Quando Annie Ernaux lesse per la prima volta il romanzo Une vie, di Guy de Maupassant, aveva dodici anni. Il libro, che era di sua madre, lo aveva scovato dissimulato tra i pacchi di caffè e, come racconta in occasione di una conferenza tenuta nel 2012 nella sua città natale, Yvetot (pubblicata poi nel volume edito da Éditions du Mauconduit, Retour à Yvetot) ne rimase profondamente impressionata. Questo romanzo sarà anche uno dei testi che la scrittrice sceglierà di utilizzare, molti anni dopo, per la sua tesi di laurea sulle donne nel Surrealismo. Si tratta del primo romanzo dello scrittore francese il quale, fino a quel momento, aveva pubblicato solo alcune novelle. Une vie uscì a puntate sul quotidiano Gil Blas nel 1883 e narra le vicende di Jeanne Lamare, una giovane aristocratica che a diciassette anni lascia il convento per tornare dalla famiglia e intraprendere una vita, perlopiù infelice, votata al matrimonio e ai figli. Se Maupassant, per scrivere questo romanzo, si è certamente ispirato ad altre celebri protagoniste femminili dell’epoca, da Emma Bovary a Madame Aubain, protagonista di Un coeur simple, ma anche alla sua propria biografia personale – la madre Laure, infatti, visse un matrimonio infelice, caratterizzato dalla continua ed esplicita infedeltà dal marito – la particolarità di questo romanzo è che l’autore ha voluto raccontare non solo alcune vicende della vita di una donna, ma «la vie d’une femme depuis l’heure où s’éveille son cœur jusqu’à sa mort».1 La storia di Jeanne ha, insomma, una vocazione totale, ha la pretesa di tracciare il percorso della vita di una donna, di raccontarne le vicende, i sentimenti, l’entourage familiare, tutto, dall’inizio alla fine.

A un secolo esatto dalla pubblicazione del romanzo di Maupassant, ovvero nel 1983, Annie Ernaux riprenderà questa stessa vocazione al romanzo totale incominciando ad elaborare il libro al quale lavorerà per decenni e che verrà pubblicato solo nel 2008, Les années (tradotto in italiano da Lorenzo Flabbi per l’Orma editore con il titolo Gli anni). È la stessa Ernaux a sottolineare, in una pagina del suo journal d’écriture (pubblicato una prima volta dalle Éditions des Busclats con il titolo L’atelier noir e oggi ristampato in edizione ampliata da Gallimard), questa vocazione: «celui-ci serait une sorte de destin de femme»2 e, nei passaggi del diario, questo progetto viene spesso denominato RT, ovvero roman total. «Oggi ho voglia di un grande romanzo, di un’individualità (non ne sono sicura, forse diverse), una donna al centro, e una vita, la storia vista dal suo punto di vista?»,3 si legge sempre nel journal. Tuttavia, le differenze rispetto al romanzo di Maupassant vengono subito precisate: «ma il metodo è da decidere. Non fare Une vie. Tutto un brulicare, un sacco di personaggi».4 Una questione, quella del metodo e della distanza dal romanzo di un secolo prima che Ernaux ribadirà anche alla conferenza di Yvetot, durante un’intervista rilasciata a Marguerite Cornier: «Il progetto de Gli anni mi è venuto intorno alla quarantina. Ho provato il bisogno di trovare una forma per dire una vita. Dire una vita, come l’ha fatto Maupassant in Une vie, ma non alla stessa maniera. A differenza sua, io non potevo separare la mia vita dalla storia della gente, dalla storia del tempo, dalla storia del mondo».5 Questa sua volontà di indagine, tra storia collettiva e personale, le è valsa il Premio Nobel per la Letteratura assegnatole il 6 ottobre 2022 con la seguente motivazione: «Per il coraggio e l’acutezza clinica con cui ha svelato le radici, gli straniamenti e i vincoli collettivi della memoria personale».6

Il lavoro di Ernaux, dunque, da un lato pare iscriversi pienamente nel solco della tradizione del romanzo borghese dell’Ottocento, con il suo anelito totalitario, la sua volontà di dominio sul reale, ma, dall’altro, la scrittrice francese rompe completamente, come vedremo meglio tra poco, con la stessa forma romanzo per intraprendere una strada che la caratterizzerà particolarmente, almeno a partire da La Place (tradotto in italiano sempre per l’Orma editore con il titolo Il posto), pubblicato nel 1984 e vincitore del Prix Renaudot. Con i primi tre romanzi, in particolare con Les Armoires vides, romanzo d’esordio del 1974 (tradotto in italiano nel 1996 da Rizzoli con il titolo Gli armadi vuoti), Ernaux era rimasta, infatti, entro i confini del romanzo autobiografico. Les armoires vides è un testo che Simone de Beauvoir definirà «volontariement un peu ambigu»7 rimarcandone e apprezzandone, dal canto suo, una caratteristica importante, ovvero quello spazio riuscito nel quale la letteratura è in grado di sostare, tra i confini incerti di realtà e finzione, di verità e menzogna. La trama del romanzo è caratterizzata da un alternarsi secco e ritmato tra le scene di una ragazza di vent’anni, Denise Lesur, in procinto di subire un aborto in una stanza della città universitaria e i ricordi che le salgono allo stomaco e, come una nausea inarrestabile, escono fuori violenti. La lingua che ritroviamo in questo libro, ma anche nel romanzo, sempre autobiografico, La femme gélée (tradotto in italiano da L’Orma editore con il titolo La donna gelata) e, in parte, in Ce qu’ils disent ou rien, tentativo modesto, di far parlare una protagonista adolescente, è una lingua violenta, che pare graffiare la pagina alla ricerca di un’altra dimensione. Si tratta di una lingua rabbiosa, «influenzata da Céline»8 e votata alla vendetta: «je vengerai ma race»9 scriverà Ernaux nel suo diario dell’epoca, facendo eco ai versi di Rimbaud in Mauvais sang.

La fatica di Eranux di restare all’interno di un’area di finzione, tuttavia, sembra evidente fin da subito, ma diviene esplicita ne La femme gélée, romanzo nel quale, rispetto all’esordio, la prosa pare soffocare sotto il peso di un autobiografismo lirico nel quale la cronaca di una sconfitta, quella di otto anni passati «a fare tutto quello che non volevo fare, insegnare in un liceo, allattare, fare i lavori di casa e la cucina»10 si trasforma nella narrazione di un vuoto, di una vita soffocata e soffocante che la scrittura non riesce, secondo chi scrive, del tutto a redimere. È la stessa Ernaux a considerare questo romanzo come «un testo di transizione verso l’abbandono della finzione in senso tradizionale».11

Annie Ernaux, La place

È dopo la pubblicazione de La femme gélée (1981), infatti, che Ernaux inizia a tenere un journal d’écriture, ovvero a partire dal 1982, attraverso il quale prova ad uscire dall’impasse strutturale nella quale si trova nell’utilizzo del modello dell’autobiografia. Questo diario di lavoro accompagnerà non solo la stesura di La place, ma anche di molte opere successive: Une femme (1988) (Una donna, l’Orma editore), Passion simple (1992), La honte (1997) (La vergona, l’Orma editore), L’évenement (2000) (L’evento, l’Orma editore), e alcune sue parti verranno pubblicate come corollari di libri precedenti, come “Je ne suis pas sortie de ma nuit” (1997), sulla malattia della madre, a complemento di Un femme, o Se perdre, diario di Passion simple. Altri progetti abbozzati nel diario, invece, diverranno testi autonomi, come quello sulla ville nouvelle, una Cergy all’epoca nuovissima e anonima che l’autrice abita dal ’77, e che diventerà Journal du dehors. Nel journal d’écriture da un lato Ernaux rinnega con forza tutto quanto è finzione («Sono recalcitrante di fronte a questo mezzo così classico di delegare a un personaggio quello che penso di questa o quella cosa, come qualcosa di falso»12 o ancora «vorrei che il seguito fosse diretto come la pagina di un diario, senza alcuna messa in scena. È la messa in scena quello che mi fa più di tutto orrore»),13 e parallelamente produce riflessioni metaletterarie sulle modalità di composizione di testi che si vogliono sempre più lontani dalla forma romanzesca («rifiuto della struttura romanzesca, tentazione di un “io” assoluto, dell’autobiografia oggettiva ma anche necessità di generalizzare»).14 La morte del padre accelera questo processo di allontanamento e sancisce una distanza che trasformerà definitivamente l’autobiografia in auto-socio-biografia, una sorta di autobiografia che vuole essere collettiva, impersonale, dissolta: «cominciare un libro significa sentire me e il mondo intorno a me come dissolti, accettando di dissolvermi, per comprendere e rendere la complessità del mondo».15

Se tracce di questa insofferenza alla finzione sono precedenti al journal dell’’82 (già in una pagina del diario personale del 1970 si legge «scrivere come i pittori fanno nature morte e aggiungerci il mondo, in supplemento. Questo rifiuta ovviamente l’uso di un personaggio e anche di un “io”»)16 è però solo a partire da questo momento che un nuovo progetto, mediato dalla lettura del sociologo Pierre Bourdieu, dalla scomparsa del padre, dalla nuova posizione sociale acquisita da Ernaux, cambia per sempre la direzione della sua scrittura. «L’etnologia, alla quale rifletto oggi, mi sembra un modo obbiettivo e allo stesso tempo analitico di guardare le cose. Allo stesso tempo elementi per uno studio dell’alienazione e un’apertura della distanza».17 Un anno dopo viene pubblicato La place (il cui titolo in origine era La visite) e il realismo della descrizione, la distanza oggettiva e i focus della memoria diventano la cifra stilistica di Ernaux. La citazione di Jean Genet che ritroviamo in esergo al libro, «Je hasarde une explication: écrire c’est le dernier recours quand on a trahi»,18 inoltre, spalanca le porte alla tematica del tradimento di classe. La consapevolezza di essere una «transfuge de classe», termine che Eranux riprende mediato da Bourdieu, ma che viene forgiato in un primo tempo dalla filosofa Chantal Jaquet insieme a «transfuge social» e «transclasse»,19 accompagnerà la scrittrice francese in quasi tutte le opere successive. A partire da questo momento, la riflessione intorno alle classi sociali diventa esplicita, anche se, a ben guardare, era un elemento già presente ne Les armoires vides, non certo come riflessione metaletteraria, ma nella forma dei ricordi della protagonista, Denise Lesure, quando racconta della sua infanzia vissuta in un milieu modesto, circondata dai personaggi popolari di una piccola provincia del nord della Francia. Lì la riflessione sociologica era interna alla narrazione, implicita e amplificata da una voce femminile piena di risentimento, mentre successivamente la riflessione diviene sempre più esplicita, la narrazione scompare per lasciare spazio a una realtà che si vorrebbe oggettiva e osservata: «il était le porteur de la mémoire de mon premier monde»,20 si legge nell’ultimo libro Le jeune homme (uscirà per l’Orma editore in novembre con il titolo Il ragazzo), a proposito dei modi e del linguaggio del giovane amante con il quale Ernaux visse una relazione alla fine degli anni ’90 e che, ai suoi occhi, rappresenta la classe sociale della quale lei non fa più parte.

L’uso diretto della sociologia in letteratura non è certo una novità, si pensi al romanzo di George Perec, Les Choses, pubblicato nel 1965, che si conclude con una citazione di Marx sulla ricerca della verità, a coronamento della storia «insipida» di Jérôme et Sylvie. E tuttavia Perec non disdegna la forma romanzesca, così come sperimenterà molte altre forme narrative e poetiche, elaborando una narrazione nata da un’idea di possibilità, ovvero immaginando la vita di una giovane coppia che entra nel tranquillo universo borghese del lavoro e della merci e mettendo in scena una perfetta «tragedia tranquilla».21 Una messa in scena che Ernaux, come abbiamo visto, rifiuta, nel momento in cui decide di raccontare la vita del padre.

«Da poco so che il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di “appassionante” o “commovente”. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io. Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare notizie essenziali».22

La forma romanzo, insomma, per Ernaux diventa addirittura impossibile. Se per Simone de Beauvoir era difficile scegliere tra il vivere e lo scrivere la vita, se per Violette Leduc (autrice sempre troppo poco citata), invece, l’equilibrio era precario, doloroso, ma possibile nella forma della narrazione, Ernaux sceglie di uscire dai canoni della letteratura per andare verso un’aderenza totale, non mediata, tra vita e scrittura. La vita, per lei, esiste solo per il tramite della scrittura: «Prima di scrivere, per me, non c’è altro che una materia informe, ricordi, visioni, sentimenti ecc. La posta in gioco consiste nel trovare le parole e le frasi più giuste, che faranno esistere le cose, “vedere”, dimenticando le parole, essere dentro quello che sento essere una scrittura del reale». Sempre con un esplicito «disgusto della messa in scena»,23 l’autrice vuole «rimanere al di sotto della letteratura»24 in una sorta di grado zero che a lungo andare, però, rischia di sfociare in quello stile di maniera di cui parlava Roland Barthes proprio in Le dégré zéro de l’écriture, (Il grado zero della scrittura, Einaudi) quando, in cerca di una scrittura troppo neutra, l’opera perde il legame con la storia. E la scrittura di Ernaux, dopo La place, è costruita in modo da risultare il più neutra possibile:

«Più precisamente, la scelta di scrittura di La place, è quella di inventare una lingua che sia, allo stesso tempo, eredità della lingua letteraria classica, ovvero scarna, senza metafore, senza grandi descrizioni, una lingua di analisi, e che, allo stesso tempo, integri le parole e le espressioni in uso nelle classi popolari, con, a volte, qualche parola di dialetto».25

Questa scrittura analitica, piatta, affilata «comme un couteau» (L’écriture comme un couteau è anche il titolo di un libro-intervista uscito nel 2011 a cura di Frédéric-Yves Jeannet) la rintracciamo nella motivazione di questo Nobel 2022 per la letteratura quando si parla di «clinical acuity». Una scrittura clinica, che spesso appare disincarnata, definitiva («il mio immaginario delle parole è la pietra e il coltello»)26 e che vuole parlare a tutti: «in generale, il mio desiderio è di scrivere letteralmente nella lingua di tutti».27 Una scrittura completamente tesa all’oggetto della ricerca: «non scrivo pensando a uomini o donne, ma alla “cosa” che voglio afferrare con la scrittura»28 e che mette a fuoco l’avvenimento con sguardo disincantato e, spesso, con un sottotesto di violenza. Quella violenza che abitava il linguaggio dei primi romanzi, infatti, non viene cancellata dalla scrittura piatta, ma semplicemente si sposta, viene ritagliata in frasi secche, brevi, scarne. «C’est toujours le sentiment violent qui me fait écrire»,29 si legge nel journal d’écriture. Una violenza che l’autrice spiega con il fatto di voler portare nei suoi libri la violenza di classe, il linguaggio duro e popolare nel quale è cresciuta. Una violenza che, tuttavia, è spesso paragonata a quella del godimento sessuale e che riprende quell’idea di dissoluzione già citata. Questa dissoluzione assomiglia a quella che si trova nel finale de Les années, ovvero una dissoluzione orgasmica nella quale «toutes les images disparaîtront»,30 e ancora più esplicitamente, nell’ultimo libro pubblicato dalla scrittrice, Le jeune homme:

«Spesso ho fatto l’amore per obbligarmi a scrivere. Volevo trovare nella fatica, nell’abbondono che segue, delle ragioni per non attendere più niente dalla vita. Speravo che la fine dell’attesa più violenta che ci sia, quella dell’orgasmo, mi facesse provare la certezza che non ci fosse godimento superiore a quello della scrittura di un libro».31

L’orgasmo come correlativo oggettivo di un sentimento di dissoluzione nel quale l’analisi oggettiva esplode e in un certo senso si confessa impossibile. Quasi che questa presunta oggettività non fosse poi effettivamente praticabile, se non in un ritorno al corpo, alla singolarità della sensazione.

Annie Ernaux, Écrire la vie

Ora, che sia davvero possibile questa sublimazione delle differenze – differenze che peraltro oggi qualificheremmo come inestimabili e necessarie –, che sia realizzabile questa pretesa universalità di una lingua di e per tutti, al netto della latitudine precisa dalla quale proviene la voce, e in parte iscritta, come abbiamo visto all’inizio, nel solco della tradizione del romanzo ottocentesco, che questa assenza di mediazione sia la chiave di accesso alla realtà, ci pare qualcosa di già antico. È lecito domandarsi come mai l’Accademia svedese abbia valutato queste caratteristiche di importanza globale in questa nostra epoca. Al netto dell’importanza accordata ai premi in generale e ai Nobel in particolare, resta il fatto che si tratta di un riconoscimento mondiale accordato a coloro i quali apportano i maggiori benefici all’umanità. Che il percorso di Ernaux sia singolare e proceda in una direzione costante è indiscutibile, ma che questo percorso, il quale prevede un rifiuto sistematico della finzione, un’aderenza totale a una realtà abitata esclusivamente da animali umani (pure se si tratta di un umano dissolto: «il n’y a personne dans me livre»,32 si dice ancora in una recentissima intervista radiofonica), sia un contributo globale nell’epoca dell’Antropocene manifesto e del mondo che verrà, non è sicuro. Questa scelta appare piuttosto come il colpo di coda di un’eredità dei secoli appena trascorsi, caratterizzati dalla volontà di dominio sul reale. Per quanto riguarda l’utilizzo sistematico della precisione, per esempio, che è un punto spesso rimarcato, tornano alla mente le parole di Anna Tsing che troviamo in apertura di un saggio importante sul capitalismo delle filiere (supply chain) e che sarà il punto di partenza per i suoi studi successivi sui funghi matsutake. Scrive Tsing:

«C’è qualcosa di spaventosamente bello nella precisione, anche quando siamo consapevoli che essa ci tradisce. Un secolo fa si rimaneva stupefatti per la terribile precisione della fabbrica, oggi per la precisione del computer: essa ha mesmerizzato non solo gli ingegneri ma ogni genere di designer, studioso e osservatore. Un ambito in cui la precisione ha ottenuto un’egemonia malevola è l’utilizzo delle scale. Ad esempio, nei supporti digitali – con il loro potere di rendere il grande minuscolo e il minuscolo grande con un semplice zoom – “scalare” è divenuto un verbo che richiede precisione; scalare bene significa sviluppare la qualità denominata scalabilità, cioè l’abilità di espandere […] senza dover modificare gli elementi di partenza. La scalabilità è, in effetti, il trionfo della progettazione di precisione, non solo nei computer ma anche negli affari, nello sviluppo, nella “conquista” della natura e, più in generale, nella costruzione di mondi».33

Questa volontà di verità che ritroviamo in Ernaux, e la modalità chirurgica con la quale viene praticata, un’adesione diretta, non mediata tra vita e scrittura, un rifiuto costante della finzione, ricorda questa precisione scalare tipica della modernità capitalistica. Che, non a caso, come sostiene Tsing, è una modalità inaugurata con le piantagioni di canna da zucchero nelle colonie olandesi, ma che poi migra rapidamente in diversi ambiti culturali, diventando una nuova visione del mondo. Una visione del mondo in parte malevola con questa sua caratteristica, ormai già antica, che permetteva l’espansione uniforme di un discorso dominante, e che possiamo rintracciare nella determinatezza di quell’articolo che si vorrebbe preciso e universale allo stesso tempo, «écrire la vie» che si sostituisce all’indeterminatezza singolare di «une vie». Non più una vita tra le tante, ma la vita di tuttǝ. Ma quale vita? Di quali donne, per esempio? Questa determinatezza ci aiuta, per esempio, in questo momento, a intercettare i corpi esposti delle donne in Iran? Se il concetto di universalità è servito, e anche tanto, ad afferrare il mondo sino a qui, non crediamo sarà altrettanto utile ad affrontare il mondo che abitiamo e che verrà. Neanche, e soprattutto, da un punto di vista sociale. E qui concludiamo con uno spunto per una nuova sociologia, quello lasciatoci da Bruno Latour con la teorizzazione della Actor-Network Theory. Con la profondità di indagine che lo caratterizzava, Latour ha rimesso in discussione lo stesso concetto di «sociale», per allargarlo ad animali umani e non umani, a società diverse e apparentemente lontane, per abbozzare nuove forme di convivenza. Al posto di continuare a sottolineare differenze, compartimenti stagni e passaggi netti, questa «sociologia delle associazioni»34 vuole uscire da definizioni aprioristiche fuori tempo massimo e creare nuove connessioni per nuovi mondi. Una buona occasione e una nuova sfida, anche per la forma romanzo, di andare al di là di un reale che si vuole troppo preciso e forse anche troppo vero.

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Note:

1) Si veda la prima pagina del 21 febbraio 1883 del quotidiano Gil Blas nella quale è presentata la prima puntata del romanzo, Gil Blas / dir. A. Dumont | 1883-02-21 | Gallica (bnf.fr)
2) Annie Ernaux, L’atelier noir, Éditions des Busclats, 2011, p. 27.
3) Ivi, p. 40.
4) Ibidem.
5) Liberamente tradotto da Annie Ernaux, Retour à Yvetot, Éditions du Mauconduit, Paris, 2013, p. 66.
6) The Nobel Prize in Literature 2022 – NobelPrize.org
7) Simone de Beauvoir in una lettera indirizzata ad Annie Ernaux in occasione della pubblicazione de Les Armoires vides nel 1974, in Cahier Annie Ernaux, Éditions de l’Herne, Paris, 2022, p. 27.
8) Liberamente tradotto da Annie Ernaux, Retour à Yvetot, p. 32.
9) Cahier Annie Ernaux, p. 23.
10) Ibidem.
11) Annie Ernaux, L’écriture comme un couteau. Entretien avec Frédéric-Yves Jeannet, Gallimard, Paris, 2003, p. 29.
12) Annie Ernaux, L’atelier noir, p. 50.
13) Ivi, p. 78.
14) Ivi, p. 117.
15) Ivi, p. 83.
16) Ivi, p. 24.
17) Annie Ernaux, L’atelier noir, p. 22.
18) Annie Ernaux, La place, in Annie Ernaux, Écrire la vie, Quarto Gallimard, Paris, 2011, p. 436.
19) A questo proposito si veda l’intervista di Chantal Jaquet a France Culture: Les transclasses, retour sur un phénomène de société (radiofrance.fr) e il volume La fabrique des transclasses edito da puf e curato da Jaquet e Géranrd Bras.
20) Annie Ernaux, Le jeune homme, Gallimard, Paris, 2022, p. 21.
21) George Perec, Les choses, Éditions J’ai Lu, 2010, p. 189.
22) Annie Ernaux, Il posto, L’Orma editore, Roma, 2014, p. 21.
23) Annie Ernaux, L’atelier noir, p. 139.
24) Ivi, p. 138.
25) Annie Ernaux, Retour à Yvetot, p. 33.
26) Annie Ernaux, L’écriture comme un couteau, p. 82.
27) Annie Ernaux, Retour à Yvetot, p. 34.
28) Annie Ernaux, L’écriture comme un couteau, p. 96.
29) Annie Ernaux, L’atelier noir, p. 97.
30) Annie Ernaux, Les années, in Annie Ernaux, Écrire la vie, p. 927.
31) Annie Ernaux, Le jeune homme, p. 11.
32) Les sciences sociales lectrices d’Annie Ernaux (radiofrance.fr)
33) Anna Tsing, Della non-scalabilità (2012), in Un mondo logistico. Sguardi critici su lavoro, migrazioni, politica e globalizzazione. A cura di Niccolò Cuppini e Irene Peano, Ledizioni, Milano, 2019, p. 97.
34) Si veda Bruno Latour, Riassemblare il sociale. Actor-Network Theory, Meltemi, Milano, 2022.

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Immagine di copertina:
Niklas Elmehed, Annie Ernaux, 2022 – Nobel Prize Outreach