[Pubblichiamo un estratto da La violenza di Marise Ferro, Elliot edizioni 2022, introduzione di Francesca Sensini. Per gentile concessione dell’editore].

Marise Ferro, La violenza

1

Incominciò così: eravamo a tavola, alle frutta, il momento che mio padre sceglieva per dare ordini o imporre cose sgradevoli. Disse: «Stasera verrà Marina Viale, l’ho invitata per l’ora in cui vengono i soliti amici. Le piace molto il gelato di crema, fateglielo trovare».

Come sempre, nell’ostentare una volontà offensiva, il suo occhio non guardava apertamente né mia madre né me, ma sfiorava le nostre teste chine. Per quanto fossi abituata a subire le sue tirannie e a udire i suoi ordini insolenti, ebbi un gesto di sorpresa. Egli se ne accorse, chiese: «Trovi qualche cosa da ridire?».

«Non prima della mamma» risposi, guardando mia madre per incitarla a replicare.

Mia madre, come il solito, non disse nulla e chinò il capo. Mio padre ridacchiò, si alzò da tavola, ci dominò con la sua statura, la sua forza, la sua bellezza di maschio ed aggiunse: «Intesi, allora: un buon gelato alla crema e un’accoglienza gentile».

Accese un sigaro e uscì dalla stanza.

Ebbi uno scatto, gridai, quasi: «Come puoi sopportare, mamma? Marina Viale è la sua amante, come puoi riceverla in casa, presentarla agli amici?».

Mia madre alzò una mano stanca, disse: «Oh, gli amici di tuo padre! Sono servi, accettano tutto da lui. Ti prego, non occuparti di queste faccende, sei giovane, non puoi capire».

«Non posso capire che ti offende più clamorosamente del solito imponendoti di ricevere la sua amante? Finora la nostra casa è stata rispettata».

«Rispettata? Ti fai delle illusioni, cara. Marina Viale non è l’affronto più grave che devo subire, almeno è una donna per bene, che ha educazione, che sembra amare tuo padre, che forse lo migliora. In confronto a… Ma perché ti dico queste cose? Non puoi capire» ripeté.

«No, non posso capire i tuoi accomodanti pensieri. Una donna per bene, come la definisci tu, non accetta di andare nella casa del proprio amante, dove vivono la moglie e la figlia».

Mia madre lasciò la sedia sulla quale era seduta come se le bruciasse, si diresse verso la porta. Il suo passo era strascicato, il suo corpo più fragile del solito. Erano il passo, il corpo della vittima. Ne ebbi pietà e disgusto, non dissi più nulla. Mi alzai anch’io e uscii in giardino. Avevo bisogno d’essere sola e di camminare. Soltanto la solitudine e il moto riuscivano a portare un po’ di calma nei miei pensieri. Andai fino al mare e tornai in tempo per non ricevere una sgridata da mio padre in presenza dei soliti ospiti serali.

Per tutta l’estate, dalle nove a mezzanotte, egli raggruppava intorno a sé i pochi amici che aveva. Davanti alla casa, nello spiazzo illuminato da una lampada azzurra, erano disposte poltrone di vimini, divani di bambù e cretonne, tavolini leggeri. La lampada lasciava cadere sui cespugli di margherite bianche, di pelargonium, di rincospermo, una luce spettrale in cui le piante perdevano la loro fresca qualità vegetale. I visi delle persone diventavano bianchi come il gesso, col segno nero della bocca e degli occhi. Quella luce, quei visi, mi irritavano tanto che mi sedevo sempre in disparte, al buio. Il mio angolo preferito era un muretto rivestito d’edera ai cui piedi era una panca di pietra. Addossata al muro, cercavo di fare dimenticare la mia presenza. In quell’ora, mi aiutavano le cose: l’edera d’amaro odore, la caduta sensibile dei rami della mimosa sensitiva, l’acqua vagamente illuminata della vasca, la siepe altissima di buganvillea fiorita. Il giardino, che amavo, che conoscevo, era espresso soltanto dagli odori. Percepivo la fragranza delle magnolie, del gelsomino, delle rose tea, a una a una, afferrabili quasi, precise nell’aria tiepida, fragranze amare, acide, fresche, effuse nella notte, e quella vita misteriosa, a cui non vedevo radici, mi sembrava un fiato d’altri mondi. Il lume delle stelle si infilava negli aghi dei pini, lungo i tronchi delle palme correvano rivoli d’argento, l’onda del mare, visibile, lasciava sulla sabbia una traccia lustra come le squame dei pesci. La bella notte si posava sul mio cuore e mi strappava al mondo delle persone umane.

Per quasi tutto il giorno in me erano una vampa continua, un dominato furore. Avevo diciannove anni, era vissuta sempre solitaria, senza amici della mia età, costretta all’ignoranza, alla pigrizia dalla volontà di mio padre. Egli era un uomo duro, altezzoso e dispotico. Non aveva controlli su se stesso né voleva averli, e i suoi difetti erano esaltati dalla ricchezza, che lo riempiva di orgogliosa prepotenza. Aveva sposato mia madre, scelta deliberatamente di condizione modesta, per avere in casa una donna da maltrattare. Era un despota con tutti i difetti dei despoti: la stupidaggine, i salti d’umore, l’insensibilità, l’amore cieco di se stesso. In lui non avevo mai colto un dubbio, una paura, una malinconia. In casa e fuori di casa agiva impavido, illuminato da una bellezza vistosa che gli dava l’aspetto del trionfatore.

Lo odiavo. Odiavo in lui la qualità umana, che giudicavo spregevole. L’odio era un sentimento fermo e infuocato, che a volte doleva dentro di me come un organo leso e che non aveva storia. Dalla mattina alla sera muovevo sempre gli stessi pensieri, che a momenti non erano più pensieri, ma una melma che mi avvelenava. Vivevo male, col disagio continuo di sentirmi incapace di accettare gli uomini e le loro azioni.

Lo sdegno e l’odio mi rendevano intransigente. Non conoscevo pietà, ma solo rifiuto. In me era il continuo bisogno dell’eccesso. Alla viltà, alla falsità, alla prepotenza che vedevo intorno non sapevo contrapporre che una violenza estrema: la morte. Fantasticavo la morte come l’unica soluzione possibile.

Addossata al muro, mentre mio padre chiacchierava con gli amici e mia madre taceva, mi divertivo a un giochetto. Ancora bambina avevo udito una discussione che mi era rimasta impressa: cioè se un uomo può avere il diritto di uccidere un nemico invisibile e lontano, anche all’altro capo del mondo, premendo semplicemente un bottone elettrico. Tuer le mandarin. Era una morte che mi piaceva, la mia immaginazione l’accettava. Seduta in giardino, nella prestigiosa notte estiva, mi divertivo a immaginare di premere un bottone e di vedere cadere a uno a uno gli amici di mio padre. Erano due, con le mogli: due uomini ricchi e soddisfatti, senza un’idea in testa, tronfi e stupidi. Non parlavano che di loro stessi, da essi non uscivano che luoghi comuni. Le donne erano più vuote, con la sola preoccupazione di salvare a tutti i costi la loro vita comoda e la loro vanità. Se fossero morti nessuno avrebbe pianto per una valida ragione. Tuer le mandarin. Premevo il bottone, essi cadevano come fantocci. Non toccavo né mio padre né mia madre, pure essi erano l’origine giornaliera di tutti i miei scontenti. Perché? Non sapevo darmi risposta.

Quella sera vidi Marina Viale entrare nel gruppo. Arrivò per ultima e si fermò un poco lontana dalla luce della lampada azzurra, come se la temesse. Era una donna bella, dal viso docile, dal corpo importante, grasso e leggero nello stesso tempo, dalle carni splendide. Nella penombra il suo viso era remoto, sembrava non appartenere a una persona umana. Non sorrideva, si guardava intorno con un leggero impaccio e quando il suo bell’occhio nero si posò su mia madre le ciglia ebbero un leggero fremito. Vidi, o mi parve di vedere, un’espressione di tenerezza addolcire la parte superiore del suo viso, già dolce. Non ebbi, come mi aspettavo, nessuna antipatia contro di lei, ma non ebbi tempo di interrogarmi perché mio padre mi chiamò: «Antonia! Saluta la signora».

Uscii dall’ombra, salutai Marina. Ella mi strinse la mano e mi sorrise. Non disse nulla, sedette su una poltroncina e vi rimase, taciturna ma non assente. Tornai al mio posto e la osservai. Di quando in quando volgeva la testa e capivo che cercava di vedermi. Ma ero nascosta dal muretto d’edera, potevo osservarla senza essere vista. Mi ero preparata ad odiarla e invece mi piaceva. Era diversa da come l’avevo immaginata. Per quanto avessi sempre davanti agli occhi mia madre, ch’era mite d’aspetto e di carattere, immaginavo che a mio padre piacessero le donne vistose, volgari, di parola pronta e di riso alto. Marina era bella con estrema compostezza, il suo comportamento, i suoi gesti, i suoi abiti erano quelli di una vera signora. “Come può essere amata da mio padre, e come può amarlo?” mi chiedevo, e mi perdevo in una vaga fantasticheria. Non mi accorsi che il tempo passava. Mi riscosse nuovamente la voce di mio padre che diceva: «Hai sentito, Antonia? La signora Marina ti ha invitato domani a colazione».

Risposi subito, irritata: «Mi dispiace papà, non posso, ho un impegno, la signora mi perdonerà…».

«Impegno? Con chi? Dove? Non ammetto impegni. A diciannove anni gli impegni non hanno nessuna importanza…».

Marina lo interruppe: «Perché non hanno importanza, Orengo? Lasci che Antonia vada al suo impegno, verrà da me un altro giorno».

Allora dissi: «No, verrò domani, signora, la ringrazio».

«Ti aspetto per l’una, ma puoi venire anche prima, se vuoi, vedrai il mio giardino…».

Alta davanti a me, ch’ero ancora seduta, Marina era immensa e accogliente. La sua voce aveva un timbro mutevole, con note un po’ roche. Bella voce, che dava corpo alla notte e alle fragranze che mi circondavano. Fui contenta di avere accettato il suo invito. Ella prendeva commiato. Dopo avere salutato mia madre, si diresse verso il cancello, accompagnata da mio padre e dagli altri ospiti. Non li seguii, mi diressi verso casa, sulla soglia aspettai mia madre che spegneva la lampada azzurra.

«Hai sentito, mamma» dissi quando mi raggiunse. «Sono stata invitata da Marina Viale ed ho accettato. Che cosa pensi di me?».

Mia madre alzò una spalla: «Che sei una bambina. Buona notte, cara. Te lo avevo detto» aggiunse voltandosi verso di me, prima di salire la scala che conduceva alle nostre camere.

«Marina è una donna educata e fine, ti piacerà».

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Immagine di copertina:
© Barbara Kruger, Untitled (We Don’t Need Another Hero), 1987