[Cosa può accadere di peggio a un filosofo che essere costretto a lavorare? E cosa c’è di peggio che dover lavorare in un paese dove il precariato è ormai endemico, e la burocrazia, la corruzione, i privilegi, le consorterie dominano gli ambienti di lavoro, soprattutto quelli della pubblica amministrazione? Alla sua prima prova narrativa, Il Bel Paese, pubblicato da CartaCanta Editore, Andrea Comincini, filosofo e italianista di formazione, racconta l’impatto con l’”arido vero” del mondo del lavoro, con una prosa classica che garantisce solida postura intellettuale a questa novella godibilissima e dotata di raffinata ironia, un racconto di formazione in cui si prendono in esame gli aspetti più deteriori di un paese complesso come l’Italia.
Ne proponiamo un estratto per gentile concessione dell’editore.]

Andrea Comincini, Il Bel Paese

[…] Annuisco e comincio subito a controllare la cartella. Quanto dovevo svolgere, mi accorsi subito, era vedere se alla domanda corrispondevano allegati i documenti A, B e C e segnare a fine pagina positivo o negativo.
Impiegai dai sette ai dieci secondi per accertarmi tutto fosse a posto e portai subito dal collega il materiale. Era talmente facile da non considerare nemmeno la pratica un lavoro, e infatti mi sentivo con la coscienza in pace. Quando incontrai il suo sguardo esterrefatto e furioso, compresi di averla fatta grossa.
«Ma che ti è venuto in mente? Chi ti credi di essere?»
«Eh?» risposi trafelato e sorpreso «Ecco qua, è tutto a posto, non capisco»
«Non capisci? Ragazzi eccone un altro, sta qui da un mese e vuole insegnarci il mestiere.»
I disumani, avvolti dal fumo delle sigarette, piegati su scrivanie anonime e piene di carte, mi fecero sentire addosso il biasimo dei loro occhi catarrosi.
“Tu qui non duri” sembravano dire e probabilmente ne sapevano più di me.
«Oggi controlli se c’è l’allegato A, domani il B e così via di seguito. Poi lunedì mi porti tutto, io rivedo e infine consegno. Non bisogna fare in un giorno quello che si deve fare in una settimana. Tutto chiaro?»
Cristallino. Aveva ragione. Provai un forte senso di ammirazione per quell’uomo perché aveva un livello occupazionale- motivazionale più basso del mio. Nella mia inettitudine vigliacca avevo lavorato senza accorgermene. Vi avevo avvisati: il lavoro è come una droga, quando cominci sei fottuto. Se avessi sempre agito così, dove si sarebbe andati a finire? Avrei costretto gli altri a ritmi che non volevano, né dovevano sostenere. Stavo velocizzando il tutto, scompaginando di mia iniziativa l’assetto stabilito, il tempo medio della pratica. Con quel gesto irresponsabile stavo dimostrando di agire autonomamente, seguendo la logica, applicando una tempistica ragionevole: insomma, mi ero trovato involontariamente a segare il ramo su cui tutti eravamo seduti, il ramo dell’inefficienza.
Promisi di non farlo più, chiedendo umilmente perdono. Al primo incarico interessante, dopo la gavetta tra cornetti e cappuccini, avevo già deluso tutti. Per fortuna mi fu concessa una nuova opportunità, seguita persino da uno sguardo benevolo:
«Sei nuovo, queste cose succedono. Capita a tutti all’inizio di voler lavorare, ma poi per fortuna si impara presto, poi passa.» Cialtroni! Che ne sapete voi del non lavoro? Gli avrei voluto gridare in faccia il peggio possibile, ma non potevo. Qui nulla ha a che vedere con la divina pigrizia a cui mi ero votato prima di solcare la cupa soglia della Regione. Qui non conoscono la nobile arte della speculazione inerte. Se non corrono come lepri, non vuol dire assomiglino a una fiera montagna. Assomigliano invece a lente, bolse tartarughe. Tale mediocrità è inaccettabile! Loro lavorano eccome, ma con tempi biblici, che consentono di vantarsi di stare a bighellonare, mentre invece, passetto dopo passetto, arrivano a combinare qualcosa. No, io sono di un’altra razza. Nulla, non bisogna fare nulla! Non compromettersi! Ma ora, come loro, dovrei vergognarmi perché agisco, scansiono, allego, lavoro. Mentre stavo uscendo dall’ufficio ho ripensato alle lunghe passeggiate bucoliche, senza meta, orgoglioso della mia scelta. Ora…
Ora me ne torno indietro nel truce abitacolo assegnatomi e capisco quanto sono stato stupido. Con quel gesto avrei costretto a velocizzare le pratiche, ovvero impedivo la richiesta di tangenti e conseguentemente il mancato weekend al mare ad uno dei colleghi. Per colpa della mia dabbenaggine stavo obbligando gli impiegati a ripensare tutta la filiera dell’approvazione dei documenti, affermando a causa della mia iniziativa che le venti persone davanti a me erano pigre. Con un miserabile atto gratuito a favore del richiedente, stabilivo vi fosse da qualche parte un diritto del consumatore, cioè tradivo il mondo che m’aveva accolto per non realizzare quanto potevo o sapevo fare. L’aver usato l’intelletto per risolvere al meglio una situazione altrimenti fastidiosa per il cittadino rivelò una mia malleabilità, una capacità di svolgere anche mansioni che non dovevo saper svolgere. Insomma, mi ero comportato da perfetto ingrato.