Mangio, dunque sono, perché non solo siamo quello che mangiamo, ma se non mangiamo non siamo e non pensiamo.

(Bud Spencer)

 

Astrarre

Siamo soliti immaginare l’astrazione come un’operazione che legittima il rapporto sottrattivo tra forma e materia. L’astrazione si propone di scindere in formule o protocolli specifici l’invischiamento di una realtà complessa e molteplice che, proprio perché disorganizzata, ci sfugge. Estraendo leggi dalla realtà fenomenica immediata, il pensiero si purifica dai suoi elementi di disturbo. L’ortodossia filosofica si è sempre presentata come il gradevole esito della disposizione di elementi compiuti, una sinfonia sui significati superiori depurata dal rumore di fondo della comune opinione. Dal sillogismo ai moderni schemi algoritmici, i meccanismi deduttivi ci catturano per la loro piacevole armonia. Un ragionamento corretto, ortodosso, è un ragionamento che “suona”. Un discorso dotato di un fondamento e di una conclusione logica consequenziale. E, da sempre, l’astrazione fa da metronomo a ogni nostra impresa razionale, distingue il ritmo buono da quello cattivo, l’accordatura dalla stonatura.

Astraendo, si interviene su un piano di speculazione grezzo in cui il limite tra il formale e il materiale, il sostanziale e il marginale, non è dato secondo una distinzione normativa precisa, ma nei termini di un intrico di omogeneità selvagge da discriminare, sterilizzare e assiomatizzare. In ciascuna delle sue istanziazioni, l’astratto è il diversificato, la variazione che emerge dal mutismo del non pensato. Abbiamo speso secoli di filosofia critica nel tentativo di far fiorire i semi dell’astrazione, così da nutrire le diversità più disparate. Siamo stati sedotti dalla prossimità edificante tra il pensare e il misurare, il ragionare e l’edificare. La semantica filosofica si è nobilitata nel tempo di titoli e analogie altisonanti, sfociando nel mito umanista della sintesi e della costruzione, dell’emergenza e della creazione. Anche se riproposta sotto nomi diversi, l’astrazione si è sempre fatta carico di lasciar divampare la nostra passione per la differenza, di portare a termine la progressiva emancipazione dell’altro dall’eguale.

Secondo questa procedura, il pensiero deve essere eterogeneo per definizione: pensare è iniettare la disarmonia laddove sussiste l’impenetrabilità dell’indifferenza; astrarre significa distillare forme nell’incessante immutabilità del reale, al punto che ogni operazione astrattiva possa germogliare come una voce, una particolarità celata o un sintomo che nutra la complessità di questo piano grezzo chiamato, ancora e nonostante tutto… reale.

Tuttavia, per un ironico paradosso, è proprio laddove si ritiene più libera che l’astrazione scade nel con-formismo. L’illusione della costruzione a partire dalla sottrazione tramuta la ragione in un cortocircuito maniacale: essa tende a estrarre i suoi prodotti ridisponendo le determinazioni della materia nella persistenza di forme date in anticipo.

Celebrata per secoli come una delle lame più affilate del pensiero, l’utensile in grado di dissezionare il falso dal vero, il male dal bene, l’irreale dal reale, la pratica astrattiva si risolve fin troppo spesso in un insuperabile paradosso autoreferenziale: il vivo che muove le membra del morto o, in termini strettamente alimentari, il vivo che si nutre del morto.

Mangiare

Il vizio di questo modo di procedere è tanto ovvio quanto, a suo modo, sospetto: l’oggetto che perviene al pensiero nella pratica astrattiva è dato come immediatamente manipolabile, laddove questa presunta malleabilità ‘naturale’ è a sua volta frutto di un’astrazione precedente, implicita e, in tutta probabilità, illecita. Illudendosi di agire come un solvente universale, l’ingegnere di un’interfaccia empiricamente accessibile, l’astrazione scivola nella trappola dell’autofondamento, nell’aporia dell’oggetto come l’impensabile già rovesciato nel pensabile. La più nobile traccia del pensiero che si prefigge di costruire la novità del formale a partire dalla staticità del materiale si rivela alla prova del tempo come un futile girare in tondo o, nei termini dell’antropologia negativa bataillana/lacaniana, come il circolo fisiologico di ciò che passa dall’orifizio boccale a quello anale.

Il noto adagio feuerbachiano del “siamo quel che mangiamo”, del resto, potrebbe essere facilmente scomposto in questo modo: “siamo quel che pensiamo” e, di conseguenza, “pensiamo quel che mangiamo”. Le nostre abitudini alimentari ci impongono che il vivo mangi il morto, così come che la ragione si protenda indefinitamente verso l’impensato. Ma cosa detta i limiti del morto e dell’impensato? E cosa accomuna il mangiare al pensare?

In primo luogo, e in termini puramente culinari, astrarre è disossare: liberare la polpa dall’osso, il malleabile dal non malleabile, l’edibile dal non edibile. Se praticato con la giusta perizia, il disossamento ci consente di separare le parti (ritenute) nobili dagli scarti, così come l’astrazione solleva il concetto dai suoi vincoli contingenti per omologarlo alle leggi alimentari della ragione.

Analogamente alla filosofia, anche l’alimentazione umana non può prescindere dalla diade soggetto-oggetto. La lama che incide il budello e strappa le frattaglie dalla polpa trova il suo corrispettivo (altrettanto macabro) nell’intelletto che divide l’ammissibile dall’inammissibile, ciò che la ragione può ingurgitare e digerire da ciò che le procurerebbe altrimenti nausea, fastidio o… peggio.

Un pratico esempio della compenetrazione tra mangiare e pensare ci viene offerto dalla frollatura della carne animale. L’animale servito in tavola come grigliato, arrostito, bollito o persino marinato è l’esito di un raccapricciante processo di reificazione in cui è l’alimentazione a instradare il tracciato del pensiero: strettamente parlando, non c’è questione animale che non scaturisca da una riorganizzazione delle nostre tendenze alimentari, così come non esisterebbe vegetarianismo o animalismo senza la vergogna della macellazione. La bocca che parla e fa da tramite al pensiero è prima di tutto la cavità violenta che inaugura il canale alimentare, la parte che si ribella alla fame con espressioni di collera, sofferenza e terrore strazianti. Del resto, non si pensa mai a stomaco vuoto.

In secondo luogo, mangiare e pensare condividono lo stesso orrore per la deiezione, per quell’ambito maledetto che ogni “buona abitudine” è incapace di giustificare. La coprofagia, il nutrirsi di escrementi propri o altrui, è ritenuto un impulso patologico anormale, frequentemente associato alle manifestazioni schizofreniche. Eppure, ridurre le capacità astrattive a una semplice questione di positivo e negativo, di prodotto e scarto, vorrebbe dire sottovalutare le potenzialità segregative dell’astrazione. Come ci ricorda Bataille, anche l’ambito degli scarti può divenire preda dei capricci della ragione, anche il ciarpame può essere ulteriormente suddiviso in un ennesimo ciclo di produzione e deiezione. Tutto può essere riciclato, riutilizzato, reimmesso nel circolo vizioso della produzione, a patto che venga prima purificato dalle sue scorie, e così via all’infinito. Ma l’errore di questo modo di procedere è evidente: astrarre implica la permanenza formale della scoria a dispetto della consistenza materiale del prodotto. L’universale si nutre sempre e parassiticamente dell’esclusione di un particolare ritenuto informe: la totalità definita traccia i suoi confini a spese della particolarità abietta. Mentre il processo astrattivo si pone come un progressivo raffinamento della forma a discapito della materia, della formula al di sopra del contenuto, l’innesco dell’intero procedimento scaturisce da una (insondata) predilezione per il rifiuto del formale a vantaggio del materiale. Prima ancora di sapere come disporre del nostro pasto, ci impegniamo nella gestione degli scarti: ciò che si butta precede ciò che si consuma. Le sempre più diffuse ricette sull’utilizzo delle rigaglie mimano la stessa prassi astrattiva delle filosofie che si autodichiarano voci delle cosiddette “letterature minori”: non si mischiano i resti con le parti buone, o si è frammentari o si è sistematici.

Sputare

Parallelamente alle diete e alle pratiche di educazione alimentare, la scienza medica ci ha propinato negli anni tutta una serie di prescrizioni volte a separare la buona dalla cattiva deiezione. Persino la materia intestinale, nella sua ripugnante consistenza, è solitamente intesa nei termini di un’escrezione regolare oppure anomala.

È una dicotomia che ricorre anche nel controverso saggio freudiano La negazione 1 che può essere riletto a tutti gli effetti come un esercizio filosofico sul trattamento delle deiezioni psichiche inconsce. Freud identifica la funzione del giudizio, l’accordare o il contestare l’esistenza nella realtà a una rappresentazione, con il linguaggio dei moti pulsionali orali primitivi, al “questo lo voglio mangiare o lo voglio sputare” o, più in generale, al “questo lo voglio introdurre in me e questo escluderlo da me”. La grande lezione epistemica della psicoanalisi consiste nel dimostrare come le funzioni della ragione sottostanno a un’originaria distinzione tra ciò che il soggetto reputa inconsciamente benevolo e ciò che reputa inconsciamente maligno. Il processo conoscitivo condotto dall’esame di realtà è subordinato a quello del principio di piacere, a sua volta espresso nella dicotomia ingestione-espulsione. Tuttavia, ci dice Freud, il rapporto tra le due forze deve essere inteso in senso radicalmente divergente. Da un lato, tutto ciò che viene assunto è tale perché precedentemente ingerito. L’esame di realtà non opera attraverso la mera percezione dell’oggetto esterno, quanto piuttosto in direzione del suo ritrovamento. Per quanto l’astrazione voglia osare, la ragione deve sempre rimanere vigile, controllare il punto sin dove si spingono le sue deformazioni rispetto all’oggetto originale. Dall’altro, ciascuna assunzione viene legittimata dalla ripercussione di un’espulsione originaria: da un punto di vista psicoanalitico, “questo non l’ho mai pensato” equivale a dire “questo non l’ho mai mangiato”. Il senso grammaticale e logico della negazione quale procedimento inaugurale del pensiero tout court deriva da una metafora puramente alimentare.

Soffocare

Nell’estremo Oriente, è pratica comune che i commensali si cibino di molluschi vivi. In Corea, questo genere di pasti viene chiamato sannakji, una pietanza di polpi crudi ancora vivi accuratamente serviti a base di sesamo. Il principale rischio nel consumare questo tipo di pasto è che le ventose dei tentacoli si attacchino alle mucose della gola o della bocca, provocando soffocamento. Che i tentacoli si dimenino nel piatto oppure nella gola non rappresenta solo un bizzarro vezzo gastronomico, ma una vera e propria performance in cui il soggetto che mangia e l’oggetto mangiato rischiano di invertire clamorosamente i propri ruoli.

Per noi occidentali si tratta di uno scenario a dir poco eretico: come si potrebbe divenire preda del proprio pasto? L’astenersi dal mangiare pietanze vive, che rischierebbero di sopraffare il commensale, si ripercuote su quello del pensatore che viene sopraffatto dal pensiero, e cioè sulla tipica figura del folle. Essere soffocati dal proprio pasto, in questo senso, non è poi così diverso dal rimanere vittime del proprio pensiero.

Al riguardo, tanto la cucina quanto il cammino della ragione hanno sviluppato nel tempo strumenti e tecnologie per rendere il procedimento astrattivo quanto più preciso e sicuro possibile. Distinguere il commestibile dal non commestibile, il pensabile dall’impensabile, il vivo dal morto, sono assurte nel tempo non soltanto a semplici operazioni di divisione e discriminazione, ma ad autentiche metodologie per la ricerca dell’unità utilitarista per eccellenza: tutto ciò che finisce nel piatto deve essere mangiabile in tutta tranquillità, tutto ciò che giunge al pensiero deve essere analizzabile senza rischi di sorta. La prassi culinaria e quella filosofica hanno per secoli utilizzato il progetto dell’astrazione alla stregua di un’operazione di igiene totale, in cui l’escissione e il taglio, la separazione e la sottrazione, sono state erroneamente intese come una strategia di unificazione, piuttosto che di esclusione.

Sprecare

Rispetto al nostro regime epistemico-alimentare, il dispendio di Bataille può essere inteso come una forma di opposizione radicale alla pratica austera dell’astrazione. Lo spreco suntuario appare di primo acchito come uno sperpero di risorse non necessario, un dissidio immorale tra la disposizione del ragionevole e del non ragionevole, del morto e del vivo, dell’edibile e del non edibile. Lo spreco cozza con tutte quelle visioni che dettano l’acquisizione e la conservazione dei beni come una pratica utile, imbastita per il nobile fine del consumo consapevole. A un livello più generale tuttavia, l’esposizione al dispendio, all’anomia delle intossicazioni e degli impulsi di eccitazione illogici, ci dimostra che il vero “spreco” non starebbe tanto nella dilapidazione irresponsabile delle risorse, quanto piuttosto nel reiterato tentativo di dividere indefinitamente il formale dal materiale: allontanando da sé l’abietto per la buona causa del metodo, il pensiero inciampa in uno sperpero persino più grande e oltraggioso. L’astrazione per come la conosciamo, forse, non è altro che uno sforzo non necessario piegato alle norme fondamentali della produzione e della conservazione, e cioè uno scriteriato sperpero alimentare.

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Note:

1) S. Freud, Opere, vol. 10 (Bollati Boringhieri, 1989), pp. 197-201 (pp. 199-200).

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Immagine di copertina:
Jacopo Chimenti, Dispensa con pesce, carne, uova sode e fiasca di vino, 1625