[Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore un estratto del saggio di Claudio Kulesko, Ecopessimismo. Sentieri nell’antropocene futuro, Piano B, 2023].

Claudio Kulesko, Ecopessimismo

Difficilmente la giungla evoca in noi sentimenti di affetto, quanto piuttosto l’impressione di un formidabile e implacabile nemico.

Paul Shepard, Man in the Landscape

 

15.000 a.C. – Xolotl

Fende il sottobosco correndo come un forsennato. Lo sguardo dritto, il respiro affannoso. I rovi gli artigliano la pelle delle gambe e delle braccia, aggrappandosi per un istante per poi lasciarlo andare con uno schiocco, imprimendo sulla cute il loro marchio infuocato. Un dolore sordo, lontano, quasi non appartenesse a lui ma a qualcun altro. Abbassa lo sguardo; pozzanghere di luce sfilano sotto i suoi piedi, trapelando dalla canopia e andando a depositarsi sul sentiero appena accennato. La luce, l’evidenza del visibile, che lotta corpo a corpo con l’oscurità e l’ignoto, tentando di penetrare l’enigma di quell’intrico, che lui e i suoi compagni hanno affrontato per la prima volta dopo ventidue gelide primavere. Una rete quasi infinita di sentieri inesplorati, prodotti dal costante e abitudinario transito di lupi, orsi, testuggini, volpi e istrici.

Al termine di una corta galleria composta da cespugli, intrecciati gli uni agli altri per le esili fronde, il bosco si fa ancora più fitto, fin quasi a eclissare del tutto la luce solare.

Rallenta e, di colpo, si arresta a pochi passi dal termine della galleria. Il propulsore assicurato alla cintura gli batte sulla coscia, quasi volesse rassicurarlo della sua presenza. Rammenta le corte lance nella sacca alle sue spalle, ben stretta sul dorso, così aderente all’armatura di cuoio da non emettere alcun rumore durante la corsa. Lì, soffocato com’è dall’abbraccio della vegetazione, sono del tutto inutili. Si guarda attorno, in cerca di macchie di luce. Ne individua una a pochi passi da lui, tremula sulla ruvida corteccia di un albero, al margine destro del sentiero. Si china sul tronco e poggia il palmo della mano al centro della macchia, come gli ha insegnato a fare suo padre, e come suo nonno ha insegnato a fare a suo padre prima di lui. Avverte sulla mano il tenue calore della corteccia, la benedizione della luce. Respira con il diaframma, cercando di colmare quanto più possibile l’addome; si concentra sul calore e sull’atto di respirare. Chiude le palpebre e svuota la mente. Quando riapre gli occhi, sa per certo che l’umanità non è destinata a vagare tra le tenebre della notte, o a smarrirsi in eterno tra i grovigli formati dalla vegetazione. Un giorno, l’essere umano si ergerà sul mondo, inondandolo di luce. L’occhio, il pensiero e la luce saranno una cosa sola, un sol corpo capace di bandire l’ignoto e disperdere il male. Per questo si è inoltrato nel bosco, per dimostrare a se stesso che quel tempo è vicino, più vicino di quanto pensino i saggi e gli anziani, barricati nelle loro capanne. Non crede più negli dèi, negli spiriti e nei fantasmi che popolavano le terre degli antenati, e che ancora infestano gli incubi a occhi aperti dei suoi compagni.

Nel villaggio si venerano diversi idoli, in numero sempre crescente di anno in anno. Statuette di legno, avorio o pietra, custodite da sacerdoti, in alcove situate a una certa distanza dai luoghi nei quali si svolge la vita ordinaria, e che raffigurano altrettante creature: animali, fenomeni naturali, divinità, spiriti celesti o ctoni. Per certi versi, tuttavia, sarebbe più corretto dire che esse non raffigurano tali entità, andando a costituire, piuttosto, una sorta di collegamento; qualcosa di simile a un corno svuotato, attraverso il quale si diviene in grado di farsi udire a grandi distanze, amplificando la propria voce.

Ora, mentre si prepara a immergersi nella penombra, si ritrova a pensare al più peculiare tra tutti quegli idoli: xolotl, il-senza-forma; un nome privo di qualsiasi significato, o il cui senso è andato da lungo tempo perduto. L’artefatto, del cui autore o della cui autrice nessuno ricorda più il volto e persino il nome, è posto o, meglio, “imprigionato” in una delle capanne più lontane dal centro del villaggio, al margine del bosco nel quale si è avventurato ormai da qualche ora. L’accesso al santuario è reso possibile una sola volta nella vita di ognuno, allo scoccare dei quindici anni. Il tutto avviene in una manciata di minuti, nel corso dei quali il sacerdote di xolotl si assicura che il giovane iniziato non stacchi neppure per un istante lo sguardo dall’idolo. Nonostante ciò, ben pochi ricordano il vero aspetto di quella cosa, in modo vago e confuso, quasi avessero reputato di gran lunga preferibile rimuoverne o edulcorarne il ricordo.

Si stacca dal tronco d’albero e procede lungo il sentiero, acquattandosi poco a poco, sempre più vicino al fogliame che ricopre il terreno sotto i suoi piedi. Il passo leggero, i muscoli dei glutei e dei quadricipiti tesi fin quasi a bruciare. La mano destra scivola verso il coltello di pietra agganciato al bacino, stringendosi attorno al manico d’avorio. Estrae la lama dal fodero e la punta dritta dinanzi a sé, come per affrontare un nemico invisibile. Avanza in quella posizione, acuendo i sensi all’estremo delle proprie facoltà.

Il sentiero si getta di colpo nella distesa di alberi, cespugli e arbusti, svanendo; segno che neppure i tassi e le martore possiedono abbastanza coraggio da avventurarsi al suo interno. Raggiunge il confine invisibile che separa i due tratti di bosco, e là si blocca. L’aria comincia a farsi più fresca, il terreno più umido. Richiama alla mente la sensazione del calore sul palmo della mano e immagina che si espanda lungo tutto il suo corpo. Contrae i muscoli del volto, per far sì che le palpebre si spalanchino il più possibile, costringendo le pupille a dilatarsi a loro volta. Poi varca la soglia immaginaria che separa i due tratti di bosco. Ad accoglierlo trova un intenso olezzo di funghi, muschio, vegetazione marcescente e putrefazione, accompagnati dalla tipica frescura insalubre che porta con sé nebbie tossiche e miasmi.

Resta immobile, trattenendo il respiro, guardandosi attorno cauto. Passa in rassegna le fronde degli alberi, in cerca di bestie feroci in agguato tra i rami. Poi, fa scorrere lo sguardo da sinistra verso destra, con calma, ben attento a non farsi sfuggire il benché minimo movimento, ogni sorta di difformità o anomalia cromatica tra il rigoglio dei cespugli. Per ultimo, guarda a terra, ruotando il capo in senso inverso, da destra verso sinistra, tentando di cogliere un guizzo di scaglie o il fruscio convulso di arti pelosi. Nessuna minaccia in vista, nulla di nulla. Fa troppo freddo e c’è fin troppa poca luce, persino per i figli più subdoli e crudeli partoriti dalla terra.

I muscoli del suo corpo si rilassano di colpo. Raddrizza la schiena e abbassa la mano che stringe il coltello. È solo. Eppure, non riesce a togliersi di dosso l’impressione che, lì con lui, ci sia qualcosa; qualcosa che non può essere scorto con gli occhi, né udito con le orecchie, né toccato, né annusato. Tenta di convincersi che si tratti di un effetto del costante sovrapporsi della vegetazione su se stessa, strato dopo strato, ma, per un attimo, gli balenano in mente le antiche superstizioni sugli spiriti dei boschi; il genere di storie che i ragazzi più grandi raccontano ai bambini, la sera, attorno al fuoco.

Neppure lui ricorda granché di xolotl, né della sua iniziazione ai misteri del senza-forma. Ne serba nella memoria un’immagine sfocata: una stanza buia, illuminata da una piccola candela rotonda, fatta di grasso; in cima a un alto ceppo spiccava un miscuglio di diversi materiali ‒ legno, pietra, osso, quarzo, argilla, cartilagini ‒ innestati l’uno sull’altro, in un ammasso che a tratti rimanda a un animale, a tratti a una pianta, a tratti a un essere umano stilizzato o persino a una concrezione di tipo minerale, a seconda dell’angolazione e del punto di vista che si è scelto di occupare.

Si riscuote e avanza di un passo con il piede destro, come per lasciarsi alle spalle quel pensiero per mezzo di un atto di pura determinazione. La suola del sandalo affonda nel morbido tappeto di fogliame giallo-marrone. Gli pare quasi di procedere nel fango e, d’improvviso, lo attanaglia il timore di poter affondare, di venir risucchiato dal terreno, senza nessuno nei paraggi che possa offrirgli aiuto, senza possibilità di scampo.

Ma non è più un bambino. Ora è un uomo, un uomo proiettato con la mente verso un’era in cui nessuno sarà mai più un bambino, un essere spaventato, sperduto, terrorizzato a ogni passo dai simulacri che infestano la coscienza umana. Manda avanti il piede sinistro, andandolo a poggiare esattamente accanto al destro. Ancora una volta, le foglie e la terra umida emettono un suono viscerale, come di frutta rancida pressata con vigore; ma entrambe reggono il suo peso, infondendogli nuovo coraggio.

Prosegue attraverso la boscaglia, seguendo, in preda alla curiosità, l’aroma di putrefazione, scostando con le mani le fronde e recidendo con il coltello i rami irti di spine che ostacolano il passaggio. Continua così per alcuni minuti, finché non individua la fonte dell’odore. A qualche passo da lui, tra le imponenti radici di due alberi gemelli, c’è la carcassa di un grosso animale: una pelliccia flaccida, semi-svuotata, sporca di terra e pressoché irriconoscibile, di un colore che va dal marrone al grigio biancastro, dalla quale fanno capolino, come punte di lancia, alcune ossa giallastre. Si avvicina ancora, aggrappandosi con la mano libera, in un gesto inconsapevole, alla corteccia di un giovane arbusto flessibile. Sporge il busto in avanti, inclinando qua e là il capo, e gli pare di identificare i resti di un cinghiale.

È possibile che l’animale sia stato abbattuto dai lupi, o da qualche altro grosso predatore che, dopo averlo spolpato per bene, l’ha lasciato lì dov’era morto, lottando per la propria vita.

Ma qualcosa non quadra; lo intuisce dall’assenza di ferite, lacerazioni o squarci sul manto corroso dagli elementi e dalla perizia degli insetti. Anche le creature più deboli e opportuniste, quelle che si nutrono di cadaveri, sembrano aver girato al largo dalla carcassa. Quasi come se l’intera area fosse sotto l’effetto di un incantesimo, o soggetta a una misteriosa interdizione.

Si stacca dall’arbusto, piano, e lascia che il suo corpo agisca da sé, come posseduto da una forza esterna. Le sue gambe si muovono da sole, conducendolo verso il cadavere che si fa più vicino, sempre più vicino, finché non ne riesce a distinguere il crine lurido e sfibrato. L’olezzo di putrefazione è pressoché insostenibile, al punto che si vede costretto a coprirsi la bocca e il naso con la mano libera.

Si tratta per certo di un cinghiale, ma non vi è più traccia delle originali sembianze dell’animale, se non per un teschio munito di corte zanne acuminate. Tutto quel che resta di esso è una sorta di sacca afflosciata, trascinata verso il basso dal peso delle ossa.

D’un tratto, avverte un prurito sul dorso del piede. Guarda in basso e nota una serie confusa di trattini neri e mobili che gli camminano addosso, perlustrando attentamente ogni tratto di pelle. Formiche. Le segue con lo sguardo, tentando di individuarne il punto di origine.

Dopo alcuni istanti, avvista diverse colonne di insetti in marcia; alcune sottili, formate da una sola fila di individui, altre più spesse, composte da due file, una ascendente e una discendente. Sul momento non vi trova nulla di strano; le formiche vanno e vengono, animate dalla consueta, banale operosità che le contraddistingue. Gli ci vuole una manciata di secondi per rendersi conto che la loro meta e il loro punto di partenza combaciano, andando a convergere appena sotto la carcassa.

Si lascia sfuggire un grido soffocato, nello stesso istante in cui spicca un balzo all’indietro, scuotendo il piede come se vi si fossero appena depositati dei carboni ardenti.

Il brusco movimento scaglia gli insetti in ogni direzione, sparpagliandoli sul terreno umido.

La sensazione di essere stato contaminato dal cadavere gli attanaglia il petto. Non riesce più a controllare il respiro. Le gambe e le braccia tremano visibilmente, quasi volessero sbarazzarsi di altri eventuali ospiti indesiderati.

Tenta di calmarsi, mettendo in moto il cervello. Pensa. Pensa come non ha mai fatto in vita sua, con intensità disperata. L’immagine delle formiche intente a fare pezzi la carcassa, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, disperdendone i frammenti lungo tutto il bosco, si fa strada nella sua mente. Arretra ancora, disgustato dall’idea di aver camminato per tutto il tempo su quella cosa; sulle particole sminuzzate e cosparse qua e là, in giro, di una cosa morta.

Si ricorda di quando l’anziana aveva condotto lui e altri suoi coetanei in un campo non lontano dal villaggio, ad ammirare i resti di un’imponente quercia abbattuta da un fulmine. Aveva spiegato loro come quel corpo, ormai privo di vita, si sarebbe col tempo dissolto, andando a nutrire la terra, gli animali e le altre piante. «Questa è la vita», aveva detto, «l’eterno ciclo della morte e della rinascita, al quale ognuno di noi è sottoposto».

Osserva la carcassa, in preda all’orrore. La immagina mentre viene assorbita dal terreno, dagli insetti, dalla vegetazione circostante, in un arco di tempo così ampio da risultare impercettibile.

No. Quella non era la vita, ma la morte. L’aveva saputo anche allora, sebbene non avesse osato replicare. Questa non è la vita. È la morte. Il processo attraverso cui l’esterno si nutre dell’interno; il fuori del dentro; l’inanimato dell’animato; il-senza-pensiero del pensiero; l’oscurità della luce.

Deglutisce, storcendo la bocca, e percepisce gli zigomi sollevarsi fino a premere contro la parte inferiore delle orbite. Un alito gelido gli attraversa la schiena e viene invaso dal sospetto che sia stato il bosco a catturare e uccidere l’animale, e di trovarsi all’interno di un grande stomaco, un antro digestivo impersonale e privo di organi.

Di punto in bianco, non riesce più a pensare. Inizia a correre, in direzione opposta alla boscaglia. Lontano dalla carcassa, lontano dalle formiche e da quel lento, ottuso processo di dissoluzione automatica.

Corre, senza aver più cura di non far rumore, riempiendo il bosco di gemiti e lamenti strozzati. Gli uccelli fuggono al suo passaggio; i rami delle piante si spezzano. Una miriade di organi, muscoli, nervi, tendini e ossicini che cede dinanzi all’impeto del suo terrore. Nella fuga ha smarrito il coltello, ma non se ne cura. Tutto quel che conta, per lui, è trovare la via d’uscita dal groviglio.

Passo dopo passo, una parola si fa largo nella sua mente, giungendo a occuparla per intero, come un precetto o un ritornello, o le due cose in una: xolotl. Il-senza-forma. Xolotl. Colui-che-è-ogni-cosa.

———

Immagine di copertina:
Dark Forest, via Wikimedia Commons