Claudia Boscolo

Ciò che rende veramente unica e irripetibile l’esperienza di Cormac McCarthy è la possibilità che gli ha offerto la sterminata provincia americana di occultarsi, sfuggire, sottrarsi ai meccanismi imposti dalla fama.
La richiesta continua, che possiamo immaginare assillante, di interviste, inviti a partecipare a, esprimersi su, commentare, analizzare. E da argomentare in questi due decenni di storia degli Stati Uniti ce ne sarebbe stato molto, soffrendo di presenzialismo: dal primo presidente afro-americano all’involuzione del trumpismo, dall’inasprimento del conflitto sociale fino a un tema a lui caro, quello della frontiera, dei confini che impediscono ogni giorno a centinaia di persone di transitare in un territorio un tempo aperto, di passaggio. Avrebbe potuto contribuire molto al dibattito pubblico, se solo avesse voluto. Se non fosse stato un eremita.
La condizione di romitaggio per un intellettuale contemporaneo costituisce un privilegio. Per realizzarla sono fondamentali alcune premesse: innanzitutto il paesaggio, poiché è necessario un luogo per il ritiro che sia sostanzialmente irraggiungibile. Non che McCarthy vivesse nella foresta, ma aveva fatto della sua Santa Fe (una cittadina più piccola e marginale di Trento, con i suoi quasi 85 mila abitanti e la sua collocazione geografica) un perfetto retreat, e del Santa Fe Institute un luogo di ricerca perfetto, tanto indipendente quanto fertile.
È difficile non vedere in quella di McCarthy una vita ideale, scarna, priva di tutto il glamour che garantiscono la fama mondiale e i proventi di film di successo tratti dai propri romanzi.
Questo monaco della letteratura possedeva una qualità molto antica, che si è persa e che con ogni probabilità non è replicabile, perché manca la conditio sine qua non per replicarla, che è il rifiuto della fama.
Soprattutto, è molto improbabile che in un continente come l’Europa – asfittico, limitato, marcescente, stritolato fra due mondi molto più grandi, dinamici e aggressivi, e soprattutto cristallizzato nell’adorazione del proprio passato – sia possibile trovare un McCarthy.
Chi ha ancora interesse per il romanzo si può accontentare di ciò che offre il mercato, dato che di letterati che desiderano stare fuori dal sistema sostanzialmente non ne esistono. Ci vogliono una forza d’animo e una chiarezza di visione assolute, come quelle che aveva Cormac McCarthy, per tenersi alla larga dalle lusinghe effimere e dalle carezze all’ego offerte dalla fama. Eppure ciò che resiste al tempo è spesso carsico, decanta negli interstizi ed emerge con grande ritardo rispetto all’esperienza di vita. Di McCarthy si può dire che è stato un maestro in tutto, nella scrittura e nella pratica di vita, e per questo va studiato con la lentezza che richiede ogni grande insegnamento.

Luca Giudici

Gli studi sui legami di Cormac McCarthy con i suoi colleghi scrittori accendono i riflettori soprattutto su Melville e Faulkner. Con quest’ultimo in particolare condivise per molti anni l’editor, Albert Erskine. Per carattere e stile di vita inoltre fu spesso avvicinato – come disse ad esempio Harold Bloom – a Pynchon, Salinger e Roth. Pochi però ricordano la venerazione di cui McCarthy è oggetto da parte della generazione di William Gibson e degli autori di Speculative Fiction. Nel corso degli anni sono state diverse le interviste in cui l’autore di Neuromancer dichiara la sua ammirazione verso di lui, che in più occasioni inserisce nelle liste dei libri da cui è stato influenzato e che consiglia di leggere. Gibson lo affianca spesso a William Burroughs, che per lui è un altro autore fondamentale e un punto di riferimento. Meridiano di Sangue, fra tutti, nella sua glaciale visione dell’etica, viene in più occasioni indicato come il testo centrale dell’opera di McCarthy. Tra i due non vi sono particolari affinità stilistiche o di genere, escludendo, se si vuole, l’ambientazione distopica di The Road, ma nella lettura di Gibson traspare continuamente la conoscenza dell’opera di MaCarthy, e il senso di affinità che ha verso di lui. Credo che questa sensazione si abbia in modo particolare nelle ultime opere, The Peripheral e Agency, dove il North Carolina in cui vivono i protagonisti è un mondo assolutamente mccarthyano, sia per la violenza che lo pervade sia per la riflessione sull’american way of life che viene imposta al lettore. Quest’ultimo aspetto in particolare è la chiave per una lettura politica di entrambi, che si deve fondare sulla visione di un mondo complesso, irriducibile a slogan, bandiere, etichette, generi di ogni tipo. La politica è – o almeno potrebbe essere – l’estrazione dell’uomo dal caos, e lo stesso vale per la scrittura, dato che la scrittura creativa così come quella commerciale e accademica sono, nella migliore delle ipotesi, una truffa. E così, come i macchinari che in certe opere di Gibson assemblano ininterrottamente frammenti, rifiuti, oggetti apparentemente insignificanti, per produrre novum, creazione, mondo, nonostante la feroce opposizione delle immense zaibatzu, multinazionali grandi come pianeti, così nel mondo di McCarthy sono gli individui apparentemente più deboli e marginali, a cui si oppone l’enormità di personaggi come il Giudice Holden, a incarnare la quotidiana sofferenza, la resistenza disperata di fronte al caos del cosmo. In fondo, come recita il tweet di saluto che William Gibson ha dedicato al maestro scomparso, «I’ve felt like Cormac McCarthy was already immortal since the day I first read him.»

Claudio Kulesko

Quando si scrive, vi sono due modalità fondamentali di gestione dello spazio narrativo. Nel primo caso, si può scegliere di far muovere i personaggi all’interno di un ambiente; nel secondo, è possibile – seppur estremamente difficile – far sì che non siano i personaggi a muoversi ma l’ambiente stesso, il mondo con il suo carico di complessità. In quest’ultimo caso, si tratta di raffigurare il movimento reale in tutta la sua pluralità, le sue differenze prospettiche e la sua serie innumerevole di astrazioni concrete: il vento, il mare, la terra, il commercio, la scienza e via dicendo. Queste due modalità rappresentative incarnano le due prensioni fondamentali della nostra specie: il soggetto, da un lato, e l’oggetto, con i suoi misteriosi moti interni, dall’altro.
Cormac McCarthy è stato uno dei più grandi maestri e propugnatori di questo stile grandioso, indifferente, spietato e inumano.
Quando, nella scena del ponte, Anton Chigurh, in Non è un paese per vecchi , spara al piccione dall’interno della sua auto, si dispiega – in quel supremo istante Kierkegaardiano – uno stravolgimento cosmico che piega il destino individuale a una forza suprema che viene dall’esterno. Le ipotesi che si possono ricavare da questa scena escludono, in ogni caso, il predominio dell’agency umana: o è la sorte, il puro caso (tanto amato da Chigurh) a far sì che l’uccello possa volare via indenne; o è un’entità di ordine superiore, che osserva e dirige gli eventi del mondo, negando a priori il caso stesso. L’abisso di oscurità che divide queste due ipotesi, così lontane l’una dall’altra per natura e scopo, è l’ignoto.
L’ignoto – il caso, la sorte, il destino, la morte – è tutto. Nel sogno dello sceriffo Bell, che giunge alla fine del massacro, è concentrata l’anticipazione di qualcosa che oltrepassa la comprensione dell’essere umano. L’ignoto avvolge ogni azione umana e permea il paesaggio, lo rivitalizza e lo anima.
In The Road, il potere del fato si confonde con i dettami di una morale che giunge, al contempo, dal fondo del cuore umano (l’anima, la “cittadella interiore” di Agostino) e da un Fuori in grado di oltrepassare e dominare la natura. Il fuoco interiore, che non cessa di ardere e sospingere individui e comunità diasporiche, è qualcosa che riusciamo solo a intravedere nelle parole dello sceriffo Bell, nella fine di Chigurh o nel disperato tentativo del Ragazzo, in Meridiano di Sangue, di sfuggire alla rovina. Ma esso è sempre presente.
È proprio Meridiano a fare da spartiacque all’opera del grande cantore del paesaggio americano. Nel campo di morte generato dall’azione combinata del deserto e della guerra – il colosso inorganico-tanatropico di cui il Giudice Holden si fa portavoce – si profilano flebili linee di fuga: traiettorie spezzate, interrotte, segmentate. E quando il Ragazzo si spegne nel gioviale e tuttavia distruttivo abbraccio del Giudice, è l’umanità stessa a scomparire con lui, in un gorgo di tempeste di sabbia e polvere da sparo. Ma non è ancora la fine.
Tutta l’opera di McCarthy, in fondo, rappresenta un tentativo di guidare l’essere umano attraverso il caos, verso la redenzione. Una redenzione che non passa per le paludi del silenzio e della morte (come qualcuno ha insinuato nel corso degli anni) ma lungo gli aspri margini del dolore e della sofferenza, tra deserti e canyon infuocati, al limitare di una moralità sacra e totale che, dallo spirito umano, si espande al paesaggio e agli ecosistemi non umani.

Francesco Mattioni

Cormac McCarthy è morto. Le mappe che ha tracciato lungo i suoi romanzi sono vive. Pulsazioni vitali in tensione tra waste land e giardini incontaminati, tra mondo-per-noi e pianeta-senza-di-noi, in miriadi di intarsi ineffabili tra esseri, materie e ambienti. Incarnazioni di paesaggi. Le pagine di McCarthy sono così. Paesaggi vivi di parole, pietre, respiri, crepe, luce e profondità. Mappe di territà in divenire. Mappe viventi le cui curve schizomorfe si muovono secondo le pulsazioni delle vene sotto il palmo della mano o secondo le torsioni delle squame multicolori dei salmerini e delle iridi di balene.

«She patted his hand. Gnarled, ropescarred, speckled from the sun and the years of it. The ropy veins that bound them to his heart. There was map enough for men to read. There God’s plenty of signs and wonders to make a landscape. To make a world.» [Cities of the Plain]

Queste mappe minerali di creature in cerca sono segni di vita che evocano visioni poietiche, cosmogonie selvagge, geodesie maieutiche embricate nel mistero e nella complessità del mondeggiare. Le superfici ondivaghe com-prendono l’abisso come il manto fuori scala spazio-tempo-cognitiva della caverna è una traccia estatica in movimento dei pensieri dell’uomo-Pianeta. E solo ciò che è fragile può manifestarsi tragicamente mutando il senso del tutto. Il mostro nel sogno del Padre all’inizio della Strada è una biomappa. Un’emersione nel visibile di interiora, cuore e cervello. E dell’intenzione di non fare del male. Un’eversione salvifica di bias speciespecifici. Il mostro mostra senza maschere di essere come noi. Meglio di noi. Il Graal dell’Antropocene è il Figlio-troll sotto l’arco del ponte, il cui balsamo divino non è l’umanità, ma l’ospitalità. Accogliere l’altro e essere sempre altro da accogliere. Desiderare le corrispondenze. Cercare modi per rimembrare e modi per proiettare, come suggerisce Tim Ingold. Tra consunzione, emersione e infestazione del tempo, immaginare futuri possibili. Non solo per sé. O per il sangue del proprio sangue. Ma per comunità multiformi.

«I believe that we are arks of the covenant and our true nature is not rage or deceit or terror or logic or craft or even sorrow. It is longing.» [Whales and Men]

All’inizio di Stella Maris c’è un ospizio per la cura. All’inizio del Passeggero una leggera nevicata disegna la sagoma di un cappotto tra i nudi alberi invernali. E il cadavere di una donna in una sacra invita alla preghiera.

«Like those of certain ecumenical statue whose attitude ask that their history be considered. That the deep foundation of the world be considered where it has its being in the sorrow of her creatures.» [The Passenger]

Cacciatori e monaci, sopravvissuti e prede, creature e immagini, parole e numeri in cerca del senso della vita e della morte, dell’essere e del nulla. Essere insieme attorno al fuoco. Condividere il viaggio e le storie e le ombre tutt’attorno.

«The lenses of their lamps that were made of tortoiseshell boiled and scraped and formed in a press and the fortuitous geographies they cast upon the tower walls of lands unknown alike to men or to their gods.» [The Passenger]

«Crossing the ancestral lands by foot. Maybe by night. There are bears and wolves up there. You could have a small fire at night. Maybe find a cave. A mountain stream.» [Stella Maris]

Alla fine del suo meridiano di segni, McCarthy ci insegna la lingua sconosciuta che ci muta in cose straordinarie, come il mostro innocente nella grotta del sogno.

«It would taste like music. I’d wrap myself in the blanket at night against the cold and watch the bones take shape beneath my skin and I would pray that I may see the truth of the world before I died. Sometimes at night the animals would come to the edge of the fire and move about and their shadows would move among the trees and I would understand that when the last fire was ashes they would come and carry me away and I would be their eucharist. And that would be my life. And I would be happy.» [Stella Maris]

Donarsi al mondo è la grazia più grande. Nel giusto della vita, nell’opera del mondo. Impronte fossili e stringersi di mani di fronte alla morte. Grazie Cormac per esserci per sempre nel momento che conta di più.

Elisa Veronesi

Quello che sapevamo fino al 12 giugno 2023, era che in un angolo della provincia americana, uno scrittore, dal suo bunker-osservatorio, avrebbe continuato a raccontarci il mondo. Non importava cosa sarebbe accaduto là fuori, non importava quanto stessimo affondando sotto al disciogliersi di ghiacci e fango. Presto o tardi, sotto forma di un supporto oggetto-libro, avremmo potuto ritirarci anche noi a leggere e ascoltare le storie che quello scrittore ci raccontava. Sapevamo che, nel gelo delle nostre solitudini, ci sarebbe stato un nuovo fuoco, per quanto sottile, ad animare la speranza che non tutto era perduto, che dovevamo continuare sempre a sperare.
Quello che sappiamo dal 13 giugno 2023 è che c’è stato uno scrittore che dal suo bunker-osservatorio di un’immensa provincia del sud degli Stati Uniti, ha scandagliato come nessun altro i relitti delle profondità umane. Senza clamori né troppe spiegazioni, senza perdersi nel vacuo della società delle lettere, lo scrittore, negli anni, ha fatto quello che doveva fare, ha sempre continuato a scrivere. Ha frequentato la sua comunità locale di Santa Fe, e ha intercettato ai margini della frontiera, o nel punto più lontano dell’orizzonte, dove il cielo e la pianura si toccano, le oscurità del vivente. E nell’oscurità emergono scintille, particelle luminose fino alla commozione.
Quello che sappiamo oggi è che grazie a questo lavoro meticoloso, a questa pratica costante possiamo continuare a coltivare la speranza, perché le parole restano, i supporti oggetti-libri rimangono, e la possibilità di ritirarci anche noi, senza clamori e senza troppe chiacchiere, a rileggere le parole che Cormac McCarthy ci ha lasciato. È l’occasione migliore che abbiamo in questo tempo nel quale non abbiamo risposte, ma dobbiamo partire alla ricerca delle domande.

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Immagine di copertina:
particolare dell’edizione UK di The Passenger, © 2022 Picador, London.