Anche se negli ultimi 10.000 anni della brevissima storia di Sapiens la sedentarietà ha assunto un ruolo importante in diverse parti del mondo, viaggi e migrazioni continuano ad accompagnare l’umanità e ad avere un ruolo centrale. Saltando più o meno bruscamente agli ultimi decenni e tralasciando secoli di storia e viaggi coloniali, oggi il tema della migrazione, che è un insieme di pratiche più che una tematica, ha assunto proporzioni importanti (considerando anche l’accelerazione di mobilità che si è avuta dal dopoguerra ad oggi) che saranno sempre più considerevoli in un futuro che costringerà milioni di persone a spostarsi a causa dei cambiamenti climatici che già oggi rendono invivibili ampie zone del pianeta. Mentre scrivo queste righe, a pochi chilometri di distanza, tra Ventimiglia e Mentone, una frontiera militarizzata nel cuore dell’Europa di Schengen, ferma ogni giorno decine di uomini, donne e bambini, che dall’Italia provano a entrare in Francia e a continuare, in molti casi, il loro viaggio verso nord.1

Tuttavia, sarebbe errato pensare di poter circoscrivere un evento così ampio e complesso come la migrazione riducendolo ad analisi politica, testimonianza, sguardo pietista quando non apertamente razzista. Tutte queste modalità narrative difettano delle singole storie, che rendono inservibili facili schemi. Dal canto suo, invece, la produzione artistica e immaginativa ha il pregio di poter accogliere sperimentazioni, invenzioni e discorsi che possono permettersi di spaziare in lungo e in largo su terreni minati senza per forza cadere nella gabbia del discorso comune. Non è un caso che fu proprio uno scrittore di frontiera come Francesco Biamonti ad accorgersi per primo di quello che continuava ad accadere anche dopo la (giusta) caduta della frontiera franco-italiana nel 1998 all’entrata in vigore del trattato di Schengen.

«Noi europei abbiamo dei privilegi. Ci siamo creati una libera circolazione, un salotto tra le rovine. Sempre meglio di niente. Un sogno si è avverato: l’Europa legale e senza frontiere. Le tristi luci dei posti di guardia si sono spente sulla costa massacrata dal turismo di massa e dalla speculazione edilizia. Ma nei dirupi, che furono dei pastori di capre, la vita continua a far paura. È mattino presto, la prima luce, accompagnata da ombre argentee, sale ai crinali del vagabondaggio. Il mare si svela. Camioncini e motofurgoni vanno verso il mercato di Nizza. Sono carichi di carciofi e fave delle strette terrazze dei paesi liguri arroccate alle colline».2

E infatti nei romanzi di Biamonti compaiono, come phantasmata, uomini e donne che percorrono a piedi la frontiera e che assomigliano a figure-soglia, attraversanti mondi in rovina, in transito, catturate nell’attimo di una breve sosta in qualche paesino sperduto tra le montagne liguri e lasciate andare nella bruma costiera dell’alba. La scrittura di Biamonti non ci pensa nemmeno a trattenere queste figure dentro a trame che sarebbero troppo complesse per ridurle a romanzo, ma le lascia libere di muoversi, senza giudicarle, ce le mostra in controluce, di modo che non le possiamo mai vedere davvero, ma possiamo solo intuirne i contorni.

Nel panorama italiano la produzione artistica, in particolare letteraria, nata in contesto di migrazione risale, secondo la critica, alla fine degli anni Ottanta con una serie di scritture a quattro mani e un dibattito politico e massmediale che andava delineandosi.

«All’origine dell’insieme vasto ed eterogeneo di scritture che vanno sotto il nome di “letteratura italiana della migrazione”, è diventato ormai canonico collocare un tragico episodio di cronaca nera, ovvero l’assassinio, la notte del 24 agosto 1989, del giovane sudafricano Jerry Masslo, impegnato nella raccolta stagionale dei pomodori a Villa Literno».3

Episodio ripreso in seguito da Tahar Ben Jelloun nel racconto Villa Literno che fa parte della raccolta, Dove lo stato non c’è. Racconti italiani pubblicata da Einaudi nel 1991 a cura di Tahar Ben Jelloun in collaborazione con Egi Volterrani. Al 1990 risalgono poi tre uscite considerate l’avvio di una stagione che è spesso stata definita della «letteratura italiana della migrazione»:4 Chiamatemi Alì di Mohamed Bouchane e Carla De Girolamo; Immigrato di Salah Methnani e Mario Fortunato; Io, venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano di Pap Khouma e Oreste Pivetta (Garzanti, Milano).

Tuttavia, come già sottolineava Chiara Mengozzi nel suo Narrazioni contese. Vent’anni di scritture italiane della migrazione, non basta questo singolo episodio a spiegare la comparsa, a partire dagli anni ’90, di numerose pubblicazioni che vedono la partecipazione di scrittori – prima come co-autori o semplicemente testimoni, poi come autori – provenienti da altri Paesi. E infatti, seppur in Italia l’immigrazione arrivi più tardi rispetto ad altri Paesi europei, già negli anni Settanta si registra un saldo migratorio positivo e si iniziano a varare le prime norme legislative che via via andranno a intensificarsi. «La costruzione dell’emergenza» (Mengozzi, Narrazioni contese, p. 13) che dibattito politico e media erigeranno intorno alla figura di quello che ormai prenderà il nome di «immigrato» (uno straniero particolare, non generico), secondo Mengozzi, è il quadro entro il quale si iscrivono le prime scritture della migrazione, le quali da un lato contribuiscono a dare un’immagine diversa dell’immigrato, ma lo fanno necessariamente all’interno di strategie editoriali e di contesti di partenza in qualche modo attesi dal pubblico italiano.

Così, nel corso dei primi decenni di pubblicazioni che vanno dai récit de vie alla testimonianza, dai romanzi alle poesie, si forma in parallelo una critica letteraria (i cui rappresentanti appartengono perlopiù ad atenei stranieri, forse a dimostrare una certa ritrosia dell’italianistica ad occuparsi di queste letterature) di stampo comparatista che fuoriesce dall’italianistica per delimitare territori specifici intorno a scritture accumunate da un’«aria di famiglia».

«Le ragioni sono molteplici e comprendono: la funzione performativa del campo di studi, che in una certa misura preesiste al corpus di riferimento, le norme che regolano l’accesso alla pubblicazione, le strategie di promozione editoriale, l’atteggiamento intermittente degli autori – al contempo grati e avversi alla benevola ghettizzazione che intrappola, emargina e protegge –, la specificità che queste scritture sempre rivendicano e talvolta esibiscono e, infine, l’indiscutibile aria di famiglia che accomuna le opere degli “scrittori migranti”» (Mengozzi, Narrazioni contese, p. 7).

A distanza di trent’anni dalle prime opere nate in contesto di migrazione e dalla critica letteraria che ne ha accompagnato le vicende, è stato recentemente pubblicato da Carocci un volume a cura di Chiara Mengozzi e Daniele Comberiati dal titolo Storie condivise nell’Italia contemporanea. Narrazioni e performance transculturali, all’interno del quale compaiono diversi contributi che allargano, di molto, il campo delle ricerche.

Storie condivise dell'Italia contemporanea

Se fino a qualche anno fa Mengozzi parlava di «narrazioni contese», contese tra diversi campi di studio, tra diversi mercati editoriali, tra autori e curatori, tra pubblico e autori, oggi le storie sono piuttosto condivise.

«Le storie, come recita il titolo di questo volume, sono ormai davvero condivise, e sempre più sovrapposte, intrecciate, aggrovigliate, al punto che non solo la distinzione tra letteratura migrante e non ha perso di pregnanza, ma diventa anche sempre più difficile associare a qualsiasi produzione letteraria e culturale un attributo univoco di nazionalità» (Mengozzi-Comberiati, Storie condivise, p. 15).

Se la distinzione tra letteratura migrante e non aveva già suscitato reazioni tra la critica, Daniela Brogi, per esempio, in un articolo del 2011 su Nazione Indiana poneva esplicitamente la questione a partire dal titolo Smettiamo di chiamarla «letteratura della migrazione»?, in questo volume i curatori lasciano agli autori dei vari contributi la libertà di definizione che più ritengono opportuna, dimostrando di restare dentro un certo orizzonte, che sarebbe errato rigettare e annullare completamente, ma lo fanno con sguardo aperto e consapevole delle molteplicità di elementi che compongono questo orizzonte.

Un orizzonte, quello della letteratura della migrazione, che tra l’altro

«ha funzionato, e continua a funzionare, come strumento di identificazione, di riconoscimento e di (auto)promozione. Non è stata unicamente un ghetto discriminante, ma anche una riserva protetta e meno competitiva utile al prosperare di questa letteratura che altrimenti avrebbe avuto una vita molto più effimera nel mercato editoriale italiano» (Mengozzi-Comberiati, cit., p. 15).

Sempre in termini di molteplicità e apertura, in questo volume non si prendono in esame solo opere letterarie, bensì si studiano, in alcuni casi per la prima volta, come nel caso dei dispositivi multimediali, le più diverse discipline artistiche con la consapevolezza che oggi la scrittura è aperta a diverse contaminazioni e, nello stesso campo dell’italianistica, non è più riducibile al solo spazio letterario. Nel sottotitolo, dunque, accanto a «narrazioni» troviamo «performance» e per entrambi vale l’aggettivo «transculturali», un termine derivato dall’inglese cross-cultural e utilizzato spesso in antropologia per indicare l’incrociarsi di varie culture e l’influenza che questi scambi hanno sui comportamenti umani.

I vari contributi che costituiscono il libro e che vengono in molti casi, ancora una volta, da studiosi e studiose che lavorano in università straniere e che fanno parte di almeno tre generazioni di ricercatori, coprono un panorama piuttosto vasto in termini di produzioni culturali. Si inizia dal contributo di Ugo Fracassa, Migrans in fabula. Cronaca di un’approssimazione critica (per eccesso), il quale ripercorre la storia della produzione letteraria della letteratura migrante degli ultimi trent’anni e la ricezione critica ed editoriale che ne è scaturita. Un critica che, secondo l’autore, è stata probabilmente eccessiva nel voler sistematizzare un genere letterario, il quale, dal canto suo, non si è mai realmente integrato al resto della letteratura. A parte qualche autore e qualche opera che ha ottenuto riconoscimenti, infatti, la letteratura della migrazione non ha contribuito significativamente ad apportare grosse novità al panorama editoriale italiano, né alla lingua italiana tout court, come forse in molti auspicavano. Tra le opere che hanno ottenuto riconoscimenti Fracassa ricorda, per esempio:

«nel 1997, l’attribuzione a Gëzim Hajdari del Premio Montale per la poesia inedita e, nove anni dopo, del Grinzane Cavour a Ornela Vorpsi per l’opera prima; nello stesso 2006 Amara Lakhous si aggiudicava il Premio Flaiano per la narrativa; è del 2020 l’attribuzione del Premio Napoli a Igiaba Scego. Proprio Scego ha rivendicato con forza, e quasi in solitudine, l’appartenenza di Helena Janeczek al novero di quelle “tante autrici e […] tanti autori che scrivono partendo da altre lingue e da altri mondi” (Igiaba Scego, La vittoria di Helena Janeczek allo Strega va oltre la letteratura, in “Internazionale”, 6 luglio 2018)» (Storie condivise nell’Italia contemporanea, p. 39).

Da notare che è di questi giorni l’ingresso, tra le proposte candidate al Premio Strega, del romanzo di Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio. Il romanzo è stato proposto da Jhumpa Lahiri, anche lei scrittrice transculturale a tutti gli effetti, di origini indiane e autrice in inglese e in italiano, con motivazioni che riguardano soprattutto la lingua e la storia coloniale italo-somala.

«Ma questo romanzo, con intensità e autorevolezza, mette al centro la preminenza della parola: quella che squarcia, che resiste, che restituisce. Questo libro ben equilibrato, anche dirompente, sicuramente il libro più importante che esista, nella letteratura italiana, sulla storia postcoloniale italo-somala, va letto per uscire dal silenzio, dall’oblio e dalla rimozione che distorce la verità di quell’epoca, e per far i conti con il razzismo non solo di una volta ma di oggi».5

Secondo Fracassa se la letteratura italiana non ha ancora avuto un suo Salman Rushdie o una sua Zadie Smith è per una serie di ragioni, tra le quali una qualità non sempre all’altezza, una teoria «in eccesso», ma forse più di tutte pesa la mancata integrazione di queste produzioni con il resto della letteratura italiana e un mercato editoriale con il quale occorre fare i conti.

Un’analisi, quella del mercato editoriale, sulla quale vertono anche il secondo e il terzo intervento del libro, il primo ad opera di Giulia Molinarolo, Scritture migranti e mercato editoriale. Per una morfologia delle strategie di produzione e promozione, e il secondo di Anna Finozzi, La letteratura postcoloniale italiana per l’infanzia e per l’adolescenza: forme e pratiche di crossover. Dall’analisi di Molinarolo si evince la difficoltà per le scritture migranti di rapportarsi con un centro in qualche modo inevitabilmente egemone e, allo stesso tempo, la volontà di contestarlo, considerando pure che le strategie di promozione editoriale sono ormai le stesse per tutta la letteratura. Sempre dal lato dell’editoria, ma più in direzione dell’analisi del canone letterario, l’intervento di Finozzi interroga invece la quasi totale assenza di letteratura per l’infanzia e l’adolescenza in generale all’interno del canone e poi nello specifico della letteratura migrante e postcoloniale. Quest’ultima, in questo caso subisce, subisce infatti una doppia marginalizzazione, quella di letteratura migrante e di letteratura per l’infanzia, aprendo però nuovi campi di studio e di ricerca possibili, e, possiamo dire, auspicabili.

Silvia Contarini, poi, con Narrazioni invisibili. Le badanti letterarie, attraverso le figure del badantato, esamina uno dei nodi centrali delle scritture migranti, ovvero quello dell’autorialità. Spesso infatti, soprattutto nei primi anni di pubblicazioni di testi scritti a quattro mani, la questione del racconto testimoniale, del vissuto diretto, dell’autobiografismo autentico, ha giocato un ruolo chiave nella ricezione di queste scritture. Tuttavia, dopo la prima vague di scritture a quattro mani, sempre di più tematiche e personaggi migranti sono stati affrontati da autori italiani. Il badantato, spiega dunque Contarini, non è quasi mai narrato da figure testimoniali, ma il più delle volte, in particolare per quanto riguarda figure femminili, è visto attraverso lo sguardo degli italiani.

«Tuttavia, per rendere visibile la badante è davvero sufficiente affidarle un ruolo da protagonista in un testo letterario (e più in generale, in un prodotto artistico)? Basta porla al centro dell’immaginario, del discorso e della rappresentazione? Interrogativi che vanno posti perché, se è vero che un certo numero di romanzi e film degli ultimi anni si sono avvalsi della figura della badante, è anche vero, come è stato giustamente rilevato, che si tratta di rappresentazioni spesso intrise di stereotipi, soprattutto negativi, e comunque risultato di un punto di vista preciso, uno sguardo esterno che esotizza ed erotizza la badante straniera (specie se venuta dall’Est), che la «orientalizza», e talvolta la razzializza (Marchetti, 2011), configurando i rapporti tra l’italiano/a datore/datrice di lavoro e la badante precaria immigrata in termini di potere e diffidenza» (Storie condivise, p. 109).

Prendendo in esame testi di autori italiani e non, la studiosa mostra risultati più o meno convincenti e conclude su due testi che riescono, più di altri, a dare voce senza appropriazioni indebite o forzature stereotipate, Senza permesso. Avventure di una badante rumena romanzo di Cetta Petrollo e La donna capovolta di Titti Marrone.

Con il quinto contributo del volume, Oltre il limen: ibridazioni postumane, contaminazioni e re- sistenza eco-etica al largo di Lampedusa di Jessica Sciubba, inizia forse quella che è la parte più innovativa di questo lavoro critico, perché entriamo in territori poco esplorati e che svalicano il confine della sola letteratura.

Jessica Sciubba, infatti, attraverso l’analisi di tre opere che appartengono a tre universi narrativi differenti e partendo da un punto territoriale e focale preciso, l’isola di Lampedusa, preso come territorio-soglia e luogo di confine, ci mostra l’importanza e la potenza delle narrazioni transmediali che possono diventare forme di resistenza «eco-etica». E il discorso qui si contamina sia nel corpus analizzato: l’antologia poetica nata dalla collaborazione tra migranti e non, Sotto il cielo di Lampedusa, ad opera del collettivo MultiVERSI 100 Thousand Poets for Change Bologna (2014), il documentario di Gianfranco Rosi Fuocoammare (2016) e il progetto museale PortoM del collettivo Askavusa, sia nell’allargare il discorso al postumano.

Black Lives in Italia: gli archivi fra memoria e ricostruzione artistica, è il titolo dell’intervento di Emma Bond, la quale attraverso la pratica degli archivi, o della problematica assenza di questi ultimi, affronta il tema problematico e doloroso della cancellazione storica e come il tema della memoria in relazione alla lacuna archivistica venga affrontato da tre diverse autrici.

Paola Ranzini con Per un teatro interculturale: incontri fra pratiche, figure e tradizioni della narrazione orale e Luciana Manca con Alessandro Portelli, in Voci dal mondo e canti sconfinati: i cori interculturali come pratica musicale della politica arricchiscono il volume con, nel primo caso, uno studio sulle pratiche teatrali e nel secondo, sui cori multietnici come pratiche territoriali. Attraverso l’incontro la tradizione orale e il teatro di narrazione, si producono forme nuove di ibridazione, mentre, per quanto riguarda i cori, essi rappresentano una pratica che coinvolge solitamente diversi attori su un territorio e possono contribuire ad essere un punto di unione, come nei casi presentati di Voci dal mondo di Mestre e Canto sconfinato di Pordenone.

Gli ultimi due contributi della raccolta vertono poi sul fumetto e sul gaming. Nel primo caso troviamo l’intervento di Barbara Spadaro, Migrazioni, memoria e transnazionalità nel fumetto italiano del xxi secolo e nel secondo caso Babel – Il giorno del giudizio. Tra realtà virtuale, gaming e documentario: le opportunità narrative del linguaggio multimediale di Manuel Coser, i quali analizzano due terreni narrativi meno esplorati e con grandi potenzialità. Nel caso del documentario interattivo Babel-Il giorno del giudizio esso

«esplora le possibilità narrative offerte dall’unione di tre mezzi e linguaggi (la realtà virtuale, il gaming e il documentario) alla trattazione della migrazione e dei problemi che incontrano le persone richiedenti asilo in Italia. Le possibilità specifiche al formato scelto riguardano in particolare tre elementi fondamentali del racconto: la struttura del plot, il destinatario e i dispositivi narrativi che presiedono l’identificazione del pubblico» (Storie condivise, p. 33).

Lo spettatore entra nelle vite delle tre persone in attesa del giudizio della Commissione Territoriale per avere richiesta di protezione internazionale, e vive le loro vite fino all’atteso verdetto della Commissione.

La difficoltà di circoscrivere scritture nate in contesto di migrazione, come abbiamo detto all’inizio, è grande, così come lo è la questione delle migrazioni, ma non è circoscrivere quello si propongono i curatori e gli autori del volume, operazione che risulterebbe alquanto dubbia, quanto piuttosto mappare un campo multiforme e in continua evoluzione che si trasforma nel tempo e che proseguirà in futuro.

«Scegliendo come titolo “storie con-divise”, abbiamo voluto mettere l’accento tanto sulla condivisione, l’intreccio, la messa in comune, quanto sul distanziamento, il discrimine, la capacità di differenziare, che sono ugualmente condizioni essenziali per il riconoscimento reciproco e il posizionamento rispetto all’alterità» (Storie condivise, p. 33).

Infine, narrazioni, racconti, immaginari, voci e teatro, sono tutte modalità che, come abbiamo detto, possono permettersi di svalicare il ristretto terreno comune del discorso politico, sociologico, opinionista, per costruire mondi che non ingabbino o non impongano voci. Certo, a patto che il panorama editoriale, nel quale vigono a tutti gli effetti logiche di mercato, non riduca la portata di questi discorsi, e questo discorso vale per la letteratura tout court, di cui le letterature transculturali sono parte integrante.

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Note:

1) È proprio di questi giorni un ennesimo reportage sulla frontiera franco-italiana: https://www.theneweuropean.co.uk/border-town-hope-and-fear-in-the-calais-of-italy/
2) La citazione è tratta da un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica e riportata in, Enzo Barnabà, Viviana Trentin, Il passo della morte. Storie e immagini di passaggio lungo la frontiera tra Italia e Francia, Infinito Edizioni, Formigine, 2019, p. 28.
3) Chiara Mengozzi, Narrazioni contese. Vent’anni di scritture italiane della migrazione, Carocci, Roma, 2013, p. 11.
4) «Attingendo prevalentemente a esperienze analoghe oltre frontiera, la critica ha proposto le definizioni più disparate, tra cui letteratura “della migrazione” o “dell’immigrazione” (Gnisci, 1998a; Quaquarelli, 2010), “italofona” (Parati, 1995), “afro-italiana” (Portelli, 2004; Brancato, 2009), “minore” (Parati, 1995; Ponzanesi, 2004; Burns, Polezzi, 2003), “creola”, “ibrida”, “meticcia” (Gnisci, 1998b, 2003), “nascente” (Taddeo, 2006), “multiculturale” (Orton, Parati, 2007), “interculturale” (Chiellino, 2001), “transculturale” (Kleinhans, Schwaderer, 2013) ecc.», Mengozzi-Comberiati, p. 16.
5) Si legga qui la motivazione completa: https://www.premiostrega.it/libro/cassandra-a-mogadiscio/

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Immagine di copertina:
© Enrica Tancioni, Lampedusa, 2019 (Unsplash)