«La donna idealmente è madre prima di esserlo naturalmente. Madre, e perciò circonfusa di un lume divino, che la fa sacra a chi veramente l’ami e l’intenda. Madre per i figli, per i fratelli, per gl’infermi, per i piccoli affidati alla sua educazione: in ogni caso, per tutti che possano beneficiare del suo amore e attingere alla sua innata, originaria, essenziale maternità, che costituisce la fonte d’eterna giovinezza, di vita, di amore per l’uomo verso di lei attratto come verso di ciò che gli manca e di cui egli ha naturale e insopprimibile bisogno. E così la donna è confortatrice dell’uomo, che dai contrasti e dalle lotte logoratrici della vita pubblica, politica, scientifica o artistica, sente il bisogno di ritrarsi a quando a quando e rifugiarsi nella sua intimità; e va a posare il capo stanco sul dolce seno della sua donna così come il fanciullo vi cerca la forza che lo sorregga e lo salvi dal disperare nei frangenti più duri della esperienza che comincia a fare della vita. Consolatrix afflictorum con la sua materna bontà, che è dedizione di sé, abnegazione fino al sacrifizio: quell’odio dell’anima propria di cui parla Gesù, per vivere in altri. Essa è stata ben degna che fosse assunta in cielo, mediatrice tra Dio fonte prima della vita che è in noi, e noi che ne fruiamo: vergine ancora, poiché madre ella è ancora prima di aver conosciuto l’uomo; e l’uomo perciò la cerca e la desidera per la virtù vivificatrice e rendentrice di amore che già è in lei. Non è lui a renderla madre; essa è tale per sua propria virtù, per quella sua originaria natura che già noi intravvediamo in lei andandole incontro, quando essa ci saluta col suo sorriso» (Giovanni Gentile, Preliminari allo studio del fanciullo, Sansoni, 1968, pp. 96-97).1

Dietro le proteste per l’apertura della scuola alle tematiche riguardanti la sessualità e le differenze di genere, non c’è solo il timore di veder crollare quelli che sono stati finora i fondamenti della genitorialità e dei ruoli famigliari. Ben più profonda, radicata nell’atto fondativo delle civiltà a cui ha dato vita una comunità storica di soli uomini, è l’incertezza di una posizione ‘virile’ perennemente minacciata dallo stesso impianto sociale che dovrebbe sostenerla: un legame di interessi, amicizie, amori, ideali condivisi tra simili. L’esclusione delle donne dalla scena pubblica non ha impedito che il “femminile” continuasse ad abitarlo, cemento indispensabile e allo stesso tempo mina vagante all’interno di una collettività omosociale.

Le “identità di genere”, considerate destino “naturale” di un sesso e dell’altro, sono state finora il baluardo materiale e ideologico di una cultura maschile preoccupata prima di tutto della stabilità e della durata del suo dominio. Non c’è da meravigliarsi perciò se la rivoluzione delle coscienze che ha sovvertito, nell’arco di un mezzo secolo, convinzioni e abitudini ancestrali, incontra oggi la reazione agguerrita di chi vede comparire alla luce del sole ansie e fantasmi tenuti faticosamente in ombra, e mai del tutto sconfitti.

Donne single, donne che non vogliono figli e che cercano “qualcosa per sé”, omosessuali e lesbiche, travestiti, transgender e queer, a dispetto di un’educazione famigliare e scolastica che ancora stentano a riconoscere il cambiamento, hanno preso cittadinanza visibile e largo consenso nella grande piazza pubblica.

ll corpo a scuola è sempre stato presente, ma è rimasto finora il “sottobanco”, il “mare ribollente delle cose non dette” e che non riusciamo a nominare per lunga repressione, pregiudizi, paure inconfessabili da parte degli stessi insegnanti.

Portare l’educazione alle radici dell’umano è oggi l’intento, dichiarato o implicito, del discorso sulle identità del maschile e del femminile, e di conseguenza sui rapporti ambigui di amore, potere e violenza su cui si sono costruiti. Una materia enorme di esperienza, consegnata finora al chiuso delle case e delle relazioni parentali esce allo scoperto, il “fuori tema” della cultura e della storia trasmessa finora dalle discipline scolastiche diventa “il tema”.

L’esperienza della maternità, nelle sue oscillazioni reali o immaginarie, conosce un protagonismo del corpo che all’uomo è negato, e come tale si presta a essere oggetto di invidia e appropriazione da parte del sesso maschile, ma anche a essere impugnato dalla donna come arma per il proprio riscatto. Costrette dalla loro capacità biologica e dalla collocazione che la comunità maschile ha dato loro, custodi dell’intero arco della vita, le donne si sono trovate in prossimità della “dura legge del tempo a cui tutto si piega” – l’accettazione della morte, del susseguirsi delle generazioni, del ripetersi dei gesti –, la stessa legge a cui l’uomo ha continuato a opporre le sue protesi meccaniche, le sue speranze di immortalità, il suo potere di dare la morte.

Privilegio o condanna, accrescimento o perdita, la maternità resta l’epicentro della condizione umana, il “luogo” intorno a cui si può pensare che abbia preso forma il dominio maschile e la differenziazione violenta tra i sessi, l’ostacolo maggiore a ripensare i nessi tra corpo, individuo e legame sociale, fuori dai dualismi che conosciamo: femminile-maschile, natura-cultura, ecc.

Ricordare che la cultura che abbiamo ereditato è stato l’inizio del femminismo, prendere coscienza di quello che ci portiamo dentro di una cultura patriarcale millenaria. A questo sono serviti cinquant’anni di “autocoscienza”. Se è importante riconoscere cambiamenti rispetto agli stereotipi di genere, lo è ugualmente continuare a portare attenzione a ciò che resta nel tempo “invariabile”. Per questo non è inutile tornare rileggere con occhio critico gli “adoratori” ottocenteschi delle madri, Come Paolo Mantegazza e Jules Michelet, molto letti e amati dalle donne, per capire quanto i difensori della famiglia tradizionale possano ancora oggi contare su un immaginario e un senso comune diffusi, riguardo la “naturalità” della famiglia eterosessuale, così come il ruolo materno della donna. Dietro la retorica familistica, non è difficile riconoscere il fondamento sessista, razzista, colonialista di tutta la nostra cultura, greco-romana-cristiana.

Qualche stralcio da Jules Michelet, La donna (1859; ed. Liguori 1977):

«Fin dalla culla, la donna è madre, pazza di maternità. Per lei ogni cosa della natura vivente e anche non vivente, si trasforma in figlioletti».

«Sostengo che, come donna, non si salva se non facendo la felicità dell’uomo […] Deve amare e partorire, è questo il suo sacro dovere. Se non è sposa e madre, sarà educatrice, dunque non sarà meno madre per questo, e partorirà spiritualmente».

«La società procede dalla famiglia, la cui armonia è la donna. Educare una figlia, è un’opera sublime e disinteressata. Poiché tu non la crei, o madre, che affinché possa abbandonarti e farti sanguinare il cuore. È destinata a un altro. Vivrà per gli altri, non per te e non per sé».

«Per loro è sempre il desiderio. Ma per lei, anche a sua insaputa, nei suoi più ciechi slanci, l’istinto della maternità domina ancora tutto il resto».

«Natura è una donna. La Storia, che noi mettiamo molto stupidamente al femminile, è un rude e selvaggio maschio, un viaggiatore abbronzato, polveroso».

«Africa è una donna. Le sue razze sono delle razze femminili […] Quale donna amerà di più? Quella di razza diversa […] la negra adora il bianco, è la più appassionata e la più generatrice di tutte».

Da Paolo Mantegazza, Le estasi umane (Paolo Mantegazza editore, Milano 1887):

«La donna, senza maternità, fisica o psichica, può essere femmina, può essere uomo, ma non donna. La donna madre è la donna completa […] La donna che non è madre è l’eunuco del proprio sesso e l’intricato meccanismo della nostra società civile fabbrica purtroppo ogni giorno e a mille di queste mutilate».

«Feto o bambino, fanciullo o giovinetto, uomo o vecchio, il figlio dell’uomo porta sempre sulla pelle, nel cuore, nel pensiero, lembi di quel velo materno, che per nove mesi lo ha custodito e alimentato. Finché vive la nostra mamma, vene e nervi invisibili ci tengono congiunti strettamente alla placenta di lei».

«Chi osa affermare che alla donna la natura ha assegnato la parte del diseredato, non ha letto neppure la prima pagina della storia del sentimento. La maternità è tale un abisso di voluttà, è tale un mistero di sublimi travagli, è tale una missione di creazione da tenere il luogo di tutti quegli altri lavori virili, che si chiamano politica, industria, commercio, scienza, arte, ecc.».

«La mamma è la creatura che ci ha baciati per prima […] Le nostre labbra hanno restituito a lei il primo bacio, le prime mani che ci hanno accarezzato sono le sue; il primo alimento che ci ha fatto vivere la seconda vita, fu distillato dalle vene di lei, ci fu dato in quella coppa divina, che è il seno della donna».

«Essa fu la prima, essa rimarrà sempre la nostra ultima amante».

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Note:

1) Ringraziamo Carlo Saviani per questa citazione.

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Immagine di copertina:
Élisabeth Vigée Le Brun, Autoritratto con la figlia Julie (dettaglio), 1786 – Musée du Louvre