente è una linea, o, meglio, un fascio di linee» (p. 15).

Non è la prima volta che Ducrozet si misura con una narrazione vivente, con una materia cangiante che poi brucia tra le maglie di una narrazione. A partire dall’esordio, con Requiem pour Lola rouge (1° ed. Grasset, 2010, poi ristampato da Actes Sud nel 2020) e poi con La vie qu’on voulait (Grasset, 2013), i personaggi che ritroviamo nei suoi romanzi sono metamorfici, psichedelici, la visione è globale, il raggio d’azione anche. Ma è a partire da L’invention des corps, romanzo nel quale si muovono personaggi potenti come quello di Alvaro, un informatico scampato al massacro del 2014 degli studenti di Ayotzinapa, in Messico, e fuggito nella Silicon Valley dove viene sfruttato da un potente transumanista alla ricerca dell’immortalità (evidente calco di Peter Thiel, cofondatore di PayPal), che l’autore si getta completamente nella materia grezza della contemporaneità, senza però cedere a mode o banalizzazioni, ma restando sempre nel campo della complessità e della costruzione di immaginari globali. Trauma collettivo, migrazioni, tecnologie al servizio di un’immortalità per pochi eletti, cyber-corpi lanciati nel futuro sono mots-clés già presenti in questo romanzo e che dimostrano l’ottima preparazione di un autore che ha studiato e che non ha paura di mischiare nel pandemonio della narrazione Descola, Latour, Coccia, Morizot, la narrativa di viaggio di Patrick Deville, le teorie di Lovelock, le ricerche sul petrolio di  Matthieu Auzanneau e una bibliografia lunghissima che è possibile reperire nei suoi romanzi. Parole chiave che l’autore, insieme alla sua compagna Iulieta Canepa, prova a declinare anche in libri destinati a bambini e ragazzi, come l’ultimo, pubblicato da Acte Sud Junior, Je suis au monde con le bellissime illustrazioni di Stéphane Kiehl. Un viaggio attraverso la biodiversità e un tentativo di ricercare, insieme a un bambino di dieci anni, altri modi di abitare il suolo, altri modi di essere mondo.

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Note:
1) Citazione tratta da un’intervista al filosofo francese Bruno Latour apparsa su Zadig, n. 13, primavera 2022, p. 21.
2) Tutte le traduzioni dal romanzo di Ducrozet sono opera dell’autrice.