[Pubblichiamo un estratto da Noi siamo campo di battaglia di Nicoletta Vallorani, Zona 42, 2022. Per gentile concessione dell’editore].

Nicoletta Vallorani, Noi siamo campo di battaglia

Uno
La classe

Amina

All’epoca (quale epoca? Ma è un bel modo di cominciare) stavo nascosta come adesso dentro un velo e un vestito lungo. Abitavo sui Dossi Scampati, nel framezzo che separa la strada dai Giardini, che poi chiamarli giardini è un rimasuglio dei tempi in cui lo erano. Abitavo coi negri sopravvissuti, che non erano tutti negri e neanche cattivi. Gente che si portava appresso la sopravvivenza come un dono, aspettandosi di vederselo rubato ogni momento del giorno e della notte. Avevamo una routine e dicevamo ogni sera ciascuno le sue preghiere. Un gran caos, se devo dire la verità, ma nessuno voleva insegnare niente a nessun altro.
La prof diceva che era un bene: quando ti vogliono insegnare qualcosa presto o tardi finisce che te la infilano in testa a forza.
La forza ha tante forme quante sono le dita di un gigante. E le dita fanno male. Presto o tardi, appunto, succede.
Presto o tardi. Presto, di norma.
Facevo la recupera ogni volta che saltava una casa, o un magazzino, o un supermarket. Riportavo tutto quello che era commestibile o utilizzabile, o che pensavo lo fosse. Nei miei pochi anni, non capivo molto di quello che stavo facendo. A essere sincera, non capivo neanche perché facessero saltare ogni cosa, nel nostro quartiere. Credo avesse a che fare col fatto che eravamo “stranieri”. Fin dal principio, c’era stata tutta una propaganda sul fatto che era colpa nostra. Che cosa fosse colpa nostra non era chiaro, ma prima che chiudessero le scuole in via definitiva, come istituzione obsoleta e alla fine inutile, ci avevano già espulsi tutti, noi di Nueva V(enezia), da ogni struttura di formazione. Per ragioni di sicurezza. Avevamo la generica responsabilità del male.
Alla gente serve identificare il male con un corpo, per illudersi che massacrato quel corpo, il male se ne andrà. Non è così. Si baratta una consolazione temporanea con la risoluzione effettiva del problema, che alla fine non interessa nessuno.

Sono nata qui, sono italiana, sono musulmana. Sono un bersaglio.
Nella paura, gli adulti che si credono tali mordono chi capita.
Mordono il mio velo e vogliono vedermi i capelli.
Mordono la mia mano appena la vedono avvicinarsi a qualcosa di commestibile.
Mi morderebbero le caviglie quando scappo, se solo li lasciassi avvicinare.
Ci sono pericoli ovunque, per noi.
Ma siamo abituati. Da che io ricordi, non c’è stato un momento in cui ci hanno scontato le colpe.
Navighiamo nel pericolo come vascelli di carta nelle pozzanghere di questa città. Vascelli velati, inseguiti dalla tempesta.

La storia immaginaria # 1 è questa: la mia bisbisbisnonna è arrivata a Peninsula imbarcandosi su una nave di gran lusso. Era la sposa di un sultano molto potente, ma lui la ripudiò perché l’aveva scoperta a scambiare sguardi d’intesa con un marinaio bellissimo e poverissimo (sono sempre belli i poveri. I ricchi, a volte). L’ira del sultano, che aveva diverse altre mogli ma questa era la sua preferita, fu terribile. Abbandonò gli amanti senza cibo né acqua appena raggiunsero le coste di Vindicati, l’isola nata dalla vendetta del mare e dimenticata da ogni colono. La spazzavano i venti, e i terremoti le cambiavano forma continuamente. Nulla poteva crescere in quel posto se non sterpaglie inutili e tuberi dei quali i due amanti si cibarono.
All’epoca (che continua a essere un bel modo per cominciare) la mia bis (per brevità) era già incinta. La forza dell’amore può capovolgere il mondo. Così i due amanti sopravvissero a uragani e scossoni, nutrendosi di nulla e bevendo acqua piovana (mi chiedo se sia verosimile, ma vabbé). Quando la bimba nacque, persino il cielo festeggiò imbandendosi di azzurro e senza nubi. La piccoletta era sana e sorridente e si alimentava del poco latte di sua madre con una voracità da prosciugarla tutta. Che poi è quello che accadde. Il marinaio cercò di sostentarla con i tuberi dell’isola, qualche pesce pescato, l’acqua piovana. Le avrebbe dato il suo stesso sangue, ma questo sembrava eccessivo anche per un innamorato. Così la mia bis si rese conto che doveva badare a se stessa. Recuperò semi misteriosi nell’interno dell’isola, inventò un sistema per raccogliere l’acqua e conservarla, coltivò un piccolo orto e continuò a sfidare le intemperie mentre la piccoletta prendeva carne sulle ossa.
Gli uomini sono fragili, così a un certo punto l’innamorato morì. Non si sa bene di cosa, ma forse di paura o di preoccupazione o di silenzio o di pentimento per aver concupito la moglie di un sultano ed essere finito in quel modo. Non si sa. Lui morì e le due donne sopravvissero. Prosciugata e asciutta come una canna al vento l’una e florida e flessuosa l’altra, ma tutte e due in vita quando la Nave di guardia di Peninsula, per caso e dopo anni passò da Vindicati. Attraccarono perché avevano visto due sagome di donna danzare sulla spiaggia. Il capitano era convinto che fosse un miraggio, ma era un miraggio irresistibile, così mandò una scialuppa.
Ed è così che la mia bisbisbisnonna e sua figlia (che poi sarebbe la mia bisbisnonna) furono salvate e raggiunsero Peninsula.

Non ho abitato sempre qui nel framezzo. Avevamo una casa, e Nueva V era un quartiere. Nella prima onda, avevamo il nostro posto, un corpo di edifici e negozi e luoghi di ritrovo e angoli nel quale potevamo riconoscerci e scambiarci sorrisi, e c’è stato un momento, dicono, in cui i giovani Sbiaditi ci venivano, a vedere come sapevamo divertirci, che musica ascoltavamo e che cosa mangiavamo e perché (non si mangia tutti per un motivo?). Ho fatto in tempo a stare in casa mia un battito di ciglia e due sorsi di latte, poi le cose sono cambiate, e molto in fretta.
Certe volte ci penso e mi accorgo di non riuscire più a contare il tempo in mesi e giorni. Sembra che tutto rotoli verso un finale che non so scrivere. Allora lo ricapitolo in pezzi nella mia testa, chiudendo ogni pezzettino nel suo segmento, e prima o poi capirò come metterli insieme (se necessario).
In ordine, prima di tutto, ci sta la mia vita nella casa, che era affollata, colorata, profumata e felice per quel che ne so. Breve. Dicono che per noi fosse diventato complicato già dalla prima onda, quella con definizione postuma (come dice sempre Lukas), perché le cose andavano male, non si capiva perché andassero male e hanno cominciato a dire che andavano male perché noi eravamo gli Oscuri. Lì è nata la definizione, che a pensarci ha anche una sua poesia. Noi vivevamo, in qualche modo, lungo i bordi dell’esistenza dei ricchi Sbiaditi, cercando di non dare troppo nell’occhio ma di procurarci quel che ci serviva con mezzi onesti, più o meno. La libertà l’abbiamo smarrita prima, quando è diventato pericoloso uscire per strada, per noi, che ci riconoscevano, e non era un bel vivere.
Le case le abbiamo perse nella terza onda. La cosa positiva (si fa per dire) è che nel frattempo siamo diventati di meno. La gente del quartiere si è spostata pian piano sui Dossi Scampati. Prima ci andavano i ragazzi un po’ fatti a passare i pomeriggi con le birre e le radio grandi e la musica. Ora tutto il percorso dei tram, da dove stava la Porta allo slargo del capolinea è un tunnel di baracche. O, dovrei dire, una baracca sola, lunga e stretta, dove ci dividiamo gli spazi e le risorse. Abd El Manin dice che a essere così poveri si diventa davvero democratici. Se tutti hanno poco, dividerlo non è difficile. Nel senso: capisci la fame.
Io la capivo anche prima.
– Perché sei venuta qui che eri piccola.
Abd è vecchio (si fa per dire: invecchiamo presto), e si ricorda un po’ di più delle case e di quando avevamo ciascuno la sua famiglia, allargata quanto ti pare, ma comunque consanguinea. Io sono cresciuta qui, e i miei fratelli, tutti maschi, erano più grandi, perciò si sono mescolati agli uomini per imparare quello che c’era da imparare (tipo difendersi e difenderci, pensano loro). I miei genitori, invece, sono tra quelli che hanno fatto spazio morendo quando abbiamo abbandonato il quartiere.
Sono stata cresciuta da tutti e da nessuno. Mi devo ricostruire da sola la mia storia.

La storia immaginaria # 2 comincia da molto lontano, oltre il deserto e le terre degli uomini blu. Comincia da una bambina piccola e resistente, abituata a badare a se stessa e a cavarsela in ogni situazione.
La bambina non aveva una casa e neanche una famiglia, così prese a spostarsi presto, viaggiando verso nord, perché le leggende dicevano che il nord era meglio.
Attraverso la giungla e le battaglie, nel deserto e oltre gli accampamenti dei predoni, la bambina divenne una ragazza. Imparò da sola a nascondere il suo corpo e a proteggerlo da chi voleva farne uno strumento per mettere al mondo figli. Si educò a sottrarsi alla violenza degli uomini e imparò a scivolare via dai rischi.
Conobbe mille albe nel deserto. Schivò le città grandi, che erano il male. Non conobbe prigionia, perché seppe sempre capire chi poteva diventare un carceriere e ne fece il suo schiavo usando la bellezza come un’arma.
Quando arrivò sulla riva del mare, nell’estremo nord del continente, era una donna.
E giudicò di se stessa che era pronta a partire.

Andare a scuola è stata tipo la prima cosa bella, anche se al principio non ci volevo proprio mettere piede. Sbiaditi, Oscuri e Misti erano assieme e perciò l’idea non mi piaceva. Non che avessi paura, no: non capivo perché avrei dovuto fare la fatica.
Spiegare il velo.
Spiegare il vestito.
Spiegare il ramadan.
E vedere poi che non capiva niente nessuno. Mi spazientivo, in quei casi. Non va bene che una donna si spazientisca (o sì?).
Mi sbagliavo, comunque. Scuola, a 10 anni, è diventato “il posto”. Cioè dove volevo stare più di tutti, perché era meglio degli altri. Per di più stava appena oltre il confine del quartiere che prima era Nuova V e che ora si è trasformato in un conglomerato di edifici buttati giù o parzialmente ricostruiti, a singhiozzo tra un’onda e l’altra.
Questa è una città incompleta in un mondo a scatti. Il virus (i virus?) ci ha imposto il suo ritmo che Venerando Rock sanguemisto African-Pop.
Il Venerando Rock piace alla prof. Dice che è troppo vecchia per queste cose, ma poi si entusiasma. Quando si entusiasma prende un’aria sognante che le si addice. Siamo i suoi complici, per questo abbiamo deciso di tornare al Vivaio. Anche prima dell’albero, della Breccia per scappare e della Speranza. La Speranza è maiuscola perché la abbiamo aspettata tanto tempo e ora c’è e si merita di essere trattata con rispetto.
E comunque il bello della musica è che è una storia raccontata a ritmo. Il ritmo delle mie origini inventate.

La storia immaginaria # 3 me l’ha raccontata la prof. Dice di una ragazza bellissima che fece innamorare un dio, e il dio si trasformò in toro, un toro bianco e lucente come una giornata di sole, per avvicinarla. Il trucco funzionò e la ragazza rimase incantata da quella creatura straordinaria. L’amore è una guerra che non puoi vincere, dunque tanto vale abbandonarsi. La ragazza credette di poter amare il dio toro e si fidò del suo corpo. Si invaghì del suo amore e del modo in cui si vedeva riflessa negli occhi dell’innamorato. E scelse lui, abbandonando suo padre, il suo regno e i luoghi in cui era nata. Sul dorso del toro, attraversò il mare, e sull’isola dove approdarono mise al mondo i suoi figli, uno destinato a farsi re, l’altro padrone dell’Inferno e il terzo che divenne una creatura serpente. Erano tutti maschi e tutti destinati alla loro strada. I fratelli della ragazza bellissima la cercarono ovunque, solcando il mare con navi veloci e poi fermandosi in paesi stranieri, dove ebbero mogli e figli. E la famiglia divenne grande e grandissima.
E alla fine successe che le terre sul bordo del mare furono abitate da fratelli e sorelle e da genti dello stesso sangue, seppure con corpi diversi. Nel groviglio del tempo, il mare fu attraversato molte volte e in direzioni diverse, e rotte differenti vennero tracciate. Si perse memoria della principessa che aveva amato il dio toro, ma alla sua stirpe appartengo anch’io.

Sono brava a immaginare. Le mie fantasie non vanno in linea retta ma fanno un garbuglio che le parole organizzano. La prof dice che io penso tra parentesi. È brava a capire le persone e me. Io sono una persona, anche se certe volte mi hanno fatto credere che sono una cosa. Ma io adesso lo so chi sono.
Sono insieme agli altri. Loro sono la mia famiglia, quella che ho scelto, e non me ne posso pentire. Ci penso sempre quando faccio la recupera e poi quando la divido con gli altri ai Dossi. Ci penso quando torno qui e imparo la vita com’è ora, molto diversa da com’era. Nel tempo si cambia, ma anche questo cambiamento non va in linea retta. Scivola, e non possiamo fermarlo. Possiamo adattarci. Lo abbiamo fatto.
Le storie ci hanno aiutato.

Storia immaginaria #∞
(quando i numeri finiscono e la linea diventa un gomitolo).
La mia antenata più lontana si chiamava Amina, come me. Aveva pochi anni quando è diventata grande.
L’ho vista navigare da sola, dopo aver perso in mare le sue compagne e i suoi compagni. L’ho vista resistere. Per mare e per terra, è arrivata qui. E ha trovato l’albero.

———

Immagine di copertina:
Andreco, Bastoni, wallpainting, 2019, Via Francigena, Acquapendente (VT).