«I residui del passato forniscono progetti per negoziare il presente: alcune particolari relazioni autodistruttive che molti adulti sembrano creare, o ri-creare, in continuazione nel corso della loro vita, vengono ricreate come veicoli per la conservazione dei legami precoci con la propria matrice relazionale. In altri termini, ogni essere umano costruisce il proprio mondo relazionale attuale in modo tale da conservare la connessione, o l’illusione di connessione, con il proprio mondo interpersonale interiorizzato. Ciò avviene perché “agire con le antiche illusioni e con schemi stereotipati riduce l’angoscia e produce sicurezza, non semplicemente perché le illusioni gli schemi sono familiari, ma anche perché sono ‘di famiglia’ e mantengono un senso di fedeltà e di connessione (Mitchell, 1988, p. 262). Questa ripetizione coatta delle precoci esperienze dolorose sembra dunque riflettere un tentativo, potenzialmente disadattativo, di “ricreare la propria famiglia” nel contesto dell’esperienza soggettiva attuale. […] È essenziale sottolineare, in questo senso, […] l’ampio filone di studi che a partire dalla teoria dell’attaccamento indaga i processi di organizzazione dei modelli operativi interni, o degli schemi di “essere con” (Stern, 1995) […]. Già Bowlby (1988) aveva dimostrato come l’organizzazione dei modelli operativi interni sia costantemente affiancata dall’utilizzazione di meccanismi […] funzionali a distorcere o negare l’accesso alla consapevolezza di determinate informazioni» (V. Lingiardi – F. Madeddu, I meccanismi di difesa, Cortina, 2003, p. 129).

Indipendentemente dal fatto di essere terapeuti e pazienti, l’ignoto spaventa tutti. E non c’è nulla di male in questo: per quanto unico e particolare, noi sappiamo muoverci in quell’ambiente conosciuto; alle volte, siamo pronti a sacrificare magari la funzionalità per avere un contesto per noi “maneggevole”. Quello che spesso si sottovaluta o si trascura è la dimensione storica in cui ciascun individuo è inserito, ma non inteso (solamente) come il contesto culturale in cui ognuno di noi è giocoforza parte. Quella è solo una componente, pur importante, ma non l’unica. Quando si parla di “residui del passato” si fa riferimento a moltissimi piani storico-processuali, e io trovo utile suddividerli in tre grandi categorie prese in prestito dall’embriologia, dalla scienza etologica e dalla filosofia: la dimensione ontogenetica, che racchiude le peculiarità dell’individuo dal momento della sua nascita fino al tempo presente e che, spesso, rischia di essere trascurata o in vista di una nosografia descrittiva stringente e generalizzante, o considerata riduttivamente come l’unico elemento di interesse; la dimensione filogenetica, che è quella che definirei probabilmente “storica propriamente detta”, perché vede l’individuo alle prese con quella che è stata la storia precedente, dalla nascita della specie Homo fino ad oggi (e che evoluzionisticamente e biologicamente orienta o, come direbbe qualcuno, affligge tutti noi); infine, quella forse meno considerata, che è la dimensione palingenetica, che ci vede tutti alle prese con questo ricapitolarsi non solo macroscopico della storia umana, ma anche banalmente quello più prossimo e condiviso della vita famigliare.

Questo inconscio ripercorrersi, atemporale e in qualche misura immune allo scorrere del tempo fisico, attraversa le generazioni ed entra con intensità nel vissuto dell’individuo. Anche sul concetto di tempo sarebbe molto interessante soffermarsi, cercando di comprendere che cosa si possa intendere e che cosa ci rappresenti questo vocabolo ambiguo e che si presta a un dibattito fenomenologico ed esistenziale davvero molto ampio. Eugène Minkowski (1968/2014), che molto ha detto al riguardo in un libro intitolato appunto Il tempo vissuto, scriveva nel 1933:

«Che cos’è dunque il tempo? È, per dirlo con Bergson, questa “massa fluida”, quest’oceano mobile, misterioso, grandioso e possente che vedo attorno a me, in me, in una parola ovunque, quando medito sul tempo. […] Nella sua potenza misteriosa esso non lascia emergere nessun isolotto al quale appigliarsi per abbozzare un giudizio o una definizione sul suo conto. Ricopre con i suoi flutti tutto ciò che potremmo essere tentati di opporgli; non conosce né soggetti né oggetti, non ha parti distinte, né direzione, né inizio, né fine. Non è reversibile né irreversibile. È universale e impersonale. Risulta caotico. E purtuttavia è vicinissimo a noi, così vicino da costituire la base stessa della nostra vita. Diremmo quasi che è sinonimo di vita, nel senso più ampio del termine» (Minkowski, op. cit.; p. 18).

Difatti, chi di noi può negare, anno dopo anno, quanto nel tempo le esperienze di vita si accumulino inesorabili, come pagine di diario o pesanti fardelli di un bagaglio impossibile da smarrire.

E che bagaglio pesante ciascuno di noi si porta appresso! Se pensiamo che ognuno di noi trascina per tutta la vita, non solo in terapia, una grandissima valigia piena di eventi o esperienze piccole o grandi avvenute ai propri genitori, che le hanno vissute o ereditate a loro volta dai propri genitori e così via, è facile immaginare quanto ciascuno di noi sia carico di una storia che è sì propria, ma anche condivisa. E allora rileggere l’estratto di Vittorio Lingiardi e Fabio Madeddu assume una profondità ancora maggiore: qual è il mondo interpersonale interiorizzato, e quali “antiche illusioni”?

È facile depauperare l’esperienza di vita di ciascuno di noi, considerando il malessere mentale e psicologico “solo” una malattia. Come se esistesse un agente patogeno che possa infettarci con la terribile depressione maggiore, o che esista un virus pernicioso che ci porta al disturbo ossessivo-compulsivo. Eppure il sintomo,1 questa feroce bestia nera, ha un suo significato. È dentro la storia dell’individuo, e a sua volta il paziente (colui che è in uno stato di pathos) attribuisce a questi un significato. Se con le malattie biologiche è più negletto perché si dà la priorità al mondo fisico – sebbene imprescindibile per un processo di autentica cura/guarigione, come tanti esponenti dell’antropologia medica ci hanno continuamente dato prova (Quaranta, 2007) – con il mondo mentale non può non esistere un discorso semantico da un lato ed ermeneutico dall’altro. Questo ci porta inevitabilmente a confrontarci con il valore profondo della parola “significato”.

Se si traccia un filo rosso tra i più vari approcci psicoterapeutici e le teorie della sistemica, della complessità e della cibernetica, si ritrova questa coerenza tra i concetti di autorganizzazione, di autoreferenzialità e di autopoiesi.2 Senza questa connessione, sarebbe probabilmente più arduo e meno immediato attribuire un’accezione non patologizzante o non colpevolizzante a questo passaggio: «[l’]utilizzazione di meccanismi […] funzionali a distorcere o negare l’accesso alla consapevolezza di determinate informazioni» (Lingiardi & Madeddu, 2003; Cfr. supra). La “difesa” del paziente non è dalle aggressioni del terapeuta, anche se questo potrebbe apparire coerente all’immaginario dello psicoterapeuta/telepate che invade la mente dell’altro, leggendola ed “espugnandola” come se fosse una fortezza. Nessuno, oltretutto, distorce le informazioni e le rinnega all’esperienza cosciente perché è fenomenologicamente negligente o disimpegnato. Al contrario, siamo tutti attivamente alla ricerca del significato di ciò che esperiamo e viviamo, pronti ad attribuirne uno in ogni momento. Secondo me, il passaggio più sostanziale ed efficace nel rendere l’idea di questo concetto è stato scritto da Vittorio Guidano nel 1988, quando proprio nelle prime pagine del suo La Complessità del Sé ha tracciato questa descrizione:

«[C]onsiderare un sistema conoscitivo come un sistema autoreferenziale e autorganizzantesi equivale ad assegnare ai processi conoscitivi umani un ruolo di assoluta centralità nella costruzione di quell’ordinamento della realtà che comunemente denominiamo “esperienza personale”. […] Un sistema conoscitivo autoreferenziale è autonomo perché nel corso del suo divenire temporale subordina ogni possibile trasformazione e/o cambiamento al mantenimento dell’identità che è stato in grado di costruirsi. Il mantenimento del senso di individualità e unicità personale, che ha luogo durante il ciclo di vita, è espressione dell’attività autopoietica individuale […] caratterizzata da un continuo processo generativo di autorinnovamento, grazie al quale le perturbazioni provenienti dall’interazione con il mondo esterno sono trasformate in livelli sempre più complessi e integrati di identità personale e di consapevolezza di sé» (Ivi, p. 20).

La “difesa”, quindi, è proprio dalla perturbazione, da ciò che – esterno a noi – minaccia il nostro sistema di significati, le nostre coerenze, le nostre certezze; quell’apertura a significati che possono troppo profondamente disvelare il nostro mondo interno. La difesa, quindi, dall’ignoto che è anche dentro di noi, e che a volte spaventa più di una quotidianità fatta di sofferenza e dis-adattamento. Questo non vuole rinnegare che è proprio lì che giace la grande potenzialità conoscitiva dell’inedito e del mai esperito, ma rende forse meno aspro il nostro essere strenuamente ed umanamente pronti a difenderci da esso.

Quello di selezione dei significati che preservino la coerenza sistemica e ricreazione di un contesto mimetico d’origine è un meccanismo di controllo di cui tutti siamo dotati, ma soprattutto di cui tutti abbiamo giocoforza bisogno, e che influenza il nostro modo di vivere così profondamente che solo grandi percorsi di vita o una psicoterapia possono – alle volte – portarlo alla luce.

Riferimenti bibliografici

Bocchi, G., & Ceruti, M., La sfida della complessità, Bruno Mondadori, 2007
Ceruti, M., La fine dell’onniscienza, STUDIUM, 2014
Guidano, V. F., La complessità del Sé, Bollati Boringhieri, 1988
Minkowski, E., Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Fabbri, 1968/2014
Quaranta, I., Antropologia medica, Raffaello Cortina, 2006
Von Foerster, H., Understanding Understanding: Essays on Cybernetics and Cognition. Springer, 2003

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Note:

1) Qui potrebbe essere prezioso un piccolo distinguo: se in semeiotica medica la separazione tra segno (un dato oggettivo, medicalmente rilevante) e sintomo (un dato soggettivo, esperito dal paziente e quindi di base difficilmente verificabile) ha un senso univoco e strutturale, in ambito psicologico forse potrebbe essere interessante analizzarne la natura, poiché il paziente è al contempo osservatore e osservato nel suo stato. In questo, il ricco apporto delle neuroscienze forse ha molto da arricchire a livello di dibattito, aprendo interessanti parentesi inerenti al concetto di oggettività nel campo della neuroetica e della neuroscienza cognitiva e affettiva, per citarne alcune.

2) Si vedano G. Bocchi – M. Ceruti, La sfida della Complessità, 2007; V. Guidano, La complessità del Sé, 1988; H. Maturana – F. Varela, Autopoiesis and Cognition, 1980; H. Von Foerster, Understanding Understanding: Essays on Cybernetics and Cognition, 2003.

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Immagine di copertina:
Francisco Goya, El sueño de la razón produce monstruos, 1797 – Biblioteca Nacional de Espana, Madrid