Vala le pena di ritornare sulla celeberrima ode pariniana alla luce del recente discorso diffuso su letteratura e ambiente. Come sottolinea Massimiliano Malavasi in un suo recente articolo,1

«[i]l nome di Giuseppe Parini è tra i primi che vengono alla mente quando s’indaga sulla tradizione letteraria italiana e sulla coscienza del complesso rapporto che lega l’uomo al suo ambiente naturale. D’altra parte l’ode Della salubrità dell’aria vanta una lunga tradizione di lettura e commento scolastico e si impone nella memoria comune come una delle prime riflessioni in poesia sul problema dell’inquinamento urbano» (p. 67).

Già Niccolò Scaffai affermava che

«[c]’è una data precisa: il 1759. È in quell’anno, infatti, che Giuseppe Parini, esercitandosi intorno a un argomento proposto dall’Accademia dei Trasformati, compone l’ode La salubrità dell’aria. Lo spunto proveniva dall’attualità tecnologica: l’introduzione a Parigi di una macchina per svuotare i pozzi neri, di cui aveva dato conto anche la “Gazzetta di Milano”, all’epoca diretta da Parini stesso».2

La denuncia del danno ambientale e sociale causato dall’agricoltura intensiva da parte dei proprietari terrieri e dello stato di abbandono in cui vivono le classi popolari cittadine è fra i temi impegnati che emergono nelle Odi di Giuseppe Parini e si trova in particolare ne La salubrità dell’aria.
Si tratta di un’ode in ventidue sestine di settenari suddivise in una quartina a rima alternata e un distico finale in rima baciata. L’ode, molto nota e spesso banalizzata, manifesta l’indignazione del poeta verso lo sfruttamento malsano della terra che provoca malattia e indigenza fra i contadini.

«Mira dipinti in viso
di mortali pallori
entro al mal nato riso
i languenti cultori;
e trema, o cittadino,
che a te il soffri vicino» (vv. 37-42).

La malattia (la malaria) che affligge i contadini è causata dalla trasformazione delle paludi in risaie per lucro. I proprietari terrieri milanesi che per profitto misero a coltura la campagna acquitrinosa attorno all’area urbana, invece di bonificarla, vengono attaccati duramente dal poeta, il quale condanna anche la scellerata politica sanitaria milanese. Come già anticipato, si tratta di uno dei primissimi esempi di letteratura ambientalista che possiamo trovare nella letteratura italiana.
In generale, il primo esempio di poesia autenticamente antropocenica è considerato una poesia di Byron composta nel cosiddetto “anno senza estate”. Come scrive Eva Horn,

«[u]n primo, ma nella sua radicalità difficilmente superabile, scenario letterario venne delineato da Lord Byron nel 1816 con la lirica intitolata Darkness che dipinge la visione di un oscuramento totale della Terra, ma che è essa stessa la traccia lirica di un disastro climatico globale che condizionò fortemente il tempo meteorologico negli anni fra il 1816 e il 1819. Nei mesi di luglio e agosto del 1816, quando Byron scrisse la poesia mentre si trovava in villeggiatura in una località del Lago Lemano in compagnia di Mary e Percy Shelley, la temperatura era insolitamente bassa per l’estate svizzera: nevicava, l’aria era grigia e fosca, e vi furono inondazioni e massicce perdite di raccolti. La causa scatenante era stata l’eruzione devastante del vulcano Tambora, nell’attuale Indonesia, avvenuto l’anno precedente».3

La lirica di Byron, più tarda e di diversa ispirazione, si concentra sullo stato di angoscia causato dall’atmosfera apocalittica ivi descritta e sul crollo dell’ordinamento sociale seguito da «una guerra di tutti contro tutti».4 Lo scenario delineato da Byron anticipa quello che ritroviamo ne La strada di Cormac McCarthy:

«La fine dell’umanità corrisponde alla dissoluzione dell’ultimo tabù: il divieto di mangiare carne umana. Ciò che interessa a Byron è la connessione puntuale fra il disastro climatico e il comportamento umano […] L’idea di Byron è di mettere a fuoco la capacità di resistenza dell’uomo di fronte a una catastrofe globale senza vie d’uscita e che non lascia scampo a nessuno».5

Seppure direttamente ispirata dalla questione ambientale a lui contemporanea, l’idea byroniana segue una traiettoria inversa rispetto a quella di Parini, partendo dalla situazione contingente per delineare un quadro di apocalisse, in cui non vi è alcuna speranza per l’uomo di salvarsi. Non è quindi l’interesse scientifico, tipicamente illuminista, verso una risoluzione di problemi di natura socio-economica ciò che interessa a Byron, ma semmai lo anima una visione universale secondo la quale la struttura della società umana è debole e soccombe davanti a una natura matrigna, nemica. Attraverso un incubo che si trasforma in realtà, il mondo mutato in modo drastico diviene inospitale, facendo decadere i fondamenti della società umana, tanto cari allo spirito illuminista.
Di diverso avviso è Parini, che non a caso scrive in epoca pre-rivoluzionaria, e il cui interesse per il progresso è in linea con lo spirito della sua epoca. Non direttamente collegata a questioni climatiche di ampia portata – come la poesia di Byron –, l’ode pariniana testimonia l’impatto ambientale causato dalla preferenza riservata al profitto invece che al benessere comune. Parini paragona l’ambiente salubre della Brianza a quello di Milano, reso fetido e malsano dai comportamenti umani, senza tuttavia calcare sull’elemento orrido, per quanto presente.
La denuncia del danno ambientale causato dall’agricoltura intensiva assume un tono perentorio nella sestina dedicata alle responsabilità dirette dei proprietari terrieri:

«Pèra colui che primo
a le triste oziose
acque e al fetido limo
la mia cittade espose;
e per lucro ebbe a vile
la salute civile» (vv. 25-30).

Nella sestina successiva, Parini recupera l’immagine dello Stige dall’inferno dantesco, e attraverso il contrappasso indica una punizione adeguata a chi si macchia di danno ambientale. Il richiamo alla visione del poeta fiorentino ne ricalca anche il gusto per l’invettiva:

«Certo colui del fiume
di Stige ora s’impaccia
tra l’orribil bitume
onde alzando la faccia
bestemmia il fango e l’acque
che radunar gli piacque» (vv. 31-36).

L’avidità degli aristocratici milanesi è al centro di una sestina dedicata al doppio danno che essi causano con il loro comportamento: oltre a rovinare l’ambiente per aumentare il loro profitto, con le lussuose carrozze investono i poveri per le strade della città:

«E la comun salute
sagrificossi al pasto
d’ambiziose mute
che poi con crudo fasto
calchin per l’ampie strade
il popolo che cade» (vv. 79-84).

L’argomento è fin troppo attuale: le vetture dell’epoca ricordano i SUV nelle nostre città, frutto di attività non più sostenibili, ed essi stessi veicoli ingombranti, pericolosi per la gente comune e insostenibili dal punto di vista ecologico, per quanto questo paragone con la città contemporanea sia già stato considerato banale.6 In questa sestina osserviamo che Parini coglie le contraddizioni del proprio tempo con mentalità illuminista, ne individua le questioni più critiche e le mette in relazione con il tema più caro al pensiero settecentesco, cioè quello del benessere e delle condizioni di vita di tutta la popolazione, senza distinzione fra le classi sociali. L’impegno di Parini in questa sestina raggiunge una punta di contemporaneità degna di nota. Va tenuto conto, nello studio della comparsa in letteratura di temi e motivi legati alla questione antropocenica, del fatto che l’impatto ambientale delle attività umane è stato osservato e testimoniato fin da subito, anche se l’ideologia dominante dagli albori del sistema capitalista ha evitato accuratamente di occuparsene, e continua su questa strada, nonostante lo sfacelo sia chiaro a chiunque.

Nella denuncia di Parini rientra anche il danno sociale causato dalla cattiva amministrazione, che, oltre a lasciare che i contadini si ammalino, come abbiamo già visto sopra, non rimedia all’assenza di un adeguato sistema fognario per la raccolta dei rifiuti biologici. Il poeta sposta l’attenzione su ciò che avviene ai piedi dei palazzi della nobiltà, e in questo anticipa la prosa dickensiana dedicata agli slum londinesi («Ma al piè de’ gran palagi | là il fimo alto fermenta | e di sali malvagi | ammorba l’aria lenta», vv. 91-96). L’assenza di una politica sanitaria che preveda un sistema fognario adeguato e lo smaltimento delle carcasse animali, quindi per esteso anche assenza di una cultura animalista, sono al centro delle strofe successive:

«Quivi i lari plebei
da le spregiate crete
d’umor fracidi e rei
versan fonti indiscrete
onde il vapor s’aggira,
e col fiato s’inspira.

Spenti animai, ridotti
per le frequenti vie,
degli aliti corrotti
empion l’estivo die:
spettacolo deforme
del cittadin sull’orme!» (vv. 97-108).

Il popolo che affolla le case dei vicoli non sapendo come disporre delle proprie deiezioni le getta sulla strada, ammorbando l’aria di un fetore insopportabile. Fra le stesse vie, non esistendo una prassi sanitaria e veterinaria che si occupi degli animali randagi, spesso si incontrano carcasse che si decompongono negli spazi abitati dagli umani, spettacolo orripilante e al contempo fonte di malattie. La denuncia di Parini delle condizioni di vita delle classi popolari culmina in questa immagine ripugnante, la cui funzione è di esaltare la purezza e la salubrità dell’aria (da cui il titolo dell’ode) della Brianza, zona all’epoca ancora non intaccata dallo sviluppo industriale e dipinta dal poeta con tonalità liriche. All’orrore delle strade cittadine, infatti, Parini reagisce abbandonandosi a fantasie bucoliche sull’esempio classico, pregustando un suo ritorno nella salubre terra che gli diede i natali – il poeta infatti nacque a Bosisio, oggi per l’appunto ribattezzata Bosisio Parini. La celebrazione del paesaggio naturale inteso come locus amoenus ricorre nell’opera pariniana, come ad esempio nella lirica Là sull’alto del colle e da quel lato.7 Tuttavia, il suo desiderio, espresso attraverso l’imitazione delle tematiche bucoliche, di tornare a uno stato quanto più possibile “naturale” rimarrà sospeso. Si dovrà leggere in modo ravvicinato la seconda sezione delle odi per comprendere che l’indignazione giovanile verrà presto sostituita da una poetica orientata a unire, come dice il poeta stesso nella chiusa dell’ode, l’utile al dilettevole. È nella sestina di chiusura che Parini rivendica come la sua poesia segua una «negletta via», ovvero la strada della denuncia sociale, che gli altri poeti non perseguono, in questo modo sottolineando la sua unicità. Il poeta è felice solo quando può mettere la sua arte al servizio dell’utile, quando può, attraverso la sua «fantasia», la sua creatività, manifestare il suo impegno civile:

«Va per negletta via
ognor l’util cercando
la calda fantasia
che sol felice è quando
l’utile unir può al vanto
di lusinghevol canto» (vv. 127-132).

Nel tentativo di rintracciare un’ottica che distingua chiaramente fra paesaggio metaforico e ambiente in senso proprio, includendo nella nozione anche lo sguardo antropocenico, quindi pensando al pianeta e alle sue risorse più che al paesaggio e alla sua significazione, l’ode di Parini segna quindi una cesura. Il poeta lombardo non ricorre a visioni naturali simili alla lirica di Byron, che risente ancora di un certo afflato ossianico, ma con sguardo lucido individua invece le responsabilità politiche e amministrative dello scempio ambientale a lui contemporaneo, le cui conseguenze paga in prima persona, inaugurando una visione ambientalista nella letteratura italiana.

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Note:

1) Massimiliano Malavasi, Industria, paesaggio e natura in Parini, in Dal paesaggio all’ambiente. Sentimento della natura nella tradizione poetica italiana. Atti del convegno internazionale di studi dell’Università di Roma Tor Vergata, Roma, 9-10 maggio 2019, a cura di Roberto Rea (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020), pp. 67-89.
2) Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa (Carocci, 2017), p. 175.
3) Eva Horn, Biopolitica della catastrofe. Comunità di sopravvivenza, immaginario della catastrofe climatica e politiche della sicurezza, a cura di R. Scolari (Mimesis, 2021), p. 51.
4) Ibid., p. 52.
5) Ibid., p. 53.
6) Si veda M. Malavasi, cit., p. 67, n. 1: «È stato rilevato come il nome di Parini venga frequentemente associato, con una certa superficialità, proprio al tema dell’inquinamento attuale della città di Milano, a conferma di quanto nel sentire comune il ricordo dell’ode ‘ecologista’ caratterizzi l’immagine dello scrittore (cfr. A. Rondini, La salubrità della poesia. Giuseppe Parini nel giornalismo contemporaneo, «Studi sul Settecento e l’Ottocento», V (2010), pp. 11-23)».
7) Ibid., p. 70.

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Immagine di copertina:
Bernardo Bellotto, Veduta di Vaprio d’Adda, 1744, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli – via Wikimedia