Ricorre quest’anno il centenario di una figura probabilmente poco conosciuta al pubblico dei lettori, ma il cui testo più importante sicuramente fa parte della memoria collettiva di ognuno. Si tratta di Mario Lodi, classe 1922, maestro. Il suo Cipì, il passero coraggioso, è un racconto che ha accompagnato generazioni, presente in moltissime librerie delle nostre case. Sebbene dunque il libro sia famoso, poco si sa di chi l’ha scritto. Non è casuale probabilmente, così come non lo è la scelta della scrittrice Vanessa Roghi di ricordarne l’intera esistenza e l’impegno profuso per la scuola italiana.

In Il passero coraggioso. Cipì, Mario Lodi e la scuola democratica appare chiaro già dal titolo quanto fondamentale sia comprendere l’uomo nel contesto sociale e politico che lo vide impegnato fino alla fine: è nella scuola, per la scuola e attraverso la scuola che Lodi porta avanti delle idee rivoluzionarie, non solo a parole.

Vanessa Roghi, Il passero coraggioso

L’opera di Roghi è un vero e proprio atto d’amore per il mondo dell’educazione: se Lodi è il fulcro del tema, appare evidente quanto sia infine la didattica il centro del discorso e della narrazione. Schiacciati da una cultura conservatrice e datata, molti studenti degli anni ’50 – e non solo – si videro subire la scuola, e non crearla. Nelle classi prevalevano programmi obsoleti, gerarchie stantie, ma soprattutto un metodo di lavoro inadeguato. È grazie al MCE (Movimento di Educazione Cooperativa) che le pratiche cominciano a evolversi. Le letture del francese Freineit e dell’americano Dewey, annunciatrici di democrazia e di didattica condivisa, fanno breccia nel mondo scolastico italiano grazie a pochi ma agguerriti insegnanti, i quali comprendono – a proprie spese – l’inadeguatezza del metodo formativo del dopoguerra. A loro si aggiungerà nel 1955 Mario Lodi, e alla sue battaglie in seguito molti altri.

Roghi ripercorre la storia del movimento, e chiaramente, dell’Italia, e i problemi che questi docenti incontrarono. Ne è testimonianza esemplare questo testo di G. Tamagnini, citato dall’autrice:

«In partenza io avevo contro tutti, dirigenti e colleghi, non solo quelli politicamente avversari (come era logico aspettarsi) ma anche i compagni, i quali mi consideravano un idealista illuso, per cui la scuola avrebbe dovuto essere l’ultima preoccupazione, era tempo perduto quello dedicato a migliorarla, con ciò si sarebbe anzi fatto il gioco degli avversari (questo tipo di ragionamento continuò per un pezzo e riaffiorò nel ’68)» (p. 23).

Come si evince dal breve passo, non sempre l’energia di Lodi e degli altri venne premiata o accolta. Stessa sorte, stessa attenzione a ciò che stava portando avanti, la ebbe Don Milani con la sua Lettera a una professoressa. Il rapporto tra il parroco e Lodi rappresenta una delle riflessioni più profonde del lavoro di Roghi, perché rivela interamente lo stato della scuola e la mentalità con cui, a quei tempi, la politica troppe volte appoggiava o affondava chi non rientrava in certi schemi. Il prete di Barbiana rispose così a chi lo criticava di idealismo: «io non sono un sognatore ideale e politico: io sono un educatore di ragazzi vivi» (p. 74).

È chiaro ciò che l’autrice dichiara: la scuola è da sempre scontro di una battaglia politica. Dai testi conservatori e reazionari proposti ai ragazzi fino alle pratiche educative autoritarie, già dai primi anni di vita e di formazione i giovani e le giovani si trovano incanalati in un percorso coercitivo e non liberatorio, e pochi insegnanti – come appunto Mario Lodi – hanno avuto le forze per guardare altrove e proporre una scuola più democratica. Le accuse a loro rivolte altro non sono se non l’azione di una precisa politica del controllo, di una volontà atta a sottomettere e non a liberare.

Non può se non coglierci un sottile filo di malinconia nel constatare quanto ancora oggi la scuola italiana, a tutti i livelli, sembri più preoccupata di formare piccoli burocrati ubbidienti che cittadini consapevoli. Riecheggiano le parole profetiche di un filosofo del Novecento, Carlo Michelstaedter, il quale scriveva nel 1910:

«[…] Un maestro che tenga 4 ore al giorno 80, 90 bambini chiusi in uno stanzone, li obblighi a star immobili, a ripetere ciò che egli dica, a studiare quelle date cose, lodandoli se studino e si adattino alla disciplina – e non s’accorga d’esser un uomo che sta esercitando violenza su un suo simile, che ne porterà le conseguenze per tutta la vita, senza sapere perché lo faccia e perché così lo faccia – ma secondo il programma imposto […]».1

Rendere l’uguaglianza una realtà, e non una astrazione, fu il fine di quei docenti, i quali ancora oggi sono un esempio per coloro che credono imprescindibile fondare nella scuola i pilastri per una società libera e più giusta, dove la parola meritocrazia, così attualmente abusata, non si trasformi in esclusione e snobismo ma in pratica formativa e coscienza democratica capaci di ridefinire l’insegnamento, evitando l’aziendalismo imperante e la logica della assuefazione.

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Note:

1) C. Michelstaedter, La Persuasione e la rettorica, Joker edizioni, 2015, p. 161.

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Immagine di copertina:
Mario Lodi in classe in una immagine d’epoca.