[Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto dell’Introduzione al volume Perché non sono femminista di Rachilde, tradotto e curato da Francesca Sensini].

Alla fine degli anni Quaranta, in un’intervista alla radio francese, Rachilde, già molto anziana, si chiede, quasi parlando ad alta voce con sé stessa: «E ora… che cosa resterà di noi?». Alla domanda segue la fulminea risposta: «Niente… niente!». La sua voce stridente e insieme sicura – le voci di certe misteriose vecchie che appaiono nelle fiabe, di cui non si sa mai se è bene fidarsi o meno – sembra compiaciuta di un tale verdetto, conferma e punizione del suo straordinario orgoglio. E continua: «E cosa inventeranno su di noi? Perché sicuramente si inventeranno delle cose…» L’intervistatore fa eco: «sicuramente». E Rachilde esprime un desiderio: «Comunque preferirei che non inventassero troppo».

In effetti, di Rachilde resta l’invenzione di un personaggio e poco altro nella grande storia – la storia ufficiale, condivisa – della letteratura europea; a fronte delle sue molte opere e del suo durevole successo, resta poco o niente più che un odorino di zolfo, elemento che la lingua francese associa alle personalità diabolicamente controverse, sulfureuses appunto. Non si fa quasi mai il nome di Rachilde senza ricorrere a questo aggettivo.

Resta il fatto che Rachilde è scivolata, e oramai incastrata, tra gli autori cosiddetti minori, confusa nella folla della Parigi equivoca, nevrotica, eccessivamente decadente della fine secolo (scorso). Un critico come Mario Praz, nel suo saggio The Romantic Agony, le antepone nomi come Karl-Joris Huysmans, Auguste de Villiers-de-L’Isle-Adam, Josephin Péladan, Jean Lorrain. Egli sostiene che, mentre questi autori avrebbero elaborato in profondità l’immaginario simbolista, la scrittrice si sarebbe limitata a ripetere superficialmente gli stessi argomenti, producendo a ritmo sostenuto romanzi sensazionalistici, destinati ad alimentare lo scandalo legato al suo nome. Così la liquida. Maurice Barrès la definì una «vera curiosità di Parigi». Era il 1887. L’etichetta è rimasta.

Chi legge oggi Rachilde? Forse solo gli appassionati di simili curiosità e, a partire dagli anni 1990-2000, anche gli studiosi di Gender Studies e Queer Studies. Tuttavia, solo un corpus ristretto dei suoi scritti è oggetto di analisi, Monsieur Venus in testa. Sono i temi dell’identità sessuale fluida, dell’inversione dei generi e delle perversioni sessuali a catalizzare interesse. Tuttavia, l’opera di Rachilde non può essere ridotta a questi aspetti, per quanto rilevanti, senza limitarne il significato e impedirne una valutazione critica circostanziata.

Rachilde è una scrittrice francamente brillante, variegata nelle ossessioni; la sua narrativa è un’originale testimonianza della letteratura simbolista e fantastica di fine Ottocento, con il suo repertorio condiviso di intemperanze baudelairiane, manie e perversioni e, insieme, con interessanti specificità. La sua prosa alterna la brevità affilata, la formula radicale, a volte un po’ cinica, che non lascia fiato per le repliche, autorevole per acume e autoritaria per impertinenza, ai lunghi periodi barocchi, alle pause fantasticamente descrittive, di un luogo, di un corpo, di una psicologia, di uno stato d’animo; forse quest’ultimi davvero poco digeribili per lo stomaco di un moderno lettore medio, abituato oggi a gradire, generalmente, testi lineari, magari anche sciatti purché agili e consumabili senza troppo sforzo, evitando spaesanti sorprese. Rachilde, in effetti, serve pietanze particolarissime per stomaci forti; e non solo in termini di sintassi, di lessico, di immagini, di stile. Perché non sono femminista, nella sua prima traduzione italiana, ne offre una prova relativamente al tema, controverso, e al taglio con cui vien affrontato.

Rachilde, Perché non sono femminista

Rachilde è uno pseudonimo letterario maschile. Il vero nome della scrittrice è Marguerite Eymery (1860-1953). Rachilde è un fantasma, sotto più di un aspetto. Il nonno materno della scrittrice, Urbain Feytaud, era un appassionato di spiritismo, fatto non troppo inusuale per l’epoca. Un giorno, intorno a una table tournante, durante una seduta spiritica casalinga, la giovane e scettica Marguerite vive un’esperienza inattesa: un gentiluomo svedese del XVI secolo, Rachilde, le si rivolge dall’aldilà, raccontandole la vita alla corte di Giovanni III. Da questo spettro tutelare la scrittrice deriva il suo nome.

Fin dall’inizio, dunque, nella vita di Rachilde, il maschile fantasmatico, del desiderio, e il femminile reale, del corpo avuto in sorte con tutto il corollario di limitazioni, condizionamenti, di pregiudizi, subiti ma anche da lei introiettati – la biologia come destino – si intrecciano, confondendosi in un’ambiguità che non intende chiarirsi all’interno di un rigido schema binario, o maschio o femmina. Il maschile è il segno socialmente esibito di una singolarità a cui la scrittrice non vuole derogare. Per questo sceglie di scrivere sul biglietto da visita Rachilde, homme de lettres, di indossare abiti da uomo, di tagliarsi i lunghi capelli di cui non sapeva francamente che fare, di accompagnarsi con donne, sottobraccio, in occasioni pubbliche, di sposarsi con un uomo. Il femminile è un conflitto aperto nell’infanzia, un mistero.

In realtà, Rachilde non presume nulla, rappresenta fantasticamente. Mademoiselle Baudelaire, come la chiamava Maurice Barrès, Mademoiselle Salamandre, come la definì Jean Lorrain, è anche una Signorina Freud, capace di rovistare sapientemente nel rimosso del soggetto, femminile, maschile, nelle crepe del Disagio nella civiltà al volgere dell’Ottocento, sistemandolo in racconti perturbanti, sorprendenti, crudeli, su cui aleggia come un sorriso sospeso, mefistofelico e gattesco, che in fondo rassicura. Così, elegantemente compiaciuti, essi liberano con arte un immaginario indicibile, fornendo, pur senza volerlo né pretenderlo, elementi di risposta alle ragioni del disagio messo a tema dal medico austriaco.

È sempre nella prefazione di À mort (1886) che Rachilde ci dà notizie della sua nascita, parlando di sé alla terza persona; parlando, in realtà, di un luogo e di un’atmosfera, presagio del suo carattere e dei suoi segreti:

«La Signorina Rachilde nacque nel 1860 nella dimora del Cros (che vuol dire «buco» nel dialetto locale) tra Château-l’Evêque et Périgueux. Il Cros era una proprietà umida intorno a cui crescevano troppe pervinche, troppa edera, troppa vigna selvatica, troppi salici e troppi tartufi. Davanti alla casa, uno stagno con delle rane; dietro la casa, fattorie piene di bambini poco legittimi e poco puliti. Nel giardino, l’umidità impediva alle fragole di maturare, un animale che nessuno vedeva mai si mangiava i ravanelli e le mucche della stalla, se si smarrivano nel giardino, non davano più latte. Le marmellate di ciliegie, chiuse nel loro barattolo, facevano la muffa dopo quindici giorni; in compenso, piante di avena selvatica si agitavano ovunque con l’altera insolenza di regineschi pennacchi. Rachilde venne al mondo in una stanza del “Buco” di fronte allo stagno paludoso delle rane, dal lato delle piante di avena selvatica».1

La scrittrice nasce nella regione storica del Périgord, nel sud-ovest della Francia (oggi più o meno coincidente con il dipartimento della Dordogna), con le sue superstizioni contadine e le leggende nere, su lupi mannari e altri scherzi della natura o di dio. Suo padre, Joseph Eymery, è il figlio illegittimo di un signorotto di campagna, il marchese d’Ormoy, e di una dama di compagnia, Mademoiselle de Lidonne. Dopo l’ammissione alla scuola di cavalleria di Saumur, Joseph si arruola per la campagna d’Africa e combatte in Kabylie, distinguendosi in battaglia per il suo coraggio. Promosso comandante di una compagnia di Valenciennes, conosce la bella ereditiera Gabrielle Feytaud, fine musicista, temperamento frivolo e malinconico. I due si innamorano. Malgrado la differenza di discendenza e di ricchezze, i genitori di Gabrielle acconsentono al matrimonio, cedendo all’inflessibile volontà della figlia.

La coppia di innamorati è molto mal assortita: un soldato fascinoso, dongiovanni, appassionato di caccia, amante della vita all’aria aperta, e un’aristocratica orgogliosa, versata nell’arte, aspirante a un’esistenza elegante e mondana, glaciale nei modi ma accesa nella fantasia. Finiranno per odiarsi. In particolare, Gabrielle odierà nel marito l’umiliazione di una vita sprecata oscuramente nella campagna sinistra che circondava, come la foresta di rovi della famosa fiaba, la dimora del Cros.

Trascurata dai genitori, Marguerite viene cresciuta dalla nutrice Lala e non riceve nessuna istruzione regolare, in quanto femmina. Dopo la guerra franco-prussiana del 1870, il padre lascia l’esercito per ritirarsi al Cros. Colpito da sordità e sfigurato dal vaiolo, contratto durante un periodo di prigionia ad Amburgo, si ripiega su se stesso, dedicandosi esclusivamente alla caccia e alla cura della sua muta di cani. Tratta Rachilde come un maschio, insegnandole ad andare a cavallo e a maneggiare con destrezza le armi. La figlia ammira nel padre l’eroe da romanzo, la sua sfacciata libertà, le sue imprese guerresche. Non comprende la madre, che suona, ricama e lascia andare in malora tutto il resto. Gabrielle vive come sepolta, deperendo e rimuginando la sua vita mancata, persa in gelosie e recriminazioni a cui il marito oppone il silenzio o la fuga.

A quindici anni tentano di darla in moglie a uno degli ufficiali del padre, Jacques de La Hullière. Al suo fermo rifiuto i genitori rispondono con la reclusione in un convento del Périgord, fino ai suoi diciotto anni. Quando esce, sempre determinata a non cedere al matrimonio, tenta di togliersi la vita gettandosi nello stagno del Cros. Suo padre riesce a salvarla ma per poco. Così comincia la sua libertà: la ragazza parte per Parigi.

Arrivata nella capitale con il desiderio di vivere della sua penna, questa provinciale eccessivamente pallida, minuta, dai grandi occhi gravi, mutevoli, tra il grigio e il verde, piena di vita e di energia, incuriosisce e seduce. All’epoca le letterate a Parigi si contavano sulle dita di una mano. Nella giungla della stampa periodica, Rachilde si fa strada con caparbietà, vivendo da bohèmienne. La scrittura rende poco, la ragazza conosce la povertà ma non vuole aiuti dalla famiglia d’origine. Dopo un periodo di malattia, la scrittrice si rimette in piedi e decide di affrontare con maggiore risolutezza le sue difficoltà finanziarie. Vestirsi da “letterata” costa troppo. Nel 1885 otterrà dal Prefetto di Parigi il permesso di andare in giro in abiti maschili, molto più economici e pratici.

Intanto, frequenta assiduamente il Café de l’Avénir, che odia per il troppo fumo ma adora per la gente. Vi conosce Paul Verlaine, Victor e Paul Margueritte, Jean Moréas, Jules Renard e altri. In due settimane di lavoro assoluto, tagliata fuori dal mondo, scrive Monsieur Venus, secondo romanzo e suo grandissimo successo. Il Signor Venere racconta la storia di Raoule de Vénérande, una giovane aristocratica stravagante, esasperata dalle convenzioni e dalla sua condizione di donna, e del suo amore per un umile ed efebico fiorista, Jacques Silvert. La donna lo sceglie come amante ma impone, nella coppia, un’inversione dei ruoli e dà al rapporto tutte le forme di una dominazione assoluta. Alla rivolta contro l’ordine naturale, segue la rivolta contro l’ordine sociale: la nobile osa sposare il plebeo. Nel quadro di un tale stravolgimento, Jacques finisce col perdere controllo su di sé: umiliato, drogato, pervertito dal lusso, diventa il prostituto (anzi, la prostituta) di Raoule e muore in un duello da lei provocato. Dopo la sua morte, la vedova, in abiti a volte maschili, a volte femminili, adorerà un manichino di cera modellato ad immagine di Jacques.

Il libro esce nel 1884 per l’editore belga Brancard (il Belgio era considerato allora il paese della libera espressione “pornografica”). Ed è subito scandalo: il libro è ritirato, Rachilde condannata a una multa di duemila franchi e a due anni di prigione (a cui sfugge evitando di valicare nuovamente la frontiera). La Procura di Parigi ordina la perquisizione del suo appartamento al 5 di Rue des Écoles per sequestrare gli esemplari del libro (Jean Moréas la aiuta nascondendo nel suo armadio duecento copie dell’opera).

La reazione più diffusa è la sorpresa: com’era possibile che una ragazza di ventiquattro anni, di buona famiglia, così poco esperta della vita, avesse prodotto un romanzo tanto scandaloso? C’è persino chi la accusa di aver inventato un nuovo vizio. A questa affermazione Verlaine reagisce dicendole: «Ah, cara bambina, se aveste inventato un vizio in più, sareste un benefattore dell’umanità». Anche se le porte di diversi salons parigini le vengono chiuse e le letterate alla moda la biasimano, descrivendola come un mostro, Rachilde esce finalmente dall’isolamento e viene accolta nella cerchia simbolista del Lutèce, delle Soirées de la Plume. L’incontro con lo scrittore e giornalista Alfred Vallette fu molto importante, dando vita a un sodalizio di lavoro e di vita molto fruttuoso. Vallette si innamora. Rachilde imparerà ad amarlo più tardi, dopo il matrimonio, avvenuto nel 1889, come lei stessa racconta nelle sue memorie.

Nel 1890 i due fondano la rivista Mercure de France insieme a una casa editrice destinata a pubblicare le opere di nuovi scrittori. Accanto al discreto Vallette, l’assai meno discreta Rachilde regna per trent’anni su Parigi. Oltre alla sua attività di critica letteraria, è autrice oltre quaranta opere tra romanzi, racconti, pièces teatrali. I titoli suggeriscono la qualità della sua fantasia. Accanto a quelli già citati, ricordiamo La Marquise de Sade, La Sanglante Ironie, Le Démon de l’Absurde, L’Heure sexuelle, La Princesse des Ténèbres, Les Hors-Nature, L’Animale, La Tour d’amour, La Jongleuse, La Haine amoureuse etc. La lista è lunga.

Perché non sono femminista esce nel 1928. Rachilde risponde alla domanda evitando le teorizzazioni, che non le appartengono, e affidandosi alle proprie esperienze come al solo materiale di analisi credibile, da cui può trarre qualche riflessione, ancorché parziale:

«Ho vissuto molto, bene o male, e posso condividere, in queste pagine, il risultato delle mie esperienze. Lo farò dunque con cognizione di causa. Mi prendo questa libertà, dato che rappresento, malgrado me stessa, una delle prime femministe della mia epoca».

Malgrado certe sue dichiarazioni e provocazioni, l’autrice di Perché non sono femminista sta dalla parte delle donne. Perché non sono femminista è un discorso libero, aperto, quasi a una conversazione con il lettore. Il moralismo che a tratti emerge ha più a che fare con la logica che con le convenienze. Il fatto è che Rachilde non ha smesso, neanche nel 1928, ormai anziana, di rovistare nel rimosso comune, senza fare concessioni a nessuno, neanche a se stessa.

In queste pagine, in particolare, riflette su un processo di emancipazione che corre a grande velocità senza una meta anche solo abbozzata e, soprattutto, senza aggredire le strutture profonde, psicologiche, che tengono le donne al di qua del confine della loro stessa liberazione, a dispetto delle pose esteriori, del lavoro fuori casa, della possibilità di uscire, fumare, bere almeno quanto gli uomini. Considera i recenti cambiamenti della condizione delle donne nella società, evoca le due figure femminili che hanno segnato la sua vita, la madre Gabrielle e la nonna materna, Isaline, ricorda la sua educazione, la sua difficile e sofferta singolarità e il desiderio di essere un maschio, proprio come suo padre avrebbe voluto:

«Non ho mai avuto fiducia nelle donne: l’eterno femminino mi aveva precocemente ingannato indossando la maschera materna. E non ho neppure fiducia in me stessa. Ho sempre rimpianto di non essere un uomo, non perché stimi di più l’altra metà del genere umano ma perché, obbligata com’ero, per dovere o per inclinazione, a vivere come un uomo, a portare avanti da sola la parte più pesante dell’esistenza durante la mia giovinezza, sarebbe stato preferibile avere i privilegi di un uomo, non potendone avere l’apparenza».

Dentro questo discorso, Rachilde non è esempio di nulla. Il suo è un caso dolorosamente eccezionale, un errore che non consiglia di ripetere. Facendosi un po’ di morale, afferma: «Desiderare la propria libertà per scrivere Monsieur Vénus, è, io penso, il colmo dell’indecenza». È così, ambiguamente e indisponentemente come è vissuta, che Rachilde ci offre il suo impertinente pamphlet.

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Note:

1) Cito e traduco da Melanie Hawthorne, Rachilde and French Women’s Authorship: From Decadence to Modernism, University of Nebraska Press, 2001, p. 16.