[Pubblichiamo, con il permesso dell’editore, un estratto dalla raccolta di racconti di Claudio Kulesko L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto, Nero, 2022].
Kulesko, L'abisso personale di Abn Al-Farabi

I

Il 6 ottobre 1944, verso le sette del mattino, il bombardiere B-29 Superfortress «Enola Gay» fa il suo ingresso nello spazio aereo giapponese. Ad accompagnarlo ci sono altri due mezzi, della medesima categoria: il «The Great Artiste», col suo muso interamente occupato dall’immagine di un performer intento a indicare al pubblico qualcosa fuori campo, e il «Necessary Evil», il «male necessario» incaricato di documentare l’evento. Un’ora dopo, i velivoli compaiono sui radar del centro di comando della città di Hiroshima, capoluogo dell’omonima prefettura. Dinanzi a tre soli velivoli, i giapponesi decidono di non intervenire per risparmiare carburante. L’impresa americana si risolve, così, in un capolavoro tattico.

Pochi secondi prima delle otto e un quarto, l’Enola Gay sgancia sulla città il frutto del lavoro combinato degli scienziati del Progetto Manhattan. MK1, «Little Boy», sazio di sessanta chili di uranio, detona dopo quarantatré secondi di caduta libera, a seicento metri dal suolo. Un missionario gesuita, Pedro Arrupe, testimone oculare dell’evento, racconterà di aver visto un bagliore accecante, qualcosa di simile alla vampa fugace prodotta dal contatto tra magnesio e ossigeno.

Più tardi, verso mezzogiorno, un giovane ufficiale del comando generale viene inviato sul posto, con l’incarico di scoprire il motivo per cui, da ore, non si riesce in alcun modo a mettersi in contatto con la base di Hiroshima. L’ufficiale si procura un copilota e monta su un aereo. Tre ore più tardi, i due si ritrovano in volo sopra una cicatrice ardente, incisa sulla superficie terrestre dalla lama infuocata di un dio.

Il giorno dopo, il 7 agosto, padre Arrupe si reca in chiesa per cercare conforto nella preghiera. La trova stipata di feriti che si contorcono a terra per il dolore; i loro corpi sono piagati, coperti di ustioni irregolari e dalle forme bizzarre. Quel giorno il gesuita non riesce a celebrare messa, né tantomeno a pregare. Il numero dei morti ammonta a circa duecentomila, tra quelli spazzati via dall’esplosione e quelli dovuti al fallout. Una cifra ancora oggi dibattuta.

Da ragazzo, studiando storia sul libro di testo delle superiori, rimasi impietrito dinanzi alla foto della sagoma impressa sul muro della Sumitomo Bank di Hiroshima. Una macchia scura, antropomorfa. La gamba destra sollevata, come se stesse per emergere dalla pietra. Sebbene in molti, nel corso del tempo, abbiano reclamato quella macchia come l’ultima spoglia di uno dei propri cari, i curatori dell’Hiroshima Peace Memorial Museum hanno stabilito che si tratta dell’ombra di Mitsuno Ochi, una donna di quarantadue anni. Al momento del decesso, la donna era seduta sui gradini, in attesa che la banca aprisse i battenti. Il suo corpo fu carbonizzato all’istante dall’esplosione. Di lei non rimane che quell’ombra, intenta a correre, senza posa né meta, in direzione del cielo.

Lo so. Si tratta di un fenomeno già spiegato dalla scienza. Quante volte ancora dovrò sentirmelo dire? Quando l’onda di calore generata dall’esplosione incontrò il corpo della donna, questo ne ostacolò la propagazione, facendo sì che tutto attorno a sé venisse bruciato, fatta eccezione per la porzione di spazio che occupava.

Ma la macchia non è il mero prodotto dell’interazione tra luce e calore. Su di essa sono state rinvenute tracce di cenere. Una patina sottile, nera, simile a fuliggine. Per certi versi, si potrebbe dire che quella sagoma sia Mitsuno Ochi o, meglio, la sua essenza, per sempre immortalata su quella superficie custodita in una teca di vetro da decenni.

Ad maiorem Dei gloriam.

***

II

Molto tempo fa – ero ancora un bambino – accadde qualcosa che cambiò per sempre il mio modo di vedere le ombre. Da qualche giorno mio padre aveva deciso che era giunta l’ora di dormire con la luce spenta come un vero ometto. La decisione mi era stata comunicata a colazione, da dietro un quotidiano spalancato, dandomi modo di comprendere come dovevano essersi sentiti Dorothy e i suoi compagni al cospetto del Mago di Oz.

La prima sera, quando mia madre si presentò in camera mia per darmi il bacio della buonanotte, seppi fin da subito che era lì in veste di emissaria di un’autorità incontestabile. In cuor mio, nel vederla così ansiosa e preoccupata, maledissi mio padre, ma non osai protestare. Dopotutto, sapevo che prima o poi sarebbe giunto quel momento. Ricordavo bene, inoltre, ciò che mio fratello era stato costretto a subire quando, anni prima, si era intestardito a riaccendere la luce non appena mia madre avesse varcato la soglia. Una notte, sarà stata mezzanotte passata, mio padre aveva avuto la sfortunata idea di andare a controllare che tutto stesse andando secondo i suoi piani. Senza far rumore, aveva socchiuso la porta della stanza e colto mio fratello in flagrante. Dopo averlo svegliato in malo modo, se l’era trascinato appresso per tutta casa. Giunto alla porta della cantina, l’aveva aperta e vi aveva gettato dentro il poveretto. Dalla mia stanza al piano di sopra, avevo udito la porta sbattere e la chiave girare per tre volte nella toppa.

«Ti insegno io cosa significa essere un uomo!» lo avevo sentito gridare. Poi era andato al quadro elettrico e aveva tolto la corrente alla cantina. Urla disperate avevano continuato a levarsi per più di un’ora, per poi farsi sempre più rade, finché non si erano spente del tutto.

Il mattino seguente, mio fratello era riemerso dalla cantina finalmente libero dalla paura del buio. La sua mente, in compenso, si era affievolita, come una fiamma di candela scossa dal vento. Per anni, parve sobbalzare al benché minimo rumore. Si fece sempre più introverso, sempre più chiuso in se stesso, come se, a poco a poco, stesse collassando verso l’interno.

Fin dalla prima sera, mi disperai al punto da raggomitolarmi ogni notte al centro del letto, con le lenzuola tirate su fino al mento e lo sguardo rivolto alla porta, così da poter scorgere subito eventuali intrusi. Nella testa, mi rimbombavano vecchie storie di uomini neri, creature asserragliate negli armadi e sotto il letto, spiriti maligni e demoni dai denti affilati. Ma anche le eco di storie che non avevo mai udito. Mormorii primordiali che parevano giungere dal profondo della mia mente. Ciascuna di quelle storie concordava con le altre su un punto: non è saggio fidarsi del buio, tantomeno concedersi a esso con tanta leggerezza.

Uno stato di vigilanza perpetua che, però, non durò a lungo. Notte dopo notte, le voci nella testa si fecero più flebili, finché non scomparvero del tutto. Pian piano mi abituai a starmene da solo nel buio e, infine, al quinto giorno, non mi ci volle che qualche minuto per prendere sonno. Più tardi mi svegliai di colpo, con la sensazione di non essere solo nella stanza. Spalancai gli occhi, tentando di abituarli il più in fretta possibile al buio che regnava incontrastato. Un formicolio, qualcosa di simile a uno stuolo di insetti che si fossero improvvisamente posati sul mio corpo, mi attraversò la schiena. Oggi sarei pronto a giurare che si trattava del mio cervello, teso ad avvertirmi di un pericolo captato un istante prima che io potessi anche solo realizzarne la presenza.

C’era qualcosa seduto ai piedi del mio letto. Una sagoma indistinta, dai bordi appena accennati. Pareva intenta a rigirarsi qualcosa tra le mani. Placida e assorta come una madre al capezzale del figlio. Trattenni il respiro e sgranai gli occhi, quanto più possibile, ma l’oscurità parve tornare su se stessa, ancora e ancora, senza mai restituire allo sguardo forme intelligibili.

Urlai con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Non ricordo se l’ombra si mosse o reagì in qualche modo. Se così fu, non ebbi il tempo di rendermene conto. D’un tratto la luce trapelò dalla porta spalancata. Mia madre si fiondò su di me e mi strinse tra le braccia, quasi fosse rimasta in attesa di quell’istante per giorni e giorni, senza mai chiudere occhio.

———

Immagine di copertina:
© David Selbert, Deer on grassy meadow among trees in wild nature, via Pexels