Il Bardo Tödöl è un testo della tradizione buddhistica, magistralmente tradotto in italiano da Giuseppe Tucci (Il libro tibetano dei morti, Rizzoli 2020). In esso sono contenute le istruzioni esoteriche da impartirsi al moribondo o al morto – sussurrandogliele all’orecchio – affinché egli attinga la consapevolezza dell’insostanzialità fenomenica e la trasferenza/dissoluzione del principio cosciente nella luce della verità.

Il libro tibetano dei morti

Il bardo è quel delicato periodo di esistenza intermedia, liminare, della durata di quarantanove giorni, attraversato dal principio cosciente del defunto; periodo in cui esso immagina di subire una serie di esperienze sotto la spinta delle forze karmiche e in cui “si gioca” la rinascita o la liberazione definitiva.

«Cominciamo dal riconoscimento della luce propria dello stato dell’esistenza intermedia che appare al momento della morte. Le creature di buona intelligenza che nulla seppero del riconoscimento (di questa luce) o che, pur sapendone, non si esercitarono e le persone profane, tutte quelle che ebbero sentore delle spiegazioni segrete, quando ricorrono alla lettura di questo libro riconoscono quella luce fondamentale e senza entrare nello stato dell’esistenza intermedia ottengono facilmente il corpo increato della illimitata potenzialità spirituale (parte prima)».

Bardo è il titolo del corto del regista Daniele De Stefano.
Nelle sue note di accompagnamento leggiamo:

«“Bardo” intende riprendere lo stile surreale del regista Luigi Di Gianni, che operò in Basilicata e Campania, e mescolarlo con l’analisi materialista e antropologica di Ernesto De Martino.
L’opera prende ispirazione dalla cifra stilistica visiva di Di Gianni, in cui la realtà documentaristica veniva opportunamente rappresentata con fervida surrealtà, ricostruendo momenti di vita quotidiana e portandoli a un livello estetico al limite tra l’inquietudine e il fantastico.
Tale ricerca visiva e contenutistica si inserisce nel filone antropologico percorso dal maestro Ernesto De Martino, che, con la sua équipe di studio multidisciplinare, narrò i retaggi della cultura magico-religiosa ancora esistenti in quell’epoca di grandi trasformazioni urbane e sociali che furono gli anni ’50 e ’60 del ’900.
Con queste intenzioni di analisi e visione narrativa, il corto tenta dunque di portare alla luce come alcuni retaggi della cultura magica del Sud Italia (che De Martino individua come artifici per combattere la cosiddetta crisi della presenza), abbiano trovato oggi una nuova declinazione, in cui i riti antichi e religiosi si mescolano con consuetudini moderne e contemporanee».

E dalla sinossi:

«Un uomo sul letto di morte compie un viaggio visionario tra il passato, il presente e il futuro della sua terra. In quei momenti diventa chiaro e limpido ciò che egli ha visto e conosciuto in vita, e che i riti magici che ha studiato ancora si manifestano nel paese, in forme molto più moderne».

La parte seconda del Bardo Tödöl si apre con l’immagine del morto che vede i congiunti piangere, gemere e affaccendarsi intorno a lui; ma essi non lo vedono. Egli sente che quelli lo chiamano; ma quando lui chiama essi non sentono. Sono invece le campane a “chiamare”, in apertura del corto, i dolenti a raccolta, nell’annuncio della morte di un giovane emerito studioso lucano.

Interno casa: prete, madre e cadavere. Vediamo, con gli occhi disincarnati del defunto, nella sua OBE definitiva, animarsi delle vecchie foto in bianco e nero: un rito contadino di allontanamento del diavolo, a protezione di campi e raccolti, e un paio di donne impegnate in una sorta di incantesimo o di lamentazione funebre. Poi il “risucchio” dell’io coscienziale verso l’alto, la vista dei tetti – come in un American Beauty nostrano, ma senza voce postuma narrante –, e il successivo, graduale avvicinamento ai rituali contemporanei che hanno preso il posto di quelli antichi: «il politico di turno che cerca il consenso di piazza additando un capro espiatorio esterno, la coppia che litiga in un bar» (dalla sinossi), e l’attivazione di nuove, tecnologiche pratiche catartiche per proteggere le relazioni amorose; fino all’odierno ricorso, di default, agli psicofarmaci nel vissuto di lutto, per supplire alla mancanza di una solida rete sociale di supporto; rete la cui necessità viene ribadita artisticamente dal corto stesso e, potremmo dire, dall’intera attività del regista, impegnato da molti anni – come antropologo e analista delle politiche urbane e territoriali – in una vasta progettualità multimediale finalizzata a facilitare la trasmissione di nuove pratiche comunitarie e di integrazione.

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Immagine di copertina:
un fotogramma da Daniele De Stefano, Bardo, 2020.