Introduzione. Tups Theory: la nuova scienza
Popi Porrini

Il testo di Luca Negrogno qui presentato è apparso in un libro di recentissima pubblicazione presso LEM edizioni, Almanacco TUPS 2022 Nuovi disturbi autistici, a cura di Neuropeculiar – una raccolta di testi di diversi autori e di diversa forma, saggio, pièce teatrale, racconto, poesia – presentato al recente evento AUTcamp tenutosi lo scorso ottobre all’Università La Sapienza di Roma. Lì neuroscienziati, antropologi, filosofi, linguisti, casalinghi, psicologi e varie altre tipologie umane si sono incontrati per portare attenzione a un tema sulla breccia del discorso pubblico, ovvero ciò che lo sguardo medico ha individuato come “autismo”, ma da una prospettiva radicalmente differente da tale matrice originaria, ovvero come inscrizione in un orizzonte di non conformità alle aspettative sociali conseguente a modalità relazionali, cognitive, sensoriali, esistentive, emotive peculiari.
TUPS dice tale indifferenziato umano individuato dalla categoria “autismo”; sono i Tipi Umani Particolarmente Strani titolo di un libretto che si occupava della storia e del presente di una sottocategoria ormai defilatasi dalla nomenclatura prevista, “Sindrome di Asperger”. L’Almanacco è una presa di parola collettiva che contestualizza di discorso corrente in relazione alle vite TUPS, è l’esito di un processo di coscientizzazione singolare e collettivo, un libro polifonico e multidimensionale, con il raro pregio di essere una lettura piacevole, oltre che straordinariamente interessante e fondativo di una nuova disciplina, la TUPS Theory, di cui le scienze sociali sentivano oggettivamente la mancanza. Potete ordinare il libro a LEM edizioni e così sostenere le associazioni che hanno promosso l’impresa e il decollo anche in Italia di ciò che nel mondo prende il nome di Critical Autism Studies, la TUPS Theory, insomma.

Almanacco TUPS 2022

Considerazioni preliminari per un dialogo tra i movimenti di users/survivors/refusers della psichiatria e i movimenti della neurodiversità
Luca Negrogno

«I legami con i valori culturali dell’ideologia dominante sono inoltre evidenti nelle forme neurasteniche “postraumatiche”. In esse si assiste spesso ad una concretizzazione dell’ansia, scatenata dall’insulto, in astenie, sensazioni dolorose localizzate nella zona traumatizzata, nonostante le assicurazioni del medico circa il perfetto ristabilimento della sindrome traumatica. Ciò che risulta evidentemente alterato in questi casi, è l’immagine che il traumatizzato conserva del “suo cervello”, del “suo cranio” come “contenitore dei centri vitali”, della sua “materia cerebrale” che non può (ed in questo suo non potere è appunto presente un sistema di credenze che continua a determinare i suoi effetti) restare indenne ad un insulto tanto grave, proprio a causa della nota fragilità. In questo senso il neurastenico è sí un malato immaginario, ma in quanto malato nell’immagine del proprio corpo; in questo senso lo si potrebbe definire un malato ideologico che vive contemporaneamente dell’ideologia del proprio corpo e dell’ideologia dell’altro (quindi dell’ideologia dominante) e – strutturato nell’ansia di fronte all’impossibilità di contestare l’altro e quindi il mondo – è costretto ad esperienziare il proprio corpo, l’altro ed il mondo, in modo regredito e fantasmatico» (Franco Basaglia).

Il tentativo di costruire un dibattito tra survivor/users/refusers della psichiatria e movimenti della neurodiversità è iniziato in Italia durante AUTCAMP 2021 grazie al fatto che la associazione Neuropeculiar mi ha invitato al suo evento nazionale in virtù del mio interesse nel campo della storia della deistituzionalizzazione e delle politiche dei servizi di salute mentale. Nella mia prima relazione sul tema, nel novembre 2021, avevo proposto che si avviasse un dibattito tra diverse prospettive marginali rispetto al campo della salute mentale, riprendendo la tradizione delle lotte anti-istituzionali e cogliendo ulteriori stimoli dalle indicazioni dei mad studies e della recente teoria transfemminista e postcoloniale.1 Questo consente uno scambio proficuo anche per le diverse linee teoriche chiamate a supporto di questo progetto: la stessa riflessione anti-istituzionale può arricchirsi e attualizzarsi nello studio del rapporto tra i movimenti di survivors/users/refusers della psichiatria e i movimenti della neurodiversità. La possibilità di dialogo tra varie forme di affermazione di soggettività e saperi che insistono ai margini del campo della salute mentale consente di superare l’individualismo metodologico dominante oggi su questi temi e indirizzare la riflessione verso forme di azione collettiva rivolte al cambiamento sociale e al contrasto all’esclusione. Obiettivo di questo scritto è delineare alcune premesse fondamentali per inquadrare il dibattito. In primo luogo è necessario collocarsi in senso critico rispetto al concetto di salute mentale, innervato di individualismo e oggettivismo ingenuo, mostrando quanto la tradizione pratica e teorica della deistituzionalizzazione può essere ancora attuale nella sua analisi critica. In secondo luogo riporterò alcune letture politico-sociali sui movimenti della neurodiversità e mostrerò le possibili forme di interlocuzione con le elaborazioni dei movimenti di users/survivors/refusers della psichiatria, svoltesi in questi anni attraverso il campo dei mad studies e dei critical disability studies.2

Riformulare il concetto di mentale

L’ambito di indagine che dobbiamo preliminarmente configurare è quello della salute mentale come campo complesso, la cui portata politica emerge più chiaramente se ne conduciamo l’analisi attraverso i saperi “minori”, prodotti dalle soggettività che insistono ai suoi margini, portatrici di possibilità di risignificazione, riappropriazione, ridefinizione dei confini stessi di questa nozione – in un conflitto rivelatore degli assi della loro implicita dinamicità. Salute mentale è una nozione problematica per più aspetti: in primo luogo il “mentale” esiste come ambito separato, polarità opposta al fisico in una visione dicotomica che affonda le radici nelle origini del pensiero borghese, che oggi si rivela controversa dal punto di vista epistemologico e insostenibile dal punto di vista politico: il confine mente/corpo, a partire da condizioni storico-sociali date, è prodotto sulla base di un modello di soggettività che stigmatizza ed esclude le difformità sulle assi di classe, genere e razializzazione, è prescrittivo più che descrittivo; il concetto di “neurotipicità” ha avuto anche il merito di indicare l’aspetto performativo di questa categorizzazione – definire il limite entro cui la norma scava fenomenologicamente l’esperienza producendo l’ideologico nascondimento di una posizione privilegiata. Insistendo sul confine mente/corpo si riproduce la performance abilista e suprematista che accompagna un concetto di salute normativo, i cui esiti sessisti e neocoloniali sono stati recentemente messi in luce dal People’s Health Movement.3

Un ulteriore approfondimento critico della violenza esercitata da questo modello viene dalla riflessione femminista indigena sul corpo-terra, che fornisce spunti utili ad approfondire il tema classico dell’incorporazione formulato dalla antropologia medica indicando il corpo come inseparabile da processi comunitari di resistenza alle forme di estrazione capitalistica.4 Similmente le attiviste dei servizi user-led hanno riconosciuto la relazione tra “emobied trauma” e condizioni di oppressione sistemica: laddove lo scienziato borghese bianco vede solo il somatico – e silenzia i problemi politici ad esso connessi con una asettica teoria della somatizzazione – i movimenti di users insistono sulla possibilità di cogliere l’oppressione attraverso la solidarietà tra corpi vissuti, soprattutto laddove l’accesso alla parola e alla concettualizzazione è ulteriormente impedito dalla violenza sistemica. In definitiva non è possibile tematizzare il mentale senza ritornare sugli impliciti politici del corpo, sul corpo come luogo di contraddizioni in cui possiamo saldare la critica anticoloniale alla psichiatria fatta da gruppi di survivors psichiatrici, le critiche all’individualizzazione e invisibilizzazione di contraddizioni sistemiche e la questione della molteplicità dei corpi messa in luce tra gli altri da Raul Kyrchmeyr nella lettura dell’opera di Franco Basaglia,5 secondo cui «il corpo è disposto sempre come luogo più opportuno per il sapere/potere» e «il corpo chiede di essere liberato dalla teoria, di liberarsi da quella falsa rappresentazione che pure lo ha costruito, nel percorso della modernità, come oggetto di sapere». In questa contraddizione, che Basaglia fa risalire alla coesistenza di corpo individuale e corpo sociale – quest’ultimo modellato dal potere/sapere dominante sulla base del corpo economico – si gioca il nascondimento/funzionalizzazione dell’irrazionale, l’impossibilità di prendere parola se non nel linguaggio predisposto dal potere e dall’ideologia, l’ambiguità del vissuto esistenziale quando l’organizzazione sociale tende ad escludere il polo irrazionale della contraddizione e a rifunzionalizzarlo solo come malattia: «in sostanza, o c’è il corpo del potere o c’è il corpo di noi tutti. Ma in questo caso non può essere che un corpo socialmente e realmente partecipato».6 Preferiremo quindi la nozione di vissuto o condizione esistenziale per evitare mentale o psichico, alludendo ad una forma di oggettivazione più ampia, capace di tenere aperti vari livelli di questa contraddizione.

Il concetto di salute come campo di contesa

Più complessa è l’allerta che bisogna tenere rispetto al concetto di salute. Per dare una prima indicazione guardiamo alla storicità delle definizioni di salute e al fatto che nella fase attuale ad esso si affiancano in un continuo slittamento concetti come wellness, fitness, oggi resilienza – centrali anche nella produzione di politiche pubbliche a livello mondiale ed europeo. Tali concetti allargano il campo e ne rendono porosi i confini generalizzando un fenomeno già colto negli anni ’70 da Franca Ongaro 7 e Robert Castel 8: alla univocità binaria della distinzione salute/malattia il sistema definitorio ha sostituito parametri maggiormente variabili e sfumati. Questo non significa che sia venuta meno la funzione escludente della norma, piuttosto è avvenuto un allargamento e una riconfigurazione delle performatività normate, dei livelli di inclusione differenziale (che si manifesta per esempio nei modelli di presa in carico “attivanti” e “responsabilizzanti” come, per la popolazione non presa in carico nel fenomeno della psico-cosmesi, dell’utilizzo generalizzato di antidepressivi in forma di stimolatori della prestazionalità; come anche anche della diffusione di pratiche psy per aumentare la capacità relazionale, l’autoefficacia, ecc). Ma questa mutevolezza e variabilità dei confini di ciò che è definito salute e dei suoi molteplici addentellati non è solo un’operazione compiuta dall’alto, dai policy makers e dalle forze del mercato. Essa è anche un oggetto di contesa da parte dei movimenti popolari e delle forze di opposizione: porre nell’ambito della salute una serie di contraddizioni che si esperivano nelle condizioni di vita, nella fabbrica e nella città negli anni ’70 permise, attraverso dispositivi cooperativi come l’assemblea o il gruppo omogeneo, di costruire strategie di avanzamento e convergenza nelle lotte sociali; allo stesso modo vanno lette le tattiche di sanitarizzazione di problemi locali che hanno attraversato gruppi e soggettività marginali impegnate a porre sul campo vasto della salute la riflessione sulle loro condizioni di marginalizzazione e oppressione (si pensi agli attivisti sieropositivi negli anni ’90). La sanitarizzazione va letta nella sua ambivalenza: può esprimere la presenza di tendenze al controllo sociale e alla desoggettivazione attraverso un disciplinamento tecnico o performativo; in altre condizioni può essere strumento tattico di contrattazione collettiva sulle condizioni di vita o vettore di smarcamento, di esodo e di rifiuto delle ingiunzioni normative, disciplinari e moralizzanti, da parte di soggettività escluse o marginali.

Se leggiamo come il concetto di salute si è declinato nel periodo delle lotte sociali tra gli anni ’60 e ’80 – che ha trovato un esito contraddittorio nei sistemi di welfare italiani (tendenti a un universalismo mai del tutto compiuto) vediamo come si siano affermate visoni fortemente sociali della salute, connesse con la prevenzione ambientale e le disuguaglianze socio economiche. A livello globale la modifica degli assetti istituzionali del welfare si adeguava agli avanzamenti nel campo dei diritti prodotti dal movimento per i diritti civili, dal movimento operaio, dai movimenti per i diritti delle minoranze oppresse, dalla lotta femminista, fondamentali nel tematizzare l’ambito della santità e della medicina come non neutrali ma agenti delle varie forme di oppressione sociale. Questi approcci valorizzavano l’autorganizzazione dei servizi, la centralità della partecipazione, la diffusione e la riappropriazione di saperi. Un elemento particolarmente attuale oggi è quello ecologico, che ritroviamo nelle lotte operaie degli anni ’70 in Italia rivolte contro la nocività ambientale e organizzativa, percepita in ambienti di lavoro, città e quartieri. In questo ambito troviamo anche uno spunto che ci permette di riprendere in mano come oggetto critico la questione “salute mentale”: nelle esperienze di lotta per la salute sui luoghi di lavoro viene tematizzato il “quarto gruppo dei fattori di rischio” del lavoro di fabbrica, grazie all’emergere di una precisa concezione del rapporto tra soggettività operaia e saperi tecnici (la classe operaia che a partire dalla sua condizione specifica si poneva anche come produttrice di sapere scientifico, in collaborazione con i tecnici che sceglievano di rinunciare al ruolo di agenti dell’oppressione, per produrre una nuova scienza al servizio dei bisogni della popolazione e non in favore degli apparati ideologici). Oddone, Risso, Maccacaro, Carrino, la psicologia del lavoro, la medicina critica, avevano costruito un modello di ricerca fondata su relazioni cooperative, confronto, produzione comune di saperi. Per la prima volta questa forma di inchiesta permise di vedere come le condizioni di ansia e depressione, le dipendenze, le angosce e le somatizzazioni fossero correlate con l’organizzazione del lavoro; si rendeva chiara la correlazione tra lo sfruttamento e la salute mentale.9 Da queste esperienze sul campo della salute come oggetto di contesa emerge in primo piano il tema della non neutralità della scienza, la sua natura di sapere legato alle condizioni materiali e alla distribuzione ineguale dei suoi mezzi di produzione; le recenti riflessioni sulla ricerca coprodotta, sulle comunità scientifiche allargate, sugli studi svolti da esperti per esperienza possono riportare la consapevolezza sulle definizioni di salute come orizzonte rivendicativo, strumento di mobilitazione, oggetto di contrattazione, campo di battaglie che stimoli nuove e varie forme di produzione di sapere. Oggi è necessario chiedersi quale concetto di salute proponiamo, quale viene promosso nelle istituzioni e quale emerge dalle forme associate della vita comunitaria. Scrive Carmen Valls-Llobet in Donne, salute e potere.10

«Mi piace la definizione di salute come processo per raggiungere un’autonomia personale, solidale e gioiosa, coniata dal medico Jordi Gol y Gorina al Primo Congresso di medici e biologi di lingua catalana, in alternativa al concetto di salute come assenza di malattia, che continua a sovrapporre due termini che dovrebbero essere definiti separatamente. F. Peter sottolinea che esistono due modelli di salute dominanti: quello che chiama positivista, relativo a una promozione idealistica di uno stato di benessere mentale, fisico e sociale, come affermato nella definizione dell’OMS, e quello che chiama biomedico, che si riferisce all’evitamento delle malattie. Nessuno di loro è sufficientemente implicato da questioni di equità. Suggerisce quindi un terzo modello, che chiama “salute come libertà”, in cui unisce i due concetti precedenti ma sottolinea la necessità di rafforzare la capacità di prendere decisioni personali, l’empowerment degli individui, l’accesso alle risorse per avere una vita sana, piuttosto che fornire informazioni o farmacie trattare la prevenzione come problema degli stili di vita individuali. Ho introdotto il concetto di salute per godere […]».

Anche qui la teoria transfemminista ci aiuta indicando una condizione di vita “solidale e gioiosa”, in quanto la condivisione è sottratta all’orizzonte riduttivo della produttività capitalista. Bisogna evitare che la definizione di salute risponda in ultima analisi solo all’ingiunzione al lavoro produttivo, quindi alla riproduzione di una norma che invisibilizza gran parte del lavoro riproduttivo – a spese dei segmenti più oppressi di popolazione che sono costretti a ripulire tutte le esternalità della performance continua dei ceti medi. Un esempio dell’urgenza di questa questione è emerso dalle modalità di gestione della pandemia di COvid19, per cui si era in salute solo per fare un lavoro produttivo formale e non per fare qualsiasi altra cosa, se non nel chiuso dello spazio domestico – un ulteriore strumento di segmentazione della popolazione rispetto alle condizioni di accesso al ciclo produttivo formale e a condizioni accettabili di riproduzione.

Salute mentale e deistituzionalizzazione

La storia della deistituzionalizzazione si colloca in modo contraddittorio rispetto al problema della medicalizzazione: per Franco Basaglia era evidente che le contraddizioni della psichiatria non sarebbero state risolte meccanicamente dal suo mero inserimento nell’ambito della medicina. La promozione della legge 180 all’interno della più ampia istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, interpretata dal movimento come strategia parziale – in un momento storico in cui la sanità stessa era al centro di una riconfigurazione spinta dalle forze sociali progressiste – comportava anche rischi e limiti che erano evidenti nelle fasi di discussione della legge 180. La collocazione della pratica psichiatrica su una soglia tra ospedale e territorio – anche accettando la figura di mediazione politica da parte dell’autorità comunale nello svolgimento dei Trattamenti Sanitari Obbligatori – avrebbe dovuto portare le contraddizioni della psichiatria nella medicina, nell’ottica di allargare i campi di lotta e sviluppare una pratica alternativa alla dimensione sanitaria nella soglia tra le istituzioni e le contraddizioni della popolazione generale. La deistituzionalizzazione ebbe la psichiatria come ambito specifico di applicazione ma in essa si esercitava una lotta generale, rivolta alla modifica delle relazioni sociali nel loro complesso. Il rischio era che nel vuoto ideologico seguito alla lotta contro il manicomio, la cui distruzione era l’urgenza pratica più pressante, si sarebbero imposte nuove ideologie definitorie, una versione di psichiatria che – ripulita dalle aberrazioni più insopportabili per la sensibilità borghese – continuasse ad esercitare in forme rinnovate la funzione di legittimare le nuove forme di esclusione attraverso nuove ideologie scientifiche e configurazioni istituzionali. La lettura ricorrente della deistituzionalizzazione ha invece ridimensionato al passaggio dalla psichiatria alla salute mentale l’orizzonte dei suoi successi storici senza cogliere con il metodo basagliano le ambiguità della nuova configurazione di saperi, pratiche e servizi che si veniva affermando nel momento in cui la complessità della critica alla follia come oggetto sociale e orizzonte di esclusione era semplificata dallo stringersi di modelli sociali di gestione territoriali sempre più amministrativi e nuove oggettivazioni tecnico scientifiche del disagio. Avendo ridotto la portata del movimento e del pensiero della deistituzionalizazione al solo superamento del dispositivo manicomiale ci si è impedito di criticare le dinamiche di assoggettamento che pure nella salute mentale sono promosse, approfondendo il solco di incomunicabilità tra chi aveva trovato un nuovo spazio di gestione – principalmente statistica e biopolitica – del campo mobile esistente all’incrocio dei saperi e delle pratiche tra riabilitazione, esclusione e devianza, e i saperi prodotti ai margini di quel campo.

Il tema della salute mentale sta oggi vivendo una «esplosione discorsiva»,11 un proliferare di affermazioni ubiquitarie, ulteriormente amplificatosi dopo il prorompere della sindemia Covid19, ma già evidente negli ultimi anni grazie alle campagne antistigma come time to change, Insieme per la salute mentale e altre simili. È stato notato che, per quanto da molti punti di vista questa sia da considerare una progressiva affermazione della possibilità di tematizzare bisogni di salute e di mettere al centro del dibatti il tema della cura, è impossibile non avere preoccupazioni per l’uso che di questa esplosione è stata fatta da parte di vari soggetti del complesso farmacologico-industriale, dotati di notevoli ramificazioni nel campo formativo, dell’associazionismo e delle fondazioni, che hanno principalmente usato queste campagne come strumento di rinforzo tattico dell’ideologia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, fondata sulla centralità di una nozione critica come quella di “disturbo mentale”. Mark Cresswell a tal proposito propone di approfondire l’analisi delle voci che dal campo psichiatrico vengono coperte, confuse e silenziate, paragonandole alle voci che vengono invece sollecitate “entro limiti ben definiti”.

Un articolo del 2021 ad opera di Diana Rose, attivista user e ricercatrice,12 riportava la necessità di «mappare la conoscenza generata in tutto il mondo da persone messe a tacere per secoli – in quanto deisgnate mad». Secondo l’autrice è necessaria una «ricontestualizzazione della follia a tutti i livelli», al di là delle «terapie individualizzanti», sia condotte attraverso medicinali sia attraverso cure psicologiche, in quanto «spogliano chi vi partecipa delle loro realtà situate». Dalle prime co-ricerche, partecipative e qualitative, di Diana Rose viene l’indicazione di valorizzare il sapere degli users/survivors/refusers oltre le categorizzazioni fornite dallo sguardo medico, verso il riconoscimento di saperi indipendenti dalla psichiatria, autonomamente prodotti, che esprimono una fuoriuscita dalle forme di invalidazione intrinseche nell’oggettivazione di tipo psy e nelle pratiche di presa in carico ad essa legate. I gruppi di users/survivors/refusers intervistati in varie parti del mondo, che siano o no impegnati in forme di user involvement o in pratiche di autogestione radicale, invitano a leggere la condizione esistenziale di cui si fa esperienza dentro un paradigma sociale più ampio che tenga in considerazione l’ecologia dei processi di cura, delle condizioni economiche, materiali e culturali entro cui si generano le relazioni sociali stigmantizzanti. Uno sguardo più attento alle pratiche e alle epistemologie della cura incontra gli attuali sviluppi della riflessione femminista sulla tensione tra etica della cura e invisibilizzazione delle sue contraddizioni politiche e sociali. Proprio l’incontro critico con i disability studies ha permesso ha Brunella Casalini, nel testo Ecologie della cura curato da Maddalena Fragnito e Miriam Tola,13 di approfondire «la relazione complessa tra etica della cura e riproduzione sociale» Rileggendo l’etica della cura, attraverso i disability studies e le analisi «sulla contraddizione tra capitale e riproduzione sociale», si apre la possibilità di «ripensare il welfare state in chiave di universalizzazione della cura, in modo da rimodulare la relazione tra Stato e pratiche di messa in comune (commoning) dei movimenti». Questo dialogo ha conseguenze, oltre che per chi è coinvolto a vario titolo in relazioni di cura formali e informali, per la generale interrogazione su possibili forme di welfare rinnovate, che sappiano saldare universalismo ed empowerment nel lavoro di cura legato alle comunità.

Users/survivors/refusers e neurodiversità

All’interno del gruppo di users/survivors/refusers della psichiatria possiamo trovare punti di sovrapposizione, conflitto e distanza tra le molteplici traiettorie esistenziali e forme di soggettivazione emerse negli ultimi decenni. La distinzione interna tra chi sopravvive a, chi rifiuta e chi usa i servizi psichiatrici (e in generale i servizi di salute mentale) è una polarizzazione astratta che ha solo funzione conoscitiva: non tutte le persone che usano (o rifiutano) i servizi hanno visioni comuni sulla loro esperienza e sul campo complesso di questioni psy; le persone che si definiscono “sopravvissute a” possono non aver trovato in alcuni momenti della loro vita alcuna alternativa all’uso dei servizi e questo può essere poi stato letto nei termini di un’esperienza abusiva e traumatizzante, pure se il loro accesso al servizio non è stato coercitivo. Allo stesso modo, le persone che si riconoscono neurodivergenti, per quanto il movimento per la neurodiversità abbia tra i punti fondanti della sua identità il rifiuto del modello medico per concettualizzare alcune diversità e delle pratiche di cura ad esse relative in uso presso i servizi psichiatrici, possono accedere ai servizi di salute mentale per vari motivi legati alla condizione esistenziale per cui “divergono” (in una forma che deriva dal modello sociale della disabilità, le persone neurodivergenti preferiscono riferirsi alla continuità delle situazioni esistenziali che esperiscono e della relazione tra essa e le condizioni ambientali come funzionamento) sia per altri motivi; esistono sempre più testimonianze ed elaborazioni di chi sente di potersi inscrivere sia nel novero delle persone neurodivergenti sia in quello delle persone users/survivors. La riflessione sui possibili campi di sovrapposizione, distanza, conflitto è svolta tra questi elementi polari al fine di leggere ambiti di frizione generativa, affinché da essa nascano ulteriori possibilità di azione collettiva e di contrasto alle forme di oppressione strutturale che nella società capitalistica insistono sulle linee della classe, della razializzazione, del genere e della disabilità. Il mio obiettivo nel tentare di descrivere questo campo è quello di aumentare gli strumenti di dialogo al fine di rinforzare la nostra capacità di agire collettivamente sui terreni della salute, della cura, della riproduzione del vivente – ambiti che oggi costituiscono un forte oggetto di attacco da parte delle strutture di potere ma anche un possibile ambito di ricomposizione e di lotta. Per quanto riguarda users/survivors/refusers è difficile parlare di un movimento in forma univoca per via della frammentazione e varietà di contenuti, approcci e strategie; proponiamo come semplificazione però di tenerne insieme tali esperienze considerando in senso ampio una serie di elementi comuni che spesso stanno in condizione di interazione e scambio e che possiamo accomunare a un certo livello di astrazione.14 Complessivamente le persone che si identificano in queste esperienze hanno prodotto forme di attivismo rivolte a riformulare in senso critico l’oggettivazione che nei loro confronti viene svolta dai servizi psichiatrici istituzionali e le forme di trattamento ad esse riconnesse. Tale riformulazione critica ha un ampio ventaglio di sfumature: si va dal totale rifiuto della psichitrizzazione alla promozione di approcci collaborativi in cui viene promossa una eguale dignità del sapere psy e del sapere esperienziale, con l’obiettivo di produrre una visione più profonda dal punto di vista esistenziale e forme di presa in carico più attente ai diritti umani e sociali. Nonostante questa distanza, troviamo coesistere tematiche affini in un continuum estensivo tra diverse accentuazioni; alcuni concetti, come quello di recovery, sono stati prodotti all’interno delle elaborazioni dei survivors impegnati per la rivendicazione dei diritti civili, l’opposizione alla psichiatrizzazione coatta e la denuncia delle forme oppressive di trattamento psichiatrico riservato alle popolazioni più fragili dal punto di vista socioeconomico negli anni ’70 e ’80 in ambito anglosassone. In queste elaborazioni il concetto di recovery coesisteva con il rifiuto del modello medico di identificazione della follia e del disagio. A partire dagli anni ’90 questo concetto ha iniziato ad informare l’approccio di servizi e politiche di salute mentale in modo sempre più esteso, fino a finire negli ultimi 10 anni al centro dei documenti di programmazione e delle raccomandazioni internazionali. Non mancano riflessioni a proposito dei rischi di snaturamento che questo processo ha apportato al concetto: all’inizio recovery (in italiano si preferisce non tradurlo come “guarigione”, che potrebbe esserne la trasposizione letterale, e utilizzare concetti quali “ripresa” o “riappropriazione”) indicava un processo irriducibilmente personale, legato al rafforzamento del senso di sé e alla capacità di agire, anche collettivamente, per il miglioramento della condizione di vita soggettiva e della propria comunità di riferimento. Diventando concetto istituzionale esso è stato via via sottoposto a forme di oggettivazione e operazionalizzazione che rischiano di esitare in un significato troppo vago, che diventa possibile legare a forme di “intrattenimento” psichiatrico e accesso deficitario – ma stabilizzato – ai diritti di cittadinanza. Non si è mancato di notare la convergenza del concetto di recovery con le politiche sociali neoliberiste, in cui esso è finito ad enfatizzare la dimensione individualista, di responsabilizzazione e di depoliticizzazione dell’intervento sociale che lo ha reso compatibile con i regimi di workfare privatistici dell’ultimo trentennio, insieme a concetti affini come empowerment e partecipazione. Tale processo si è accompagnato spesso alla scelta, da parte dei movimenti di users, di collocare il proprio attivismo in un’ottica di consumerism, minimizzando gli aspetti di azione collettiva per la giustizia sociale ed enfatizzando quelli relativi alla libera scelta del cliente-consumatore.15

Rispetto al movimento dei survivors va notato che, se una parte rivendica la propria continuità con le esperienze antipsichiatriche di ambiente anglosassone degli anni ’60 e ’70 (identificandosi in questo caso in modo più esplicito come refusers),16 il movimento nel suo complesso esprime una forma variegata di posizioni e linee teoriche, che ne hanno portato parte dei componenti a sperimentare la strada dell’user involvement – nell’ottica di collaborazione e relazione dialettica con i servizi – non solo per accedere ad una presa in carico di bisogni individuali ma anche all’interno di una prospettiva pratica rivolta ad incidere sul servizio, modificare la pratica psichiatrica, cambiare il sistema della salute mentale. Spesso con “survivors” si tende ad usare il concetto in modo estensivo indicando il gruppo di soggettività che ha prodotto storie, narrazioni, ricostruzioni soggettive delle esperienze vissute attraverso il disagio esistenziale, la malattia, la psichiatrizzazione, la riappropriazione di sé. Tali operazioni portano in molti casi alla produzione di saperi autonomi e qualitativamente densi, dotati di un valore euristico ed esplicativo che, indipendentemente dal livello di “competizione” con le spiegazioni psy, esprime una forma nuova e diversa di soggettivazione. In molti casi questa produzione è rivolta ad identificare gli elementi abusanti e oppressivi nell’intervento dei servizi psichiatrici o di salute mentale; in altri casi questa produzione riconosce il senso di cura dell’intervento psichiatrico e talvolta riproduce in forma immediata le definizioni mediche di salute e malattia, riempiendole di senso soggettivo. Nessuna di queste posizioni è in contraddizione rispetto all’user involvement: il paradigma della recovery, che negli ultimi vent’anni si è sostanziato in varie ipotesi di coproduzione di teorie e servizi, riunisce diversissimi approcci di users e survivors. Un esempio di questa complessità è il movimento di uditori di voci, diffuso anche in Italia, che propone una gamma molto ampia di letture dell’esperienza del “sentire le voci”. Per quanto alcune di esse siano radicalmente incompatibili con l’oggettivazione psy (rivolgendosi piuttosto ad interpretazioni spirituali o variamente cosmologiche) altre sono compatibili con i regimi di spiegazioni psy e altre ancora hanno contribuito a modificarne l’assetto, come quelle che hanno incontrato e approfondito le teorie sul trauma. Se alcune persone refusers hanno limitato la loro forma di involvement alla costruzione di servizi user-led, che quindi escludono il coinvolgimento di professionisti psy in qualsiasi ruolo, non sono mancate esperienze di refusers che abbiano scelto di interagire con servizi istituzionali in contesti di coproduzione; d’altra parte non sono mancate e non mancano esperienze di gruppi di users che, protagonisti di processi di user involvement, ma insoddisfatti del livello di subordinazione che queste esperienze impongono rispetto ai paradigmi istituzionali, abbiano cercato e costruito autonomi percorsi di confronto con progetti di refusers per avere maggiore accesso a spazi di elaborazione autonoma e sottratta dai rischi di pesante manipolazione dei servizi istituzionali. Il tema della convergenza tra le prospettive degli users e quelle dei tecnici dei servizi psichiatrici è stato dibattuto negli ultimi anni. C’è sicuramente il rischio che users coinvolti in processi di partecipazione siano costretti ad assumere una visione coincidente con quella della salute mentale istituzionale, con i suoi poteri e saperi mainstream. In questi processi vediamo spesso all’opera forme più o meno estese di silenziamento strutturale; queste si manifestano soprattutto attraverso il ruolo che viene attribuito agli users nelle esperienze di partecipazione e coproduzione: spesso si tratta di ruoli vicari e subalterni, che non mettono in discussione l’organizzazione complessiva del servizio in cui sono coinvolti, la progettazione e la valutazione degli interventi. Si tratta di ruoli che fondamentalmente confermano il modello di intervento medico e l’organizzazione istituzionale del servizio, svolgendo in esso ruoli demansionanti e complessivamente ininfluenti. Alcuni percorsi di coproduzione hanno tematizzato questo problema e hanno proposto forme cooperative di conricerca e di attivismo pubblico per limitarne la possibilità.

Il confronto con il rifiuto del modello medico proposto dalle persone neurodivergenti può essere di grande stimolo per il movimento di users/survivors/refusers: anche se su basi differenti, queste due esperienze si incontrano nel proporre una alternativa al modello medico e molte elaborazioni rivelano comunanza di approcci critici su questo tema. Nell’ambito delle elaborazioni di users/survivors/refusers il rifiuto del modello medico si identifica come un rifiuto della psichiatria tout-curt; come esperienza essa appare, a varie gradazioni di intensità, come forma di oppressione, negazione, sottrazione della possibilità di parola. Nelle esperienze delle persone neurodivergenti il rifiuto del modello medico si fonda sulla tradizione del modello sociale della disabilità e il suo principale oggetto critico è l’obiettivo “correttivo” che lo sguardo medico – e la cura ad esso conseguente – esercita sulle persone disabilitate. Il movimento di users/survivors/refusers presenta la più ampia gamma di possibilità nelle elaborazioni sul problema della “correzione”, anche se queste sono formulate al di fuori del modello sociale della disabilità. Da una parte le prospettive più esplicitamente refusers leggono questo tema all’interno della critica alla “coercizione” e propongono una totale depsichiatrizzazione della società. Al centro di questa proposta c’è la volontà di destituire una disciplina “non scientifica”, legittimata ad autorizzare la coercizione solo sulla base di un giudizio in ultima istanza arbitrario e soggettivo. Questa prospettiva, che più esplicitamente recupera la tradizione dell’antipsichiatria anglosassone degli anni ’60 e ’70, esita in molteplici linee pratiche: dalla risoluzione del bisogno psichiatrico in forme di intervento sociale o pedagogico alla promozione di un’alternativa che si svolga solo a livello di relazione contrattuale individuale, che sia sul modello di una disciplina comunque psy o incentrata su paradigmi gnoseologici più relazionali. Il punto debole di queste ultime forme di rifiuto sta nel rischio di una visione idealistica, ingenua e oggettivistica della scienza e dei suoi processi; Ian Hacking, con la sua riflessione sulle molteplici interazioni circolari tra forme di oggettivazioni scientifiche, condizioni di possibilità del loro emergere e identità delle persone classificate – ha promosso una ricerca sulla psichiatria che supera gran parte di questi limiti.17 Una debolezza ulteriore di queste posizioni refusers sta nella limitata osservazione della intrinseca commistione tra discipline psy e forme di potere e controllo sociale. Infatti, se si identifica il controllo sociale solo nell’azione esteriormente coercitiva della psichiatria e non anche nelle forme soft di manipolazione del consenso o di ingiunzione di performance delle altre discipline psy si rischia di vedere solo la più superficiale manifestazione di un processo più profondo. Il confine tra psichiatria e altre discipline psy è storicamente situato e in continua evoluzione; le altre discipline psy (dalla psicanalisi alla psicologia alla psicoterapia nelle sue varie forme), per quanto spesso siano nate e si siano sviluppate sottraendosi all’egemonia della psichiatria sul piano epistemologico e pratico, non hanno mai esplicitamente e unitariamente dichiarato l’incompatibilità con la coercizione psichiatrica e con le prese in carico involontarie. In varie epoche storiche terapeutƏ, psicologhƏ e psicanalistƏ di varie scuole e varie impostazioni hanno esercitato la loro pratica “libera” e “contrattuale” con pazientƏ autonomamente aderenti al trattamento negli stessi contesti in cui la disciplina psichiatrica era delegata ad esercitare sullo sfondo la coercizione più meccanica. In definitiva non si vede come a livello epistemologico si possa avvalorare una frattura tra psichiatria e altri saperi psy rispetto alle tendenze alla manipolazione, al controllo, all’oggettivazione: la collusione con rapporti asimmetrici di potere è una possibilità intrinseca all’epistemologia psy in tutte le sue forme. D’altra parte, non si vede perché i problemi appena esposti non possano riguardare anche le altre scienze umane della modernità: la medicina, l’antropologia, la pedagogia, la psicologia, la sociologia e le sue applicazioni pratiche tra cui possiamo annoverare il servizio sociale, sono state discipline attraversate da conflitti interni, critiche, messe in discussione proprio per via dei presupposti epistemologici intrinsecamente coerenti con un progetto strutturalmente implicato in forme di oppressione e di reificazione; in questi ambiti sono sorte altrettante forme anti-istituzionali che colpivano insieme lo specifico della disciplina e le condizioni materiali della sua applicazione; pratiche critiche ed emancipatorie, che hanno messo in crisi i presupposti di potere e di controllo implicati dalla posizione del soggetto che le esercitava, sono nate nella medicina sociale e del lavoro, nella pedagogia di liberazione, nella psicologia anticoloniale, nella sociologia critica e nelle forme di servizio sociale emancipatorio. I Critical Disability Studies costituiscono negli ultimi anni un possibile ambito di superamento della difficoltà di questo dialogo, interagendo con le più recenti elaborazioni dei mad studies in una prospettiva informata dalle riflessioni femministe e postcoloniali. In questo incrocio di saperi la distinzione tra impairment e disabilitazione, una occasione di scontro che sembrava insuperabile, sembra potersi sciogliere evitando di definire l’impairment solo come fenomeno oggettivo e misurabile ma considerandone gli aspetti di costrutto sociale, vissuto esistenziale, incorporazione di contraddizioni sistemiche. Può essere così possibile trovare un punto di incontro tra il fatto che la formulazione della diagnosi (quantunque sulla base di un modello medico o biopsicosociale da parte di tecnici psy) costituisce per le persone neurodivergenti un punto di appoggio per rivendicare forme di autodifesa e diritti mentre molti refusers/users/survivors, rifiutando di concepire un impairment “oggettivo” alla base della loro disabilitazione, muovono critiche aspre al paradigma del chemical imbalance e alla subalternità delle neuroscienze a questo paradigma semplificatorio, sottolineando l’inconsistenza dei modelli eziologici e la vaghezza dei markers biologici addotti per giustificare l’identificazione di psicopatologie – il cui esito non è tendenzialmente l’instaurazione di una forma libera e contrattuale di cura nei servizi psichiatrici ma piuttosto il supporto di teorie stigmatizzanti sulla pericolosità, sull’irresponsabilità e sulla necessità di trattamenti coercitivi.

L’approfondimento del paradigma dell’incorporazione, il superamento della nozione prettamente oggettivistica di impairment, lo sviluppo dei mad studies in direttrici intersezionali e orientate alla giustizia collettiva possono aiutarci a superare quella che sembrava una incomunicabilità dettata soprattutto dal fatto che i movimenti della neurodivergenza sono emersi in un momento di neuro-hype che dai movimenti di users/refusers/survivors era stato contestato più per i suoi esiti sociopolitici che per le sue basi epistemologiche. Anche nelle neuroscienze, infatti, una ricerca che sia partecipativa ed emancipatoria può mostrare possibili evoluzioni che sembrano valorizzare le esperienze dirette delle persone piuttosto che andare a loro detrimento. D’altra parte, l’apertura di fronti di collaborazione tra users/refusers/survivors e movimenti della neurodiversità nel campo dell’user involvement e della creazione di modelli di cura comunitari, a cavallo tra movimenti e istituzioni, rappresenterebbe oggi un fattore di spinta complessiva alle rivendicazioni sulla salute che altrimenti i soli movimenti di tecnici e professionisti sembrano faticare a promuovere.

Prendiamo come sintesi quello che scrive Damian Milton et al. a proposito di questo dibattito:

«La discussione tra mad studies e neurodiversità è spesso inquadrata all’interno del campo dei disability studies. Questi raccolgono molte esperienze incarnate e aprono alla interdisciplinarietà. Esistono alcuni punti in comune tra questi tre gruppi: persone con disabilità fisiche/sensoriali/intellettuali, persone che vivono con diagnosi psichiatriche e le persone neurodivergenti sono classificate come “disabilitate” dal punto di vista giuridico; gli effetti della disabilità sono psico-emotivi; i trattamenti psichiatrici possono causare menomazione fisica; e tutti sono discriminati e oppressi […]. Graby (2015) nel suo capitolo in Follia, angoscia e politiche della disabilità sostiene che la neurodiversità ha il potenziale di colmare le lacune concettuali tra le persone disabili e i movimenti dei survivors approfondendo il punto critico costituito dal concetto di “menomazione”. […] Il movimento per la neurodiversità è particolarmente ben posizionato per riunire categorie più ampie di persone emarginate in una rete solidale di movimenti (necessariamente fluida, ma comunque con un grande margine d’azione) per imporre l’accettazione radicale di tutti i tipi di diversità umana, sotto un’ampia bandiera di “anti-normalizzazione” e sfidare l’ipotesi di una natura umana universale che privilegia la maggioranza e i gruppi storicamente dominanti. Questo riflette i recenti dibattiti all’interno del campo dei disabiliti studies e dell’attivismo su come la biforcazione tra menomazione e disabilità attuata all’interno del modello sociale non riesca a riconoscere la socialità della medicina e di ogni incorporazione, e gli aspetti materiali della vita sociale».18

Sul piano politico sembra che la prospettiva di Damian Milton et al. sulla possibilità di «alleanze tra attivismi» offra notevoli potenzialità di sviluppo:19

«Scriviamo in un momento in cui concetti attivisti come recovery, inclusione, accessibilità e speranza sono stati cooptati, appropriati e politicamente neutralizzati da decisori politici, fornitori di servizi e governo (Costa 2009; McWade 2014; Morgan 2013). I servizi e le organizzazioni continuano a essere più gravemente colpiti dai tagli alla spesa (Morris 2011), mentre le campagne anti-stigma sostenute dal Royal College of Psychiatrists continuano a essere pompate con milioni di sterline per vendere prodotti di ‘salute mentale’ alle masse (Armstrong 2014). La personalizzazione è stata attuata attraverso un’ideologia del libero mercato che ha visto l’espropriazione e persino la morte di persone disabili. È “tempo di parlare”, e non nel modo in cui l’establishment vuole che facciamo, con racconti di recovery individualizzati e ben confezionati. Invece, condividiamo la ricca storia del nostro attivismo e uniamo le nostre esperienze di oppressione ed emarginazione» (Ibid.).

La neurodiversità si oppone evidentemente a forme di misurazione della soggettività, a una crescente normatività, alla restrizione delle aspettative sociali e al conformismo;20 in questo può incontrare la più emancipatorie elaborazioni di users/refusers/survivors della psichiatria. In ultima analisi al di là dell’evoluzione dei paradigmi, è necessario porre l’accento sulle forme di azione collettiva, dentro e fuori i servizi ufficiali, perché come scrive Matteo Schianchi:

«Frequentando i mondi della disabilità, facendo ricerca sulle biografie individuali e familiari ci si rende conto che le persone con disabilità e i familiari che hanno una migliore qualità della vita sono coloro che hanno risorse proprie (sociali, relazionali, economiche, culturali e psicologiche) a cui si affiancano eventualmente quelle offerte dai servizi e dalle agenzie educative. Questi ultimi non riescono a far fare un salto qualitativo a chi è meno provvisto di risorse personali. Chi ha meno risorse, chi rischia di dilapidarle nella gestione di situazioni complesse, resta spesso soggiogato da vincoli materiali, dalla gestione dei bisogni imposti dalle menomazioni. Ciò impedisce loro di entrare appieno nella vita, di imprimerle una direzione specifica, costringendoli a viaggiare sul timone fisso sulla gestione della condizione di disabilità come unica direzione possibile».

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Note:

1) Sul concetto di margine si veda bell hooks: «Costretti al silenzio. Temiamo chi parla di noi, chi non parla a noi e con noi. Sappiamo che cosa significa essere costretti al silenzio. Certo, sappiamo che le forze che ci hanno fatto tacere, poiché non hanno mai voluto farci parlare, sono ben diverse dalle voci che dicono: parla, raccontami la tua storia. Unica condizione: non parlare con la voce della resistenza. Parla soltanto da quello spazio al margine che è segno di privazione, ferita, desiderio insoddisfatto. Il mio è un invito deciso. Un messaggio da quello spazio al margine, che è luogo di creatività e di potere, spazio inclusivo, in cui ritroviamo noi stessi e agiamo con solidarietà, per cancellare la categoria colonizzato/colonizzatore. Marginalità come luogo di resistenza. Entrate in quello spazio. Incontriamoci lì. Entrate in quello spazio. Vi accoglieremo come liberatori». Elogio del margine, Feltrinelli, Milano, 1998.
Sul tema dei saperi minori in relazione alla storia della psichiatria e della salute mentale ha lavorato Pierangelo Di Vittorio, si veda Pierangelo Di Vittorio, Ragione funambolica. Sull’utilità del pensiero per la vita, Mimesis, 2021.
Rispetto ai mad studies: Chapman, R., “Negotiating the Neurodiversity Concept. Towards epistemic justice in conceptualising health” Psychology Today, (2018); Kamens, S. R., “Postcolonialism and (Anti)psychiatry: On Hearing Voices and Ghostwriting” Philosophy, Psychiatry, & Psychology, 27(3), (2020), pp. 253-265; McWade, B., Milton, D., Beresford, P., “Mad studies and neurodiversity: a dialogue”, Disability and Society, 30(2), (2015), pp. 305-309. Sui nuovi modelli di concettualizzazione della disabilità si veda “Is Autism a Disability, Neurodiversity, and the Social Model of Disability”; Ortega, F., “The Cerebral Subject and the Challenge of Neurodiversity”, BioSocieties, 4(4), (2009), pp. 425-445. Si vedano anche, sui nuovi modelli di concettualizzazione della disabilità, l’associazione Sirio e i Tetrabondi e gli scritti di Fabrizio Acanfora. Si veda anche il testo recentemente e parzialmente tradotto in Italia “Il dono e la maledizione di essere la voce della verità. Riceve una diagnosi di autismo da adulta” di Michelle Gallen. Sui Critical Disability Studies si veda Helen Meekosha, Russell Shuttleworth, “Cosa c’è di così “critico” nei Critical Disability Studies?” Australian Journal of Human Rights 2009, Volume 15(1), traduzione di Enrico Valtellina. Si vedano anche in ottica postocoloniale i contributi sulla decolonizzazione della psichiatria e della psicologia, di cui sono arrivati echi anche in Italia. A titolo di esempio citiamo i seguenti articoli: “Decolonizing Therapy: Why an Apolitical Mental Health System Doesn’t Work. Undoing the narrative that ‘just talking about your feelings is enough” Varanasi, A. “Theory of Subjectivity from a Cultural-Historical Standpoint. González Rey’s Legacy” Editors: Goulart, Daniel Magalhaes, Martinez, Albertina Mitjans, Adams, Megan (Eds.) “Psicologia Política Crítica: Insurgências na América Latina”, Domenico Uhng Hur e Fernando Lacerda Junior.
2) “La lotta del movimento dei disabili non ha riguardato solo le rampe: le questioni dei diritti umani – come la sterilizzazione forzata, la violenza e gli abusi, la povertà, la disoccupazione, la cittadinanza, gli effetti invalidanti della guerra e l’esclusione sessuale, e la miriade di problemi delle persone disabili nel sud del mondo – devono essere inclusi nei nuovi CDS. Rendendo esplicite le strategie di critica applicate alle questioni della disabilità, i CDS possono anche contribuire con importanti studi concettuali ed empirici allo sviluppo della teoria critica. Il modo in cui le società dividono i corpi “normali” e “anormali” è centrale per la produzione e il mantenimento di ciò che significa essere umani nella società. Definisce l’accesso alle comunità politiche. Determina la possibilità di partecipare alla vita civile. Determina ciò che rende uomini e donne “razionali” e chi dovrebbe avere il diritto di far parte della società e chi no.” Helen Meekosha e Russell Shuttleworth, “Cosa c’è di così “critico” nei critical disability studies”, cit.
3) “La persona in salute è l’individuo normativo? Con due gambe, due braccia, che vede e sente. Magro, bianco, preferibilmente maschio. Ed eterosessuale. Ricco o comunque non povero. Che non soffre ansia e tristezza. E sicuramente che non “sente le voci”. No. Il nostro benessere è collettivo, non individuale. È in continua costruzione ed è una capacità collettiva che noi sosteniamo continuamente. Possiamo pensare a un sistema sanitario che sicuramente cura il cancro e l’ipertensione, ma anche indica e fa in modo di ottenere migliori condizioni abitative, assicurando che non ci siano persone senza casa? Un’idea emancipatoria di salute, lontana da questo modello individualizzante e universalizzante che ci è stata per tanto tempo imposta?”. Di Carlotta Cataldi e Salut Drets Acció sulla base del lavoro di Joan Benach e Jasmine McGhie per il People’s Health Movement. Sulle elaborazioni del People’s Health Movement si veda https://phmovement.org/about/; sul tema della salute intersezionale si veda: Kapilashrami, A., Hankivsky, O, “Intersectionality and why it matters to global health”, The Lancet, 291(10140), (2018), pp. 2589-2591.
4) Red de Sanadoras Ancestrals, “Oltre la cura, difesa e recupero del territrio corpo-terra”, in Maddalena Fragnito e Miriam Tola (a cura di), Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Orthotes, 2021. Per quanto riguarda la teoria dell’incoprorazione in antropologia medica il riferimento è Csordas, T. J. “Embodiment as a Paradigm for Anthropology”, in Ethos, Vol. 18, 1990 No. 1. (Mar., 1990), pp. 5-47.
5) In AA. VV., Follia e paradosso. Seminari sul pensiero di Franco Basaglia, Edizioni E, 1995.
6) Franco Basaglia in Ernesto Venturini, Il giardino dei gelsi. Dieci anni di antipsichiatria italiana, Einaudi, 1979. Le citazioni di Franco Basaglia sono da Scritti 1953-1980, Il Saggiatore, 2017.
7) Franca Ongaro Basaglia, Salute / malattia. Le parole della medicina, Alpha Beta, 2012.
8) Françoise Castel, Robert Castel, Anne Lovell, La Société psychiatrique avancée, Grasset, 2015; Robert Castel, La gestion des risques: de l’anti-psychiatrie à l’après-psychanal, MINUIT, 2011.
9) Su questi temi si veda Davide Caselli, Gli Esperti. Come studiarli e perché, Il Mulino, 2020.
10) Carme Valls-Llobet, Mujeres, salud y poder, Càtedra, 2009.
11) Diana Rose, risposta alle osservazioni di Mark Cresswell1, in cui è citata la “esplosione discuorsiva” di Foucault in “storia della sessualità”, 196.
12) OPEN LETTER “Critical qualitative research on ‘madness’: knowledge making and activism among those designated ‘mad’”[version 1; awaiting peer review], Rose, D., Research School of Social Sciences and Department of Sociology, College of Arts and Sciences, Australian National University, Canberra, ACT2600, Australia, 20.
13) Maddalena Fragnito e Miriam Tola, Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Orthotes, 2021.
14) Negli anni ’90 Peter Beresford e Jan Wallcraft avevano attribuito la difficoltà del dialogo tra movimenti delle persone disabili e gruppi di users/survivors al fatto che le persone disabili avessero scelto prospettive nettamente separatiste, costruendo autonome linee teoriche e interpretative, proponendo le loro tesi sull’inclusione e svolgendo la loro azione politica rivendicativo mentre nel movimento delle persone psichiatri Zante la tesi dei refuses era debole e le forme di attivismo mad scontavano i limiti del dover collaborare con le istituzioni psichiatriche esistenti, venendo e spesso assoggettate. “Psychiatric System Survivors and Emancipatory research: Issues, overlaps and differences”, Chapter 5 in “Doing Disability Research” edited by Colin Barnes and Geof Mercer, The Disability Press, 1997, pp. 66-87.
15) Marian Barnes, Phil Cotterell, Critical perspectives on user involvement, The Policy Press, 2012; Brigit McWade, “Recovery-as-policy as a form of neoliberal statemaking”; Mark Dalgarno, Jennifer Oates, “The crucible of co-production: Case study interviews with Recovery College practitioner trainers”, Health Education Journal, 2019; Rachel Levarre-Waters, Modern pastors of mental health recovery: an ethnographic study of the recovery approach in Wales, PhD Thesis, Cardiff University, 2021; Joe Greener, Rich Moth “From shame to blame: institutionalising oppression through the moralisation of mental distress in austerity England”, Social Theory & Health, volume 20, 2022; in generale sugli sviluppi di questi temi nel Regno Unito si veda www.imroc.org.
16) Il tema dell’antipsichiatria non può essere affrontato qui in modo esaustivo. Si tratterebbe di affrontare la storia del concetto e dei suoi molteplici usi, che richiederebbe un approfondimento sia storico sia critico. Per una generale ricognizione sul tema si rimanda a John Foot, La repubblica dei matti, Feltrinelli, 2014. Ci limitiamo qui ad alcuni rimandi che riteniamo essenziali per l’avvio di un dibattito in cui evitare che il concetto di antipsichiatria funzioni come limite teorico alla lettura storica dalle esperienze anti-istituzionali e come limite attuale alla costruzione di dialogo e convergenze. Una delle possibili strategie per sviluppare forme di dialogo tra refusers e neurodivergenti è stata quella di negare qualsiasi funzione euristica al concetto di antipsichiatria. Esso, come dice Peter Campbell: “è diventato uno slogan usato abitualmente dai tradizionali operatori della salute mentale per denigrare e licenziare idee che minacciano la loro visione del mondo e il loro status di esperti” (Campbell, The history of The User Movement in the United Kingdom). La posizione di Campbell, che nella seconda metà degli anni ’90 aveva provato a definire i termini di un possibile dialogo tra i movimenti di users psichiatrici e i movimenti delle persone disabili, è interessante ma potrebbe non essere sufficiente ad esaurire la questione. Sappiamo infatti che anche i termini denigratori vengono rifunzionalizzati a vantaggio delle persone stigmatizzate nelle dinamiche di riappropriazione, come contrasto e negazione della norma che opera l’esclusione. In tal senso, allora, dovremmo chiederci quale processo di potere e di esclusione si manifesta e si denuncia rivendicando l’etichetta negativa di antipsichiatra. Risolvere questo dibattito può permettere un maggiore approfondimento sul tema controverso dell’oggettivazione diagnostica. A questo proposito Chapman scrive: “negli ultimi anni sembra esserci consenso tra una varietà di professionisti medici, psicologi, psichiatri e psicoterapeuti “critici”. Sostengono che la diagnosi psichiatrica sia scientificamente invalida e dannosa, e che la formulazione psicologica centrata sulla persona dovrebbe prendere il posto della diagnosi.” Chapman invece sostiene che “le classificazioni della disabilità sono spesso necessarie per riconoscere gruppi di persone che condividono forme simili di emarginazione e oppressione. Ad esempio, mentre è vero che l’autismo è un costrutto mutevole che ha poca utilità medica diretta, ci aiuta a riconoscere un aspetto importante della realtà sociale e le forme condivise di disabilità affrontate dalle persone autistiche. Per questo motivo, tali classificazioni possono essere epistemicamente emancipatorie in quanto categorie politiche utilizzate per condividere l’organizzazione e la resistenza. In effetti, la classificazione dell’autismo è stata usata con molto più successo come costrutto politico emancipatorio che come costrutto medico, proprio come è tipico di molte classificazioni di disabilità. Questo è importante da considerare perché mostra un caso in cui la posizione critica invece di essere utile diventa epistemicamente dannosa. È giusto sottolineare utilmente che le classificazioni psichiatriche a volte possono essere epistemicamente dannose, specialmente quando vengono presentate come malattie del cervello. Ma negando completamente la fatticità di concetti come ‘autismo’ o ‘ADHD’ come validi costrutti di disabilità che garantiscono il riconoscimento di certi modi di funzionare al di fuori della norma, i critici finiscono per mantenere una posizione non dissimile da coloro che pretendono di essere ‘daltonici’ in merito alla razza. Le persone che affermano di essere “daltoniche” in merito alla razza tendono a vedere il riconoscimento dei costrutti razziali come “divisivo” e sostengono che dovremmo semplicemente accettare gli individui per come sono, indipendentemente dalla razza; così facendo finiscono per rafforzare la violenza epistemica che cancella la realtà della razzializzazione. Allo stesso modo il dottor Sami Timimi, uno dei principali psicologi critici anti-diagnosi, critica gli autistici che reclamano la classificazione dell’autismo: per lui questo “perpetua le dinamiche noi/loro e solidifica ulteriormente l’individualizzazione che alimenta la politica neoliberista. Noi siamo tutti, ognuno di noi, unici e quindi siamo tutti neurodiversi.” La posizione di Timimi – che “siamo tutti neurodiversi” – serve solo a cancellare la voce, la cultura e la solidarietà autistiche e riduce i gruppi di disabili a individui sofferenti. Questa non è solo una caricatura dell’auto-difesa dei neurodivergenti, ma trascura anche il fatto che i problemi che le persone autistiche affrontano includono forme specifiche di abilismo e discriminazione dirette verso i tratti associati all’autismo. Per questo motivo, non credo che ci sia molto potenziale radicale o emancipatorio nel passare completamente dalla diagnosi alla formulazione psicologica. Entrambi incontrano più o meno gli stessi problemi e possono anche avere vantaggi simili, in contesti diversi e per persone diverse. Tuttavia, l’utilità distinta delle classificazioni di disabilità risiede in gran parte nel fornire le basi per la solidarietà, la cultura e la comunità intese nel contesto del gruppo di minoranza disabile; al contrario, l’approccio della formulazione psicologica cerca di chiarire la sofferenza individuale proprio in assenza di questo contesto di comunità oppressa: cancellare completamente le categorie diagnostiche a vantaggio di una formulazione psicologica, piuttosto che essere la soluzione all’individualismo neoliberista, potrebbe essere la sua espressione più recente e completa” (Gli articoli di Chapman sono disponibili su https://criticalneurodiversity.com/about-2/). Il tema è molto ampio e si rischiano semplificazioni ma crediamo che sia utile vedere come alternativa a questa polarizzazione la costruzione di saperi coprodotti (con tutti i limiti e le parzialità che questa prospettiva implica) che emergano da formulazioni condivise (e non solo di tecnici psy) come il Power Threat Meaning Framework. Sul concetto di antipsichiatria non possiamo che situarci in una prospettiva non-oggettivistica nell’utilizzo di questo concetto ambiguo, cercando però di cogliere le tensioni politiche che esso esprime. Secondo Sarah R. Kamens c’è “un grande bisogno di far avanzare il lavoro storico e filosofico che problematizzi la nozione di “antipsichiatria”. (…) In psichiatria come nelle scienze in genere le gerarchie discorsive hanno rapporti con un sistema di privilegi e storicamente “antipsichiatria” indica il disconoscimento di narrazioni alternative all’interno della psichiatria stessa; dietro di essa potrebbe esserci nient’altro che l’ossessione dello spettro del dubbio scientifico? Potremmo capire l’”antipsichiatria”, in altre parole, come controcanto costante della psichiatria?”. Una formulazione del concetto di antipsichiatria che ne preserva profondità e poliedricità è quella che fornisce Michel Foucault: “credo che ci siano, in fondo, tanti tipi di antipsichiatria quante sono le possibilità di modificare il rapporto di potere che esiste e che è stato storicamente instaurato tra lo psichiatra, il malato e la produzione della follia nella sua verità” (Storia della follia e antipsichiatria, 1973), in Michel Foucault e la “Storia della follia” (1961-2011), “aut aut”, 351, Il Saggiatore, 2011. In questo senso anche la neurodiversità sarebbe un movimento genuinamente antipsichiatrico in quanto afferma che la peculiarità che caratterizza una determinata condizione esistenziale vada sottratta dal campo del trattamento psichiatrico: in quanto non costituisce un errore da correggere non è da sottoporre a cura sanitaria.
17) «[i]o sono affascinato dalla dinamica della relazione tra le persone che sono oggetto della conoscenza, la conoscenza che verte su di loro, e quelli che detengono questa conoscenza. (…) L’individuo classificato si modifica solo per il semplice fatto che è classificato. Di conseguenza, siccome le persone classificate cambiano, la nostra conoscenza di questa classe di persone deve essere rivista, e anche i criteri di applicazione del nome della classe sono modificati», in Ian Hacking, Plasmare le persone. Corso al Collége de France (2004–2005), Quattroventi, 2008. non si può sopravvalutare il possibile contributo di questa riflessione ad una analisi delle attuali oggettivazioni psichiatriche, delle forme di presa in carico sociosanitaria e dei loro slittamenti. Tale osservazione si potrebbe applicare alle oscillazioni tra neuropsichiatria e disabilità nell’utenza durante l’età evolutiva; un altro campo che potrebbe essere osservato, a partire da storie ed elaborazioni soggettive, potrebbe riguardare il percorso di molti soggetti che nelle definizioni di “neurodivergenza” (come autismo o ADHD) hanno trovato oggettivazioni identitarie più positive rispetto alla moralizzazione correttrice che avrebbero subito attraverso diagnosi come Disturbo Borderline di Personalità et simili. Non potrebbe essere quest’ultimo caso letto nei termini della “insurrezione delle isteriche” analizzata da Michel Foucault?
18) Mad studies and neurodiversity: a dialogue, Brigit McWade, Damian Milton &Peter Beresford, Disability & Society Volume 30, 2015, pp. 305-309.
19) Sebbene molti punti sarebbero da approfondire, il principale obiettivo di una riflessione preliminare sulle possibilità di questo dialogo può stare nel dirimere la ambiguità politica espressa da questi movimenti. Su una critica alle politiche della neurodiversità che ne ricollega il successo alla configurazione delle politiche sociali neoliberali si veda “‘Us’ and ‘them’: the limits and possibilities of a ‘politics of neurodiversity’ in neoliberal times” Runswick-Cole, K., 2014. A queste critiche ha efficacemente risposto Robert Chapman individuando nei movimenti per la nerodiversità le tre tendenze “neurodiversità neoliberale, neurodiversità marxista e neurodiversità della giustizia intersezionale” e spingendo a valutare la propria prassi e il proprio posizionamento all’interno di questo ventaglio di possibilità.
20) Su queste dinamiche sociali si veda la riflessione di Andrea Fumagalli: “oggi assistiamo a un fatto nuovo: il prodotto del lavoro diventa sempre più non misurabile, almeno con le tradizionali unità di misura […] in molte attività produttive il modello taylorista della prescrizione delle mansioni cede il posto a quello della prescrizione della soggettività […] facendo del controllo totale del tempo e dei comportamenti dei salariati la posta in gioco centrale. Esso si concretizza in una panoplia di strumenti di valutazione della soggettività”, in Valore, moneta, tecnologia. Capitalismo e scienza economica, DeriveApprodi, 2021.