«Pensare l’ambiente come un territorio di relazioni e non come qualcosa da dominare è la grande sfida del futuro. Credo che sia importante pensare il paesaggio come un’opera d’arte vivente, intendo per “arte” un modo di organizzare lo spazio, di trasmettere il sapere, una sorta di registro di significazione e una costruzione del sistema simbolico condiviso».1

Secondo Marc Augé «la scrittura e il paesaggio sono simbolici: ci parlano di ciò che abbiamo in comune e che, tuttavia, per ciascuno di noi resta diverso».2 Attraverso la scrittura, che ripercorre o ricrea paesaggi, il lettore può sentirsi legato a essi, ad altri lettori e all’autore del testo. Non potendo vivere soli, anche se l’ideologia capitalista ha inoculato buone dosi di individualismo, gli esseri umani necessitano di legami e di paesaggi «per ritrovarsi e per perdersi in essi» (pg. 79) e dei loro racconti.

Ogni volta che si legge un libro dell’antropologo Andrea Staid, è netta questa impressione di riconoscimento dei paesaggi, delle relazioni e non è raro intrecciare, attraverso le parole, legami ideali con l’autore o con le comunità di cui ci parla. Sia che si tratti di studiare antiche forme di civiltà senza Stato (Contro la gerarchia e il dominio, Meltemi), o della vita dei migranti nelle città (I dannati della metropoli, Milieu), o ancora del problema cruciale dell’abitare (La casa vivente, add edizioni) il lavoro da etnografo di Staid esce dagli spazi asfittici dell’Accademia, per farsi percorso rasoterra e aperto al dialogo con l’altro.

Andrea Staid, Essere natura

Lo sguardo dell’etnografo, infatti, non raccoglie semplicemente dati esotici per farne un oggetto di studio, ma è un fare esperienza del mondo e un cercare strumenti altri, che scompaginino non solo certe visioni del mondo, ma soprattutto certe pratiche di vita. E Andrea Staid non è nuovo a questo procedere, da antropologo qual è sperimenta zone d’ombra, va in cerca di altri mondi, di altre modalità di costruire società e relazioni. Anche quest’ultimo libro, Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, pubblicato da UTET, non fa eccezione: infatti, è un piccolo libro che può essere letto come un manuale di (buona) sopravvivenza in epoca antropocenica, leggero e chiarissimo, nel quale ritrovare le più recenti teorie sulla questione natura/cultura, la problematica colonialismo e antropocentrismo, l’inquadramento del problema dell’estrattivismo, l’infraspecismo e la cura dell’orto come (buona) pratica di condivisione.

Attraverso sguardi altri, altre pratiche di vita e di relazione uomo-natura, Staid ci mostra, soprattutto attraverso l’esempio delle popolazioni indigene, risposte possibili a problemi reali e urgenti. Perché, se l’occidente ha optato per una netta separazione uomo-natura, erigendo barriere e rifiutandosi di condividere il pianeta con gli altri esseri viventi, ma dominando su tutti, ad altre latitudini esistono culture che vivono diversamente. Culture che hanno scelto di mantenere e rafforzare legami con animali umani e non umani, che hanno scelto la via di un rispetto sacro per i luoghi che li ospitano e che li nutrono. Queste culture, che hanno subito l’assalto e lo sterminio della colonizzazione bianca diventano, nei racconti di Staid, spunti di riflessione e autocritica verso un mondo di cui una parte dell’umanità non ha saputo prendersi cura.

Nel primo capitolo del libro l’antropologo illustra il dibattito intorno al tema natura/cultura. «La natura viene concepita in molte parti del mondo come un insieme di relazioni che vanno oltre la specie» (p. 15) e sono molti ormai gli studiosi che da decenni tentano di decostruire un’altra idea di natura, quella della separazione e dell’individualità. Viveiros de Castro, Descola, Latour, Ingold, Tsing e molti altri smontano un dualismo che per lungo tempo ha abitato la stessa antropologia e fondato visioni del mondo e studi scientifici. Il paradigma occidentale natura/cultura è solo una delle tante visioni possibili del rapporto che si può instaurare tra uomo e natura, con tutte le conseguenze che questo comporta, non da ultima quella della retorica della salvaguardia della natura, della creazione di riserve naturali e luoghi dove la natura viene liberata dalla presenza dell’uomo e museificata. Lontano dall’Occidente questa separazione è difficilmente comprensibile, proprio perché si è sviluppata nel contesto preciso di teorie nate nella filosofia aristotelica e che si sono strutturate e cementificate nella teologia cristiana. È qui che l’uomo si erge a dominatore assoluto di tutto ciò che lo circonda. Secondo Staid questa concezione dualistica della natura è alla base «del disastro ecosistemico che caratterizza la nostra epoca» e «potremmo dichiarare che è da questo momento che si pongono le fondamenta per l’Antropocene» (p. 17). Questa visione culturale che Descola (Par-delà nature et culture, Gallimard) chiama naturalismo, ovvero la visione secondo la quale solo gli umani hanno un’anima e sono superiori agli altri viventi è quindi soltanto una delle quattro modalità di relazionarsi alla natura che l’antropologo francese ha individuato. Accanto al naturalismo, infatti, troviamo l’animismo, in cui non c’è distinzione netta tra umano e natura, il totemismo, dove c’è condivisione di una parte delle caratteristiche e modo analogico, in cui ogni essere vivente è diverso da tutti gli altri. Prendere consapevolezza di questa impasse nel quale l’Occidente è scivolato in modo sistemico a partire dal Rinascimento ci aiuta a concepire altri modi di relazione possibili.

L’uomo occidentale ha poi tentato di estendere questa sua visione al resto del mondo attraverso la colonizzazione violenta di interi continenti. Lo sterminio umano e culturale che ne è scaturito ha creato vere e proprie scomparse o sostituzioni di pratiche di vita, credenze, e ha minato la sopravvivenza di popolazioni indigene che, solo in minima parte, sono riuscite a sopravvivere al disastro dei colonizzatori. Subito dopo aver illustrato la problematica natura/cultura è il trauma della colonizzazione che viene affrontato da Staid, proprio perché la colonizzazione è stato un momento capitale anche per il cambiamento climatico, in quanto ha scatenato un forte aumento delle emissioni. Il mondo che si crea a partire dal XVI secolo è un mondo in espansione nel quale la natura stessa finisce per essere plasmata a uso e consumo dell’ideologia occidentale. «Gli sforzi per proteggere la natura, particolarmente intensi alla fine del XIX secolo, si trasformarono in nuove opportunità di controllo coloniale» (p. 31). Eppure, oggi sappiamo che l’80% della biodiversità del Pianeta si trova nelle terre abitate da popoli indigeni, a dimostrazione del fatto che non occorre recintare la natura per la sua salvaguardia, ma è necessario pensare ad altri modi di abitarla. Riconoscere il ruolo che oggi hanno le popolazioni indigene nel mantenimento della biodiversità, inoltre, sarebbe riconoscere che ci sono altre modalità di abitare il pianeta, oltre a quella dicotomica della distruzione/conservazione. È dunque di un approccio «ecologista decoloniale» di cui ci parla Staid. Un’ecologia che rimette in discussione alle fondamenta l’intera civiltà occidentale, «basata sulla morte, sull’asservimento delle comunità indigene e sulla sottomissione degli altri esseri viventi» (p. 34).

Uno degli assi portanti del colonialismo, ci ricorda poi l’antropologo, è l’estrattivismo. Perché i Paesi colonizzatori, per poter continuare la loro corsa al progresso avevano (e hanno) bisogno innanzitutto di materie prime. E le materie prime si prendono in Paesi lontani sfruttando la manodopera e lasciando dietro di sé un deserto nel quale non crescerà più nulla. La predazione del «Sud globale» vede oggi «3267 casi di conflitti socioecologici nel mondo di cui 453 solo in Africa» (p. 36). La green economy sulla quale i Paesi occidentali stanno costruendo il loro ritorno alla natura, è interamente basata su materie prime che continuano a essere predate da alcuni Paesi, senza nessun riguardo verso le conseguenze che questi ultimi devono subire. Deforestazione, uso improprio del suolo ed estrazione di minerali hanno contribuito a un’accelerazione del cambiamento climatico. A questo proposito «il movimento delle donne indigene per il buen vivir propone il concetto di “terricidio”, come l’annientamento della vita dei territori, della vita dei loro popoli e dell’ascendenza che essi incarnano, e che dovrebbe essere considerato come un crimine contro l’umanità» (p. 38). Natura, colonialismo ed estrattivismo sono dunque concetti chiave per valutare la sottomissione dell’ambiente e ripensare nuovi modelli pratici di vita.

Di queste nuove pratiche di vita ci parlano gli ultimi due capitoli del libro e, soprattutto, l’appendice etnografica finale, uno strumento che rende questo un testo pratico, attraverso il quale veniamo a conoscenza di esperienze di vita già in corso, che diventano uno spunto di riflessione su modalità altre, attraverso le quali possiamo ripensare le nostre vite. Con il racconto della sua scelta personale di lasciare la città per trasferirsi nelle montagne liguri, Staid ci parla della sua esperienza di coltivazione di un orto, di un abitare scomodo, ma ricco di incontri e di una fatica che recupera una praticità umana ormai in disuso.

«Tornare ad essere homo faber è una necessità per il futuro che costruiremo, significa imparare di nuovo a essere donne e uomini artefici, in grado di trasformare la realtà grazie alle proprie capacità pratiche e intellettuali» (p. 45). Una trasformazione che passa per il camminare, il vangare l’orto, il costruire una rete di relazioni con i vicini, circuiti corti che tornano su sentieri delicatamente modellati dall’uomo nel corso di millenni. Ed è lo stesso per le persone intervistate in appendice, le quali ci raccontano storie diverse ma tutte accomunate dalla volontà di svincolarsi da stili di vita non più sostenibili e trovare altri modi, altre strade per vivere un’esistenza ricca di soddisfazioni personali e di relazioni non di dominio, ma di collaborazione.

L’utopia di cui ci parla Staid è un’utopia necessaria, un ideale che, a prima vista, può sembrare complicato da mettere in pratica, ma che attraverso lo sguardo aperto dell’etnografo e una lingua amichevole, in grado di comunicare l’essenziale, diventa possibile. Del resto, come dice Latour «ormai è impossibile progredire, si tratta di intraprendere un percorso alla rovescia, ripensare l’idea di progresso, retrogredire, scoprire un altro modo di sentire lo scorrere del tempo: il nostro imperativo dovrebbe essere quello di scoprire un percorso di cura senza la pretesa di guarire in fretta» (p. 74).

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Note:

1) Andrea Staid, Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, UTET, Milano, 2022, p. 69.
2) Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Milano, 2004, p. 79.

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Immagine di copertina:
un fotogramma da Luiz Bolognesi, A última floresta (The Last Forest), 2021.