Le pagine che Freud ha dedicato alla guerra sono tra le più intense che la letteratura psicoanalitica abbia mai prodotto. Non solo perché il loro tono era e per certi versi rimane tuttora intriso di un inquietante senso di attualità, ma soprattutto perché vi troviamo un Freud esposto in prima persona nella trattazione e nella condanna degli orrori della guerra.

Come ci riferisce Ernest Jones, in un primo momento Freud manifestò un certo entusiasmo nei confronti della guerra. Vi vedeva un’esaltazione progressista degli ideali nazionali e culturali della specie umana, un momento di crisi dialettica che avrebbe condotto la civiltà verso una nuova e più edificante condizione. In breve tempo però, il suo entusiasmo mutò radicalmente. L’iniziale esaltazione lasciò il posto a un sentimento di pervasivo sconforto. Vissuta da vicino anziché fantasticata come un evento mitico, la guerra appariva ora a Freud come la più grande delle sciagure storiche della modernità, un cancro in grado di spazzare via tutto quello che l’umanità aveva costruito sino a quel momento.

Le primissime righe de La delusione della guerra (1915) non concedono giri di parole: la guerra è un male epidemico che porta al degrado «tutto ciò che è elevato».(1) Ogni traguardo precedentemente raggiunto dall’uomo si converte in un’intelligenza maligna che semina ovunque distruzione e violenza: la tecnica fabbrica «>armi per contribuire alla lotta contro il nemico»; l’antropologia raffigura l’avversario come «un essere inferiore e degenerato»; la psichiatria stila diagnosi di «perturbazioni spirituali e psichiche» che certifichino la disumanità del nemico. Durante la guerra, tutto ciò che è umano viene degradato a «semplice ingranaggio» della macchina della morte (ibidem).

In una lettera al dr. van Eeden scritta pochi mesi dopo lo scoppio del conflitto, Freud riconosce che la psicoanalisi aveva sino a quel momento proferito due importanti tesi sulla guerra. Per quanto fosche e impopolari, nota Freud, entrambe si sono rivelate esatte. La prima tesi sostiene che «gli impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono scomparsi ma continuano ad esistere […] ed attendono l’occasione per manifestare la loro attività».(2) Il senso comune ritiene che l’avvento della civiltà abbia reso l’uomo un essere intrinsecamente morale, privo dell’ostilità che caratterizzava la vita dei primitivi. Dalla prospettiva della psicoanalisi però, la civiltà non reprimerebbe le inclinazioni egoistiche degli individui in virtù della solidarietà e della convivenza reciproca. Al contrario, l’azione della civiltà sugli impulsi ostili del soggetto sortirebbe lo stesso effetto esercitato dallo Stato sulla vendita di sali e tabacchi: il “monopolio” rigido e incondizionato delle risorse. La civiltà non è in grado di azzerare del tutto i moti pulsionali dei singoli cittadini. Essa può soltanto fornire loro un argine temporaneo, espresso nella forma del compromesso e del vantaggio sociale. In secondo luogo, però, la monopolizzazione della violenza da parte della civiltà ha anche ragioni strettamente strumentali: l’immagazzinamento delle pulsioni distruttive dei singoli in una collettività non violenta è una risorsa a cui la civiltà può attingere per foraggiare il conflitto bellico, ripresentando all’individuo i propri moti sadici sotto la maschera allettante del patriottismo. Il pacifismo della civiltà è agli occhi di Freud un pacifismo ipocrita che prepara nel silenzio l’avvento del conflitto.

La seconda tesi dice che «il nostro intelletto è qualcosa di debole e di dipendente, al tempo stesso gingillo e strumento dei nostri impulsi e delle nostre emozioni» e che «tutti noi siamo obbligati ad agire intelligentemente e stupidamente a seconda del volere imposto dai nostri atteggiamenti e resistenze» (ibidem). Così come esiste un’illusione morale della civiltà, ne esiste anche una intellettuale, che ritiene di poter domare gli appetiti e gli impulsi della vita inconscia attraverso la neutralità logica dell’intelletto. Questa seconda illusione è preponderante nei due diversi tipi di condotta morale che troviamo in tempo di pace, il primo orientato internamente, consistente nell’erotizzazione degli impulsi ostili, che vengono convertiti nella capacità di amare e convivere con il prossimo, il secondo esternamente, regolato dal timore di essere puniti dalla Legge o di ricevere la disapprovazione del gruppo. Come specifica Freud, il secondo tipo di condotta è il più debole e testimonia come la sospensione della Legge ordinaria in tempo di guerra produca l’istantanea ripresentazione di una violenza celata ma non per questo estinta dalla civiltà.

Volendo convogliare entrambe le tesi in un unico, sintetico pensiero, Freud ritiene che, dopo tutto, l’orrore della guerra sia in realtà meno orrorifico di quanto sembri, perché la barbarie scatenata dal conflitto ci appartiene molto più di quanto la morale e l’intelletto vogliano farci credere: la più difficile umiliazione da digerire in tempo di guerra è che la nostra condizione psicologica, in realtà, vive al di sopra dei propri mezzi. Nel suo inconscio, l’essere umano non ha mai cessato di essere egoista e crudele. Quella che Freud descrive come l’“attitudine alla civiltà” delle coscienze nasconde, allo stesso tempo, l’inconscia attitudine alla guerra, e cioè la tendenza della civiltà a mobilitare l’insieme delle inclinazioni distruttive dei singoli a vantaggio di uno sterminio organizzato.

Anche sul piano antropologico, le conclusioni di Freud sulla guerra rimangono pertanto pessimiste: la guerra è un fenomeno necessitato dalla “diversità” delle condizioni di vita dei popoli e del loro “astio” reciproco. Dal momento che queste condizioni sono persistenti, connaturate alla specie umana, anche la guerra è persistente. Finché esisterà l’essere umano ci sarà anche la guerra.

Dai tempi di Freud, la psicoanalisi non ha mai smesso di interrogarsi sul fenomeno della guerra. Numerosi contributi hanno seguito il solco de La delusione, altri se ne sono distaccati cercando di approdare a conclusioni meno pessimistiche o, quanto meno, ispirate dalla voglia di fornire possibili alternative al problema. La diffusione della psicoanalisi in Europa e negli Stati Uniti nei decenni successivi ha creato una polarizzazione dominante del discorso sulla guerra che ha finito per annoverare la maggior parte di tali contributi in due grossi blocchi tematici: da un lato, ci sono coloro che hanno esaltato la responsabilità dello Stato nella manipolazione dei cittadini, vedendo in quest’ultimi delle mere pedine al servizio degli interessi nazionali; dall’altro, coloro che hanno percorso la direzione inversa, insistendo sulla necessità di ricondurre il desiderio di guerra dei gruppi a quello dei singoli. Rispetto a un simile dualismo, l’originalità del discorso freudiano brilla ancora per la sua capacità di tenere conto, in un’unica analisi, sia della valenza individuale che istituzionale del fenomeno guerra. È una complessità che, a fronte degli eventi storici e politici dello scorso secolo e della difficile eredità cui è andata successivamente incontro la psicoanalisi, è andata facilmente persa.

Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra

Una sensibile eccezione, tuttavia, è quella di Psicoanalisi della guerra di Franco Fornari, il corposo testo che lo psicoanalista italiano trasse dal suo intervento al XXV Congresso degli Psicoanalisti di lingua romanza tenutosi a Milano nella primavera del 1964, e a cui Feltrinelli, attraverso l’impegno di Massimo Recalcati, ha finalmente dedicato una ristampa. Allievo di Cesare Musatti, membro e successivamente presidente della Società Psicoanalitica Italiana, Fornari ha sempre utilizzato la psicoanalisi per intercettare temi e questioni non unicamente di ambito clinico. E di ciascuno di questi ambiti, è proprio la polemologia ad assumere un ruolo di primissimo piano. Psicoanalisi della guerra non è l’unico studio che Fornari dedica all’argomento, ma è probabilmente il più compatto ed esaustivo per chi voglia approcciare le sue tesi sulla guerra. L’influenza di Melanie Klein, di cui Fornari contribuì a diffondere il pensiero in Italia, è evidente sin dalle premesse del testo: la guerra sarebbe per lo psicoanalista italiano una «modalità inautentica di elaborazione del lutto», una difesa da angosce depressive e di persecuzione deputata a fornire un sostegno paranoico all’esperienza della perdita (Fornari, Psicoanalisi della guerra, p. 99).

Come è noto, il perno della dottrina kleiniana delle pulsioni ruota attorno alla distinzione fondamentale tra la posizione schizo-paranoide e la posizione depressiva. Il fatto che Klein le nomini posizioni, anziché fasi, sottolinea come la loro scansione non sia lineare o sottoposta a un disegno evolutivo preciso. Piuttosto, l’esistenza del soggetto si gioca nel costante rimbalzo tra le due posizioni, in un’indefinita riproposizione il cui motore è costituito dalla capacità dell’individuo di tollerare e gestire l’angoscia dei propri fantasmi. La posizione schizo-paranoide denota una scarsa capacità di integrazione degli impulsi libidici: il soggetto non riesce a far convivere i propri impulsi di amore e odio nello stesso oggetto, e per questo è costretto a scindere quest’ultimo in un oggetto buono, da proteggere e conservare, e in uno cattivo, vissuto come persecutorio. La posizione depressiva subentra quando il soggetto è in grado di dominare le sue angosce, incorporando l’ambivalenza amore-odio in un oggetto unico, benché ambivalente. Fornari parte da questo assunto per decretare come, nello stato di guerra, le esperienze e i vissuti degli individui non siano riconducibili a motivazioni razionali (economiche, di interesse, di conservazione), ma a sistemi di difesa che agiscono come vere e proprie angosce psicotiche: paure illusorie che producono massicce deformazioni del senso di realtà, scindendosi in una componente rappresentativa amorevole (la patria, il simile) e in una ostile (il nemico, l’invasore). Riproponendo una nota metafora freudiana sulla struttura della psiche, Fornari paragona il fenomeno guerra a un iceberg in cui il livello delle acque divide la realtà a cielo aperto della coscienza da quella buia e fantasmatica della vita inconscia. La parte superiore del blocco di ghiaccio presenta la guerra come una necessaria reazione difensiva dinnanzi a un pericolo esterno. Qui la minaccia è reale, incarnata e localizzabile con precisione nella figura del nemico. Oltre a essere conscia, la sommità dell’iceberg è anche “specifica”, in quanto convoglia in sé le determinazioni storiche del conflitto, le caratteristiche contestuali e sociopolitiche che giustificano la chiamata alle armi da parte di un determinato popolo in una determinata epoca (ivi, p. 38). La parte sommersa dell’iceberg, invece, ospita i fantasmi e i conflitti pulsionali la cui mancata integrazione porterebbe a compimento il bisogno di proiezione e dunque della guerra. In netta opposizione alla superficie, la profondità è “aspecifica”: essa determina il costante confronto dell’individuo con la violenza dei propri fantasmi interni, la necessità di trovare un compromesso tra i concomitanti impulsi di amore e odio diretti verso l’oggetto. Fornari chiama l’intero complesso sommerso dalle acque “il Terrificante”, il nemico interno “inaffrontabile e invulnerabile”, responsabile delle angosce di persecuzione del soggetto (ivi, p. 28).

L’aspetto cruciale da sottolineare, al riguardo, è che il Terrificante acquatico e la superficie sovrastante della coscienza non sono due compartimenti stagni. Piuttosto, il primo esercita una funzione di causalità diretta sul secondo, indirizzandone la condotta e i motivi. In termini kleiniani, i fantasmi inconsci non si limitano a sostituire la realtà, ma la organizzano in una duplice strutturazione che si ripercuote sia sul mondo interno sia su quello esterno. La guerra, in questo senso, permetterebbe di elaborare la mancata integrazione psichica del Terrificante in senso paranoico, espellendo cioè l’angoscia del soggetto su un nemico esterno, reale.

Di conseguenza, per Fornari come per Freud, non esiste un impulso separato alla guerra che si contrappone alla convivenza pacifica. In entrambi i casi, avremmo a che fare con gli stessi impulsi che, tuttavia, sottostanno a una diversa “strutturazione” libidica (ivi, p. 55). L’evacuazione sul nemico delle proprie angosce persecutorie risponderebbe a una necessità psichica primordiale che risale all’evitamento del senso di colpa: «il nemico è vissuto come l’istanza che distrugge il nostro oggetto d’amore. Sarebbe questa la ragione per cui la guerra si costituisce come un dovere, cioè come un valore fondamentale per gli uomini (ivi, p. 191).

Un «manicheismo radicale» piomba sul mondo, che deve essere scisso in un oggetto amato e uno odiato, nell’amico e nel nemico (ivi, p. 63). È esattamente questa scissione a fornire alla guerra la sua configurazione psicotica: affinché il mondo dei fantasmi interni possa essere efficacemente depurato della sua ambivalenza, anche la realtà esterna deve essere distorta, sdoppiata in una componente di puro bene, amore incondizionato, e in una di puro male, pericolo mortifero. Il nemico a cui si fa guerra è tale perché investito dei sentimenti di colpa del soggetto, identificato come la causa dei suoi mali. Vincere la guerra significa esorcizzare le angosce dei vincitori imponendo ai vinti l’elaborazione depressiva del lutto.

Occorre tuttavia specificare che, laddove l’apparato concettuale utilizzato da Fornari poggia in ampia parte sulla dottrina kleiniana, il suo orizzonte speculativo rimane fedelmente freudiano. Il testo cardine a cui ricorre l’autore, in questo caso, è Il nostro modo di considerare la morte (1915), un intervento che lo stesso Freud non esitò a definire intriso di «spirito macabro»,(3) e che può essere letto come un corollario all’introduzione del concetto di narcisismo in psicoanalisi. Freud è ancora una volta straordinariamente esplicito: ogni morte nell’inconscio è concepita come un assassinio. Se la coscienza è scrupolosa, persino timorata nel trattare la morte, l’inconscio uccide per la minima piccolezza. Laddove la coscienza si barrica continuamente dal pensiero della morte ricorrendo a ogni genere di sotterfugio, l’inconscio è privo di scudi. In esso, morte reale e morte fantasticata coincidono senza differenze di sorta, il desiderio di uccidere equivale a un’uccisione riuscita. Sul lato dell’umana convivenza, questa asserzione non ci dice nulla di nuovo. La psicoanalisi non ha mai fatto segreto del carattere strumentale del sentimento di solidarietà. In maniera più o meno indiretta, gli esseri umani rimangono fondamentalmente incatenati al vincolo del narcisismo. L’egoismo e la lussuria fanno da padroni in ogni vicissitudine umana, ciascuna dottrina morale nasce dal desiderio inconscio di perseverare nelle proprie passioni. La questione però si complica quando a essere tirati in ballo sono gli oggetti d’amore e la possibilità della loro perdita. L’uomo potrebbe arrivare ad ammettere senza esitazioni la sua celata ostilità verso il prossimo, ma gli riuscirebbe ben più difficile accettare che anche i suoi atteggiamenti «più teneri e intimi» sono attraversati da «una pur lieve componente ostile capace di provocare l’inconscio desiderio di morte» della persona amata.(4) Visto da questa prospettiva, il trattamento analitico si riconfigura come una particolare pratica di elaborazione del lutto in cui il soggetto impara ad affrontare e a farsi carico del proprio senso di colpa nei confronti dell’oggetto amato e (fantasmaticamente) ucciso.

Il problema che ne consegue dunque, libidico prima ancora che etico, potrebbe essere posto così: in che modo far convivere gli impulsi ostili e gli impulsi amorosi nello spazio angusto di un medesimo oggetto? È possibile arrivare a una condizione in cui l’ambivalenza nei confronti dell’oggetto amato sia tollerata senza il ricorso alla scissione e alla proiezione paranoica dei nostri impulsi ostili verso di esso?

Per Fornari, la risposta passa (anche) per i mutamenti in cui, dalla Guerra Fredda a oggi, è incorso il fenomeno guerra, da lui inteso come una gigantesca macchina di paranoicizzazione del lutto. Con l’introduzione delle armi nucleari (scrive Fornari) e batteriologiche (potremmo aggiungere noi), il dispositivo della guerra è entrato in uno stato di crisi permanente. Gli armamenti di cui disponiamo oggi infatti sarebbero in grado di spazzare via intere popolazioni e culture in un batter d’occhio, non permettendo più di separare con precisione l’oggetto d’amore dall’oggetto nemico, e cioè di portare a termine il processo di scissione paranoica che ha dominato per secoli la dinamica della guerra. In altre parole, il fenomeno guerra non è più in grado di ritualizzare il processo del lutto trasferendolo distintamente sul nemico senza che il soggetto ne paghi le conseguenze. Il risultato di un simile inceppamento del dispositivo bellico è un problematico «oggetto “misto”» (Fornari, p. 197) in cui i confini del soggetto e dell’altro, dell’amore e dell’odio, appaiono invischiati in una terrificante indistinzione pulsionale. L’operazione con cui si è sempre tentato di preservare l’oggetto d’amore non garantisce più la sicurezza di quest’ultimo ma, al contrario, lo espone al rischio della sua definitiva distruzione.

Cosa fare allora? Come abbiamo detto, le conclusioni di Freud sulla questione non lasciavano grande spazio alla speranza. Fornari, dal canto suo, si dimostra meno pessimista. La sua ipotesi si muove lungo due strategie consequenziali. In primo luogo, occorre ridefinire gli attributi dell’odierno Stato sovrano, privandolo del monopolio della violenza. L’intera civiltà si fonda e si sostiene sul cambiamento di scopo delle tendenze aggressive. Lo Stato è una sorta di super-soggettività anomica che, distogliendo l’individuo dai suoi impulsi sadici, accumula e organizza le tendenze distruttive della collettività in virtù della loro slatentizzazione paranoica nel contesto di guerra. La prima operazione da compiere, dunque, è quella di infrangere tale monopolio, riconducendo la colpa e la violenza della guerra alla responsabilità del singolo soggetto. Una simile manovra non può che avere i caratteri di una «rivoluzione depressiva» (ivi, p. 220) in cui ambivalenza, colpa, angoscia e lutto sono reintegrati non come frammenti del «desiderio privato di guerra», ma sotto forma di possibilità riparative (ivi, p. 158). Desovranizzare la violenza significa rimettere l’individuo nella condizione di vivere e tollerare i propri impulsi distruttivi senza il compromesso della scissione. In secondo luogo, e qui sta tutta la raffinatezza del ragionamento di Fornari, occorre ricondurre la riduzione della violenza al soggetto verso una nuova logica istituzionale o di gruppo. Del resto, l’attribuzione a senso unico del fenomeno guerra al monopolio dello Stato rischierebbe di riproporre, per quanto indirettamente, lo stesso meccanismo di scissione-proiezione che Psicoanalisi della guerra intende demolire: lo Stato diventerebbe qui l’oggetto cattivo responsabile del desiderio di guerra del singolo soggetto, il depositario unico della crudeltà da contrapporre al pacifismo incorrotto del soggetto. Confrontarsi con i propri impulsi distruttivi, direbbe Freud, significa parimenti riconoscere la loro inestinguibilità, appurare che, in fondo siamo noi stessi che «vogliamo la guerra e la alienazione della nostra aggressività nello Stato ci serve semplicemente per poter dire che non siamo noi a voler fare la guerra, ma che è lo Stato che ci costringe a farla: ci persuadiamo così che è lo Stato il responsabile della guerra, per non sentircene responsabili noi stessi» (ivi, p. 227).

In altre parole, secondo Fornari non basta che il soggetto si riappropri della sua aggressività inconscia per uscire dal circolo vizioso del Terrificante e della guerra. Un simile movimento risulterà inutile se non verrà successivamente reintegrato in un’ottica di gruppo o, meglio ancora, in un’Istituzione che guidi e sostenga i singoli nell’elaborazione depressiva del proprio lutto. Fornari chiama un simile sostegno «Istituzione Omega», una proposta che suggerisce al tempo stesso l’immagine di una società utopica, scorta sul limite estremo della storia umana (l’Omega come ultima lettera dell’alfabeto, termine finale) ma anche di un avvenire riparativo (l’Omega come compimento, integrazione di tutte le tendenze in un tratto univoco), differente dall’idea di civiltà per come l’abbiamo conosciuta e pensata sino a oggi.

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Note:

1) S. Freud, La delusione della guerra, in OSF 8, p. 123.
2) Cit. in E. Jones, Vita e opere di Freud. Vol. II, p. 443.
3) E. Jones, Vita e Opere, cit., p. 445.
4) S. Freud, Il nostro modo di considerare la morte, OSF 8, p. 146.

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Immagine di copertina:
Henri Rousseau, La guerre, 1894 – Musée d’Orsay