«L’invecchiamento […] è una regione di vita desolata, priva di ogni ragionevole consolazione, non ci si dovrebbero fare illusioni. […]. Invecchiando diveniamo estranei al nostro corpo, e al contempo più intimamente legati alla sua massa inerte di quanto non lo siamo mai stati. Quando abbiamo superato il culmine della vita, la società ci vieta di progettare noi stessi, e la cultura si trasforma in un fardello che non comprendiamo più e che anzi ci fa capire che, essendo noi dei ferri vecchi dello spirito, il nostro posto è tra i rifiuti dell’epoca»

Jean Amery, Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, pp. 148 – 149

 

L’avventura, ovvero il mondo, l’orizzonte in cui avviene un racconto, non è un modello sempre uguale, una regola prestampata a cui ci si deve adattare giocoforza. Esistono vicende in cui la velocità e il ritmo sono la parte essenziale, altre che hanno nella storia stessa, nel contenuto oppure nei personaggi il fulcro della narrazione. È perciò complesso stabilire un legame univoco tra gli elementi della narrazione e la presenza dell’avventura in quanto sentimento che spinge e sostiene il lettore/spettatore. Eppure, a volte, ci si rende conto che questo sentimento, questo moto(re) della storia non è altro che un velo, più o meno trasparente, uno strumento usato dall’autore come leva per accedere all’attenzione di chi guarda o legge. È facile incontrare questo meccanismo, ad esempio, nel bistrattato mondo Marvel, dove gli X-Man sono l’emblema di una lotta senza quartiere contro ogni forma di discriminazione, così come Tchalla e il suo Wakanda rappresentano la riscossa degli afroamericani. Per restare ai classici, si potrebbe impostare un’analoga analisi per quanto riguarda Jack London. In ogni caso, per giungere al film di cui stiamo parlando, questo è proprio quanto succede in Indiana Jones e il quadrante del destino.

Film dalla storia difficile e travagliata, vede cambiare nel corso degli anni diversi produttori, registi e ben cinque sceneggiatori. Nei fatti l’ultima fatica di Harrison Ford è costretta a partire in salita, avendo alle spalle un flop sia di critica che di pubblico qual era stato il precedente Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, per quanto quest’ultimo fosse di ben quindici anni prima. Appare evidente quanto possa essere stato complesso – in queste condizioni, e con un attore principale ormai decisamente troppo avanti con gli anni per il ruolo – costruire una storia dotata di una certa coerenza e che mantenesse il legame con i quattro capitoli precedenti.

Il risultato è solo in parte riuscito, da questo punto di vista, ma ciò dimostra solo che né Spielberg né Lucas, né tantomeno Harrison Ford avessero questo obiettivo. Non parlo del regista nominale perché nei fatti è poco più di un prestanome rispetto alle figure monumentali che hanno costruito la storia di questo brand. La critica, anche quella buona, lamenta difatti ad alta voce come il film sia solo un pallido fantasma dello spirito e dello slancio che Indiana Jones ha dimostrato nei primi film. Come si legge ne I 400 calci

«[…] dovrebbe essere un film sul tempo – tutto pieno di orologi e riflessioni dentro e fuori lo schermo, fino al macguffin di turno che è una vera e propria macchina del tempo – ma lo sviluppa così male, e senza arrivare a nessuna conclusione veramente significativa, che alla fine sembra più che altro un film sulla vecchiaia, la sua inesorabilità, la fredda certezza che presto o tardi prima la sfiga e poi la morte arriverà per tutti. Che è verissimo, eh? E non dico che non si possano fare film anche su quello, ma forse non è proprio la prima cosa a cui mi va di pensare quando compro un biglietto per qualcosa che si chiama Indiana Jones».

Il valore del film – e questo stralcio di recensione lo dimostra perfettamente – sta proprio in ciò per cui viene criticato. Chi cercava un film nello stile che decenni fa ha reso famosi Spielberg, Lucas e Ford ha sbagliato sala. Vittime della loro stessa nomea, i tre cineasti hanno cercato di mostrare come il passato sia stato una fantasmagorica finzione. Bella, perfettamente riuscita, ma sempre ben lontana da ciò che realmente succede nella vita di ognuno di noi, anche in quella di Indiana Jones.

La prima parte, in cui Ford viene ringiovanito sia attraverso le tecniche di de-aging sia con l’utilizzo di inserti presi da Star Wars e dai precedenti film, è quella più apprezzata da chi cercava un film di Indiana Jones, ma è in realtà quella più finta, e difatti perde di senso proprio nel proseguo della storia. Helene, la figlioccia di Indiana che ricompare dal nulla dopo dodici anni, è per lui il passato che ritorna e che si presenta alla porta, così come lo rappresenta Sallah che gli chiede di poter partire con lui per il Marocco. A tutti loro Harrison Ford risponde nello stesso modo: quel tempo è finito, ed è in questo qui ed ora che dobbiamo stare attenti, perché qui le persone scompaiono, non ritornano nel seguito della sceneggiatura. Papà Sean Connery è morto, Mutt è morto, Marion se n’è andata: il mondo non è un bel posto dove continuare a stare.

La storia inizia il 21 luglio 1969, il giorno dell’allunaggio, e il villain della storia è costruito sulla falsariga di Werner Von Braun, l’ex nazista ideatore di V1 e V2 e poi a capo del progetto spaziale americano. Senza sbilanciarsi, ma senza false ipocrisie, nel film da un lato si conferma il ruolo avuto dalla CIA e in generale dai servizi americani nel salvataggio di molti gerarchi nazisti, riciclati in luoghi e modi consoni al neonato mondo americano. Il figlio di Indiana muore in Vietnam per difendere quel paese che si comporta verso il resto del mondo nei modi che lui ha sempre combattuto. Indiana approfitta proprio di una manifestazione antigovernativa per provare a fuggire agli uomini della CIA in combutta con i nazisti. Ancora una volta il passato ritorna – la guerra con i nazisti – ed è tutt’altro che piacevole. La stessa Helena è una imbrogliona, una truffatrice che vive di espedienti nonostante l’ampia cultura ereditata dal padre. Forse riguardo questo passaggio, visto che lei si paragona spesso al giovane Indiana, ci si potrebbe interrogare sul valore di quel sapere che nei primi film sembrava una certezza monolitica, in grado di vincere ogni battaglia, di affascinare gli uomini, e che ora appare solo come il rifugio di un vecchietto noioso e stanco. Gli uomini vanno sulla Luna, pare dire il professore in pensione, ma si trascinano dietro quello che sono, nel bene e nel male.

È come se Helene vivesse in un vecchio film di Indiana Jones, ed è di Harrison Ford il compito di riportarla in quella realtà da cui lei sta fuggendo, mostrandole la dialettica sempre presente tra passato e futuro. Lei, in fuga dalla memoria del padre morto, deve accettare le proprie origini, così come lui si è scontrato con la preponderante figura di suo padre, e ora deve fare i conti con ciò che di peggio può succedere a un uomo: la morte del figlio. L’unico che in fondo pare appartenere al suo stesso mondo è Jurgen Voller, il nazista, che combatte perché il passato torni, e in questo senso vive il dramma del tempo che scorre senza tornare: «cosa devi a questo mondo?», gli chiede, a questo mondo che non ci vuole. Come diceva quella critica negativa, il film è una triste e commovente parabola sull’invecchiare, sul dolore della vita e su un mondo chi non ti senti più tra le mani.

Infine, il tesoro. Qui l’anello di Gollum, l’oggetto ambito non è un oggetto soprannaturale, non c’è nessuna arca, Sacro Graal, nessuna civiltà aliena, anzi la lancia di Longino è dichiaratamente fin dall’inizio un falso, perché è solo una questione di matematica, di scienza. L’Antikhytera è un prototipo di un computer, e apre la porta al grande fantastico del nostro tempo: i viaggi nel tempo. La storia raccontata è sostanzialmente vera: la nave romana fu trovata da dei cercatori di spugne e a tutt’oggi è visibile al Museo Archeologico di Atene. Sappiamo con certezza che l’ultimo utilizzo della macchina è stato il 23 dicembre del 178 a.C., mentre non abbiamo prove del suo legame con Archimede, sebbene un articolo del 2010 lo colleghi proprio all’assedio di Siracusa. In ogni caso per noi quello che conta è il suo valore simbolico, in un film dove ogni parola è centrata sul tema del tempo che scorre inevitabile, sottintendendo una concezione lineare dello stesso, la comparsa di una macchina, l’oggetto più umano possibile, che ci riporta in un mondo dove il tempo torna, arcaico e circolare, è totalmente dirompente.

Harrison Ford, dopo aver raccontato a Helene cosa succede a restare nel peggiore dei mondi possibili, chiede ad Archimede – in un dialogo commovente – di poter fuggire da quel mondo che non lo vuole e che lui non vuole più.

Sarà solo la violenza, un pugno, sebbene a fin di bene, la perdita della coscienza, l’essere tramortito, a riportarlo in quel mondo dove è solo un vecchietto senza più nulla da fare, tranne la maschera del suo personaggio. In un mondo costantemente alla ricerca dell’eterna giovinezza, forse avrebbero dovuto avere il coraggio di lasciarlo a Siracusa.

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Immagine di copertina:
sala del tesoro del naufragio di Anticitera, Museo nazionale di archeologia di Atene.