È uscito il 27 settembre 2022, per Astarte Edizioni, Il trauma coloniale. Indagine psicopolitica della colonialità in Algeria di Karima Lazali, tradotto da Barbara Sommovigo. Un testo politicamente così intelligente, in grado di tracciare e inseguire gli effetti della colonialità dalla violenza materiale che comporta al suo erigersi, dalle due sponde del Mediterraneo, a sistema di pensiero che agisce in modo determinante nel dibattito politico, fino alle sue incistazioni profonde nella psiche individuale e collettiva, sbarrando la strada alla trasformazione politica persino dentro e oltre la rivoluzione postcoloniale. È particolarmente importante che sia stato pubblicato in italiano: da un lato perché contribuisce a mostrare le responsabilità che i paesi europei hanno avuto nel devastare (finanche psichicamente) la storia e le terre di intere comunità (e di riflesso quindi anche sulle responsabilità italiane, per niente dissimili da quelle francesi). Dall’altro lato, perché anche fuori da un discorso sulla colonialità mette a disposizione dell’indagine politica degli strumenti psicanalitici molto raffinati. Del desiderio non si vede solo la potenzialità liberatoria, ma anche il negativo, senza però cedere alla narrazione classica della psicanalisi dell’impossibilità di sfuggirgli, al “non c’è niente da fare”. Parla, certo, di disaffezione alle istituzioni, di disaffezione anche ai processi rivoluzionari; parla di traumi intergenerazionali trasmessi ed ereditati in modo irriflesso. Parla di come tutto questo giochi un ruolo fondamentale nell’inazione o nell’azione politica parossistica, ma parla anche della necessità di cura – cura reciproca, cura collettiva – come presupposto per stabilire legami che consentono di riguadagnare lucidità politica, di pianificare strategie efficaci e di immaginare mondi diversi, e una diversa polis.

Karima Lazali, Il trauma coloniale

[Ne pubblichiamo qui un estratto, per gentile concessione dell’editore].

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La mia pratica della psicoanalisi si sviluppa in una dinamica di lingue – francese e arabo – e di territori – Francia e Algeria – diversi tra loro. Questa situazione ha probabilmente affinato una certa sensibilità alla differenza, in ciò che svela della “cosa” politica, qui e là, e delle sue incidenze sul soggettivo. A Parigi, il numero impressionante di pazienti francesi in analisi che prima o poi nel percorso evoca incidentalmente il significante “Algeria”, in un marasma generazionale, chiede attenzione. Questi pazienti francesi, provenienti per la maggior parte dalla terza generazione postcoloniale, si dicono ingombrati da una storia coloniale vissuta spesso a livello della generazione dei nonni coinvolti nella colonizzazione o nella guerra d’indipendenza, di cui sanno molto poco. È sorprendente constatare il modo in cui questi eredi sono tormentati da questioni relative alla vergogna e alla responsabilità. Nell’esprimere un sentimento pungente di malessere, sono intrappolati in una storia che non hanno conosciuto e che molto spesso è stata loro trasmessa sotto una coltre di silenzio. […] Come elaborare la propria storia personale quando il silenzio parentale si unisce allo spazio bianco della politica? […] Questi pazienti hanno iniziato l’analisi per alcuni sintomi particolari che apparentemente non hanno alcun legame né vicino né lontano con questo episodio della Storia. A un certo punto del percorso di analisi, i pazienti hanno formulato la loro impressione dolorosa di essere ostaggio di una storia che non possono ricevere, e di cui non sanno cosa fare. Seguire la musicalità del significante “Algérie” porta quindi a entrare in una zona bianca della memoria e della politica. I lavori degli storici non sono sufficienti ad aiutare questi pazienti a elaborare l’impensato di cui portano l’eredità, poiché la soggettività eccede il fatto storico. […] In Algeria tutto avviene come se la colonizzazione non possa essere altro che il trauma. Mentre in Francia, l’eventualità del trauma coloniale si ribalta molto spesso in capitalizzazione per il politico: i “benefici della colonizzazione” per i soggetti ex “indigeni”. In questo modo il politico tenta di far scomparire il fatto storico e taccia di inammissibile la parte soggettiva della Storia. Anche in questo caso, non esistono lavori clinici che pensino alla specificità di questi traumatismi e alla loro incidenza sul legame sociale […]. Il dispositivo di questo lavoro, che vede psicoanalisi, storia e letteratura alleate per portare allo scoperto il filo invisibile del politico, può essere giudicato problematico per ognuna di queste discipline. Ciò nonostante, ci è sembrata una scelta opportuna per affrontare la “cosa” politico-soggettiva della colonialità in Algeria che si costruisce come una totalità che oltrepassa i campi disciplinari. […] La letteratura cerca di riempire, scrivendo gli spazi bianchi e gli impensabili del fatto storico. Soprattutto, orienta il lettore verso la dinamica incessante tra il testo e i suoi margini invisibili. La psicoanalisi, da parte sua, lavora a leggere e ad analizzare ciò che si legge in maniera diversa da come viene enunciato. Questo dispositivo è efficace nella misura in cui è stata accuratamente evitata ogni forma di psicologizzazione dei personaggi e dello scrittore. Si tratta di indagare il testo nella sua letteralità. Cosa che, certo, è in contrasto con la maggior parte delle analisi letterarie. Allo stesso modo si è scelto di trattare la storia soggettivandola, al contrario di quello che è l’intento degli storici di oggettivare la Storia. L’altro elemento problematico del nostro metodo è di pensare il collettivo e la Storia nella loro tessitura politica a partire dalla psicoanalisi. […] La storia coglie, la letteratura scrive e la psicoanalisi legge ciò che nel testo si trova nello spazio bianco dei suoi margini.

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Immagine di copertina:
Kader Attia, J’Accuse, 2016, Museum für Moderne Kunst, Frankfurt am Main – Foto © Axel Schneider.