«Se avessi voluto vivere, sarei morto». Così comincia A. Clarence Shandon, classico businessman americano, cinico e apatico, in viaggio su un piroscafo chiamato Naglfar. Naglfar, nella mitologia norrena, è la nave degli inferi, costruita con le unghie dei morti. Una volta terminata la sua costruzione, avrà inizio il Ragnarǫk, ovvero la fine del mondo. Questo è il primo degli indizi che ci dirà cosa ci aspetta in Silverlock dello scrittore americano John Myers Myers, pubblicato nel 1949 dalla storica E. P. Dutton.

John Myers Myers nasce nel 1906 a Northport, Long Island. A New York, dove si trasferisce per studiare, viene espulso da un college per aver scritto delle parole poco lusinghiere sull’istituto. Si iscrive dunque all’università del New Mexico per studiare antropologia, ma non riesce a completare alcun esame. Comincia a viaggiare in Europa e attraverso tutti gli States, lavorando come copywriter e giornalista per diverse riviste. Si sposa a Fort Knox, nel Kentucky, e durante le ricerche per un suo libro, The Last Chance, si innamora dell’Arizona e lì rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 1988.

John Myers Myers, Silverlock

Nonostante la sua bibliografia comprenda numerosi libri storici e narrativi ambientati nel selvaggio West americano, Myers è stato proclamato autore di culto con la pubblicazione di Silverlock, che ha ancora molti ammiratori tra gli amanti del fantasy d’oltreoceano, e che attende ancora una traduzione e un riconoscimento in Italia. Myers scrisse persino un sequel, pubblicato nel 1981 col titolo di The Moon’s Fire-Eating Daughter. Ma perché Silverlock ha raggiunto una fama leggendaria, seppure ancora oscura al grande pubblico?

Molti sono gli esempi in letteratura di intertestualità, personaggi che si intrufolano nel racconto modificando il corso degli eventi e arricchendo le possibilità narrative. Gli archetipi cambiano di nome e forma, come in un ballo in maschera, ma riuscire a riconoscerli dona al lettore quel potere, quella pazienza e quella eccitazione che può avere un ragno nel tessere la sua tela, immaginando assieme allo scrittore in una dimensione che faccia incontrare tutte le possibilità della finzione. Silverlock è in fondo un gioco simile a quello dei tarocchi, come ne Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, in cui gli indizi e le combinazioni narrative possono essere infinite. Proprio come gioco bisogna intenderlo, non solo come opera di letteratura. In questo gioco, tuttavia, vi è un percorso che sta al lettore decidere se intraprendere.

Diviso in tre parti come la Divina Commedia, il viaggio che compie il protagonista è quello di ognuno di noi. Lo straordinario potere della letteratura permette a qualsiasi individuo di liberarsi dal peso e dai limiti della propria esistenza, arricchendola con visioni e avventure che rimettono in discussione tutto ciò che credeva di essere o di avere. In Silverlock finzione e metafinzione non sono altro che mezzi per esplorare, e l’esplorazione in alcuni casi ha come obiettivo l’esplorazione stessa. Ma da Gilgamesh all’Ulisse di Joyce e per tutto ciò che è venuto dopo, fino a questi turbolenti anni del nuovo millennio, la domanda è sempre la stessa: qual è la sorte dell’umanità? Siamo destinati a qualcosa di straordinario? Vale la pena percorrere sentieri che altri hanno già percorso? I miti, le leggende e tutte le storie che conosciamo sono degli strumenti che possono servirci per muoverci nel mondo e ritrovare la strada perduta, o sono soltanto puro intrattenimento che ci permette semplicemente di distrarci dal pensiero della caducità di tutte le cose?

In seguito a un incidente, il piroscafo Naglfar affonda in mare. Shandon, in precedenza apatico e annoiato a morte dai suoi affari e dalla sua vita monotona e priva di scopo, è l’unico sopravvissuto al naufragio e si ritrova presto a scoprire il mondo come non lo aveva mai visto, approdando a una terra leggendaria, il Commonwealth of Letters. Qui troverà il bardo Golias che, come Virgilio, lo guiderà in una vera e propria odissea negli abissi dell’immaginazione umana. Shandon, ignorante e totalmente disinteressato alla poesia e alle altre arti, per sopravvivere dovrà imparare a riconoscere tutti i nomi dei personaggi che si susseguono inarrestabilmente lungo la storia. Incontrerà, tra gli altri, Circe, Robin Hood, Beowulf, Faust, il Vecchio Marinaio di Coleridge, Don Chisciotte, il capitano Achab, Edipo, Giobbe, il Cavaliere Verde, Amleto. Il risultato è divertente e assurdo come nelle migliori avventure cinematografiche di Terry Gilliam, sebbene richiami più alla mente La Lega degli Straordinari Gentlemen di Alan Moore. Ogni frase nasconde un collegamento a qualche altra opera, ogni nome o evento richiama quello di altre mitologie sparse nel mondo, distanti nel tempo e nello spazio. I richiami sono così numerosi che l’ultima edizione del 2004 contiene un ulteriore libro (The Silverlock Companion) per accompagnare il lettore attraverso tutti i riferimenti, e c’è chi crede che non siano stati tutti identificati! Sterile esercizio di stile? Divertimento riservato esclusivamente ai letterati? Forse, oserei dire, la possibilità di incuriosire chi non si è ancora avvicinato ai classici e vuole farlo, riscoprendo le sciagure e i prodigi di tutta l’avventura umana, evadendo, come Shandon, dalle noie dell’uomo contemporaneo, ritornando all’estasi del fanciullo che apre un libro per la prima volta e sogna di poterci vivere dentro, uscendone assieme al protagonista un po’ confuso, ma anche rinvigorito e purificato. Come afferma uno dei personaggi, «un uomo non è morto finché non smette di essere curioso».

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Immagine di copertina:
illustrazione di Walter Velez per l’edizione ACE Books del 1979 (particolare)